HAFTAR, TERZA MOSSA CONTRO L’ITALIA: BOICOTTERA’ LA CONFERENZA DI ROMA
LA DEMENZIALE POLITICA DEL GOVERNO ITALIANO STA PER AVERE I SUOI FRUTTI: TAGLIATI FUORI DAL FUTURO GOVERNO DELLA LIBIA… GRAZIE AI CAZZARI CHE REGALANO 12 MOTOVEDETTE A SERRAJ CHE NON CONTA UNA MAZZA
Khalifa Haftar ha messo nel mirino l’Italia. Il generale sta mettendo in campo una strategia in più fasi.
Prima mossa: l’ambasciatore non è più gradito. Seconda mossa: per i protettori di Serraj non vi sono porti sicuri in Libia. Terza mossa: tribù e milizie a lui fedeli in Cirenaica, così come il governo di Tobruk, boicotteranno la Conferenza di Roma sulla Libia del prossimo autunno.
Lo scontro è a tutto campo. E investe non solo “l’emergenza” migranti ma anche la torta petrolifera. Una torta miliardaria.
Perchè, confidano all’HuffPost fonti di Bengasi, se Roma continuerà a voler sostenere politicamente, ad equipaggiare militarmente (vedi motovedette), e a promettere finanziamenti, via Europa, al Governo della “nullità di Tripoli” (così Haftar liquida Serraj), allora l’Eni dovrà lasciare spazio (e giacimenti) alla francese Total.
Sul tavolo ci sono quelle elezioni in Libia che Parigi vede con favore e Roma no. “Possiamo discutere sulla presenza di osservatori internazionali, ma sia chiaro: la data di dicembre non è negoziabile. E se l’Italia intende assecondare la marcia indietro di una parte (Serraj, ndr) se ne assumerà tutte le conseguenze”, avverte la fonte.
È in questo scenario sempre più perturbato che s’innesta “l’affaire Aquarius”, la nave che resta in mezzo al Mediterraneo, ferma tra Malta e Lampedusa in attesa di istruzioni per un porto sicuro. Roma ha chiamato in causa Malta, Libia, Germania, Francia, Gran Bretagna. Al momento, le risposte avute sono dello stesso tenore: tutti dicono non è affar nostro.
L’odissea dell’Aquarius troverà una soluzione, sia pur rabberciata. Ciò che invece è destinato a farsi ancor più complesso ed esplosivo è il rapporto con la Libia.
Nella sua missione di fine giugno a Tripoli, Salvini aveva discusso anche di nuove regole d’ingaggio condivise, tra Roma e Tripoli, nel contrasto all’immigrazione clandestina, oltre che di un rafforzamento del sostegno italiano alla Guardia costiera libica, e di finanziamenti per implementare i centri di detenzione per migranti (attualmente sono in tutto 34, controllati dal ministero dell’Interno di Tripoli).
In quel frangente, il titolare del Viminale aveva fatto una apertura di credito totale a Serraj e ai suoi uomini, promettendo (cosa che è avvenuta) mezzi alla Guardia costiera fedele al governo di Tripoli, e garantendo che una parte delle risorse finanziarie del Africa Fund Ue sarebbero state destinate alla Libia in funzione di contenimento dei flussi migratori sulla rotta mediterranea.
Per Haftar quel sostegno è una implicita dichiarazione di ostilità , che viene a pochi mesi dalle elezioni presidenziali e legislative del 10 dicembre concordate con Serraj nel vertice di Parigi (29 maggio), fortemente voluto dal presidente francese Emmanuel Macron.
Da quella Conferenza uscì fuori che le istituzioni libiche non saranno più divise tra Tripoli e Tobruk, ma verranno unificate, proprio in vista delle elezioni decise per il prossimo 10 dicembre.
Per i rappresentanti di Tobruk ciò implicava un “pari trattamento” tra le parti contendenti. E sempre per Tobruk, l’atteggiamento italiano è venuto meno a questa implicazione.
In risposta alla sfida di Roma, Haftar e le milizie che lo sostengono giocano la carta dei barconi per lanciare un avvertimento-ricatto all’Italia: non è Serraj l’Erdogan libico, e lo scoprirete a vostre spese.
Ormai tra colui che comanda l’Esercito nazionale libico (Lna), una milizia di circa 40mila uomini, e l’Italia che ha scelto Serraj, una ricomposizione appare sempre più problematica, e le ultime mosse ne sono la riprova.
I segnali che giungono dal Paese nordafricano non inducono all’ottimismo.
“Come voi sapete – ha detto un portavoce delle milizie libiche – nei nostri campi ci sono 52.031 potenziali richiedenti asilo da Siria, Sudan, Palestina ed Eritrea. Se partono, dovreste prenderveli tutti. Meglio, quindi, che non partano”: più che un consiglio, è una, neanche troppo larvata, minaccia.
Su un punto, Serraj e Haftar convergono, come hanno avuto modo di constatare emissari della nostra ambasciata a Tripoli che li hanno incontrati recentemente: il flusso di denaro aperto dagli accordi “sotterranei” tra il precedente governo italiano (con il ministro Minniti sugli scudi) e le tribù e milizie, in gran parte legate ai due contendenti libici, non si deve arrestare.
Senza quei soldi, sarà esodo forzato di massa dei potenziali richiedenti asilo oggi “contenuti” nei 34 centri di detenzione in Libia.
Non solo soldi: da Tripoli vogliono anche armi per sostenere la Guardia costiera. Per questo, chiedono che l’embargo sia levato: richiesta fatta propria dall’Italia, ma già bocciata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Le autorità di Tripoli hanno peraltro ribadito a più riprese il loro “no” categorico alla creazione di hotspot europei sul territorio libico
La partita è senza esclusioni di colpi. E lo schema che si riproduce è Serraj-Roma da un lato, Haftar-Parigi dall’altro.
La stabilizzazione della Libia ha un’importanza strategica. In primo luogo dal punto di vista dei flussi migratori che dal Nord Africa spingono per raggiungere l’Europa, attraverso l’Italia.
Un altro aspetto rilevante è di carattere economico: il paese ha ingenti risorse di petrolio e gas. A giugno Haftar ha bloccato quattro terminal petroliferi nella parte orientale del Paese, con conseguente crollo della produzione nazionale.
La Francia mantiene il punto sulle elezioni in Libia, che vorrebbe vedere realizzate entro dicembre, e poche settimane fa il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian ha fatto il tour dei principali responsabili del Paese nordafricano, per fare pressione proprio sul voto da organizzare e che buona parte della Comunità internazionale, Italia compresa, ritiene prematuro nei tempi prospettati da Parigi.
Il titolare del Quai d’Orsay si è recato nelle roccaforti di tutti i protagonisti dell’accordo di Parigi.
Oltre a Serraj e al presidente del Consiglio di Stato (la camera alta) Khlaled al-Mechri, entrambi a Tripoli, l’emissario francese ha incontrato Haftar nel suo quartier generale di Bengasi e il presidente della Camera dei rappresentanti, Aguila Salah, a Tobruk, 1.200 chilometri ad Est dalla capitale.
I responsabili consultati da Le Drian si sono impegnati a organizzare le elezioni il 10 dicembre e a procedere a una riunificazione del Paese, a cominciare dalla Banca centrale, cruciale per il controllo delle entrate dall’estrazione del petrolio. La Francia “appoggia gli sforzi di tutti” coloro che vogliono arrivare ad elezioni nei tempi concordati a Parigi, ha martellato Le Drian, alla sua terza trasferta in Libia.
Il ministro degli Esteri ha annunciato un contributo francese di un milione di dollari (850mila euro) per l’organizzazione degli scrutini. Le Drian ha anche fatto tappa a Misurata, città costiera 200 chilometri a Est di Tripoli, controllata da potenti milizie e non associata al processo di Parigi. Qui ha incontrato il sindaco Mustafa Kerouad, degli eletti locali e dei deputati.
A differenza dei ministri italiani che hanno visitato in rapida successione Tripoli (Salvini, Moavero Milanesi, Trenta), Le Drian ha sì incontrato Serraj (a capo dell’unico governo libico riconosciuto internazionalmente) e altri esponenti del suo esecutivo.
Ma l’emissario francese è andato oltre, trattando con Haftar e con il parlamento di Tobruk, cosa che l’Italia, in tutte e tre le visite non ha fatto. E non certo per problemi di tempo.
Come sintetizza l’agenzia Afp in un lungo articolo sulla nuova missione libica di Le Drian, la Francia scommette sulle elezioni entro l’anno e gioca in assolo la sua partita, “rischiando di infastidire altri Paesi implicati in Libia, l’Italia in testa”.
(da “Huffingtonpost“)
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