IL DISSENSO IN RUSSIA E’ COME IL TRUCCO: C’E’ MA NON SI VEDE
C’È CHI SUONA IL LAGO DEI CIGNI, IL BALLETTO TRASMESSO DALLA TV SOVIETICA QUANDO MORIVA UN LEADER COMUNISTA, E CHI SCENDE IN PIAZZA CON UN CARTELLO BIANCO
Un bambino russo ha bevuto della limonata al dragoncello ucraina, ora è in rianimazione. Delle bambine russe hanno mangiato caramelle offerte da bimbe ucraine, sono state male, una è morta. Se vedete per terra degli oggetti, portafogli, passaporti, iPhone, non sollevateli: potrebbero essere stati minati da infiltrati ucraini.
Sono soltanto alcune delle leggende metropolitane che circolano in queste settimane nelle chat dei genitori e nei WhatsApp condominiali, soprattutto nel Sud della Russia, e secondo l’antropologa Aleksandra Arkhipova sono un segno che la guerra comincia a venire avvertita e temuta dai russi comuni: «Si tratta di leggende metropolitane antiche e internazionali, che vengono risvegliate dalla paura, per razionalizzare una guerra incomprensibile».
Sono un sintomo del disagio sociale, così come l’esplosione delle barzellette, un classico del dissenso sovietico ritornato oggi a colmare di ironia una dissociazione tra una propaganda martellante e una realtà terrificante, spiega Arkhipova, che studia da anni il folclore urbano e i linguaggi della protesta. Un esempio? «Un uomo entra di corsa in farmacia e chiede degli antidepressivi. Il farmacista obietta che serve una ricetta. “Ma come, non vi basta il mio passaporto russo?!, protesta il cliente».
La guerra in Ucraina ha aperto anche un fronte simbolico, dove il regime viene combattuto da quella che Arkhipova definisce la “protesta dei deboli”, una “resistenza semiotica”, il cui obiettivo principale è spezzare la realtà creata dal linguaggio censurato del governo. Il nuovo totalitarismo russo ha esteso drasticamente i confini della repressione: «Se fino a tre mesi fa si veniva arrestati per delle azioni, come scendere in piazza, ora anche il rifiuto di aderire alla retorica ufficiale è un crimine».
Lo scontro si sposta dalle circostanze pubbliche, come la piazza, alla vita quotidiana, dove i “partigiani semiotici” hanno aperto un fronte di micro atti sovversivi che puntano a creare dissociazioni cognitive nei cittadini inondati di propaganda. Chi si limita a dissociarsi, ritirando i figli da scuola nei giorni delle recite “patriottiche”.
Altri cercano di influenzare gli altri: chi sostituisce i cartellini dei prezzi al supermercato con volantini, chi lascia sulle panchine dei giardinetti pelouche imbrattati di vernice rossa e scritte “Bucha”, o pupazzetti della Lego che tengono in mano bandierine ucraine, chi scrive e dipinge sui muri o affigge manifesti: «Sono tutti modi per rompere il silenzio, e far vedere che i dissidenti non sono una minoranza di reietti, non siamo soli»: per incrociare gli sguardi dei propri simili si possono indossare vestiti nei colori giallo-blu dell’Ucraina (che possono costare un fermo della polizia), attaccare una spilletta pacifista o ricamando sulla borsa o sulla sciarpa un “no alla guerra” in alfabeto Braille, ascoltare i DDT di Yuri Shevchuk – incriminato per aver dichiarato a un concerto che “la patria non è il culo del presidente da leccare” – oppure leggere in metropolitana una copia di “1984” di Orwell.
«La protesta non accenna a diminuire», dice Arkhipova, che monitora i casi di arresti di dissidenti, e nota come lo scontro “semiotico” spesso manda in panne la polizia: la ragazza che è stata fermata per essere scesa in piazza con un foglio bianco, per esempio, è stata rilasciata senza verbale, anche se sia lei che gli agenti sapevano benissimo cosa avrebbe dovuto esserci scritto. È uno dei motivi per cui molti graffiti e meme giocano con le parole e le citazioni, come quelle del “Lago dei cigni” – il balletto trasmesso dalla TV sovietica quando moriva un leader comunista – della tabacchiera con la sciarpa, i due oggetti utilizzati dai congiurati per uccidere, nel 1801, lo zar Paolo I. Allusioni troppo colte, che soltanto l’intellighenzia può capire?
Non soltanto, obietta l’antropologa: «Il nostro cervello viene attratto dagli enigmi e risolverli provoca un rilascio di endorfine, ci fa provare piacere. Rispetto a un lapidario “no alla guerra”, un gioco di parole, un messaggio arguto, ha maggiori possibilità di venire notato, fotografato e diffuso nei social». La Rete è la nuova frontiera della protesta, e anche dello studio degli umori popolari. Arkhipova rileva un cambiamento visibile nel linguaggio dei sostenitori della guerra: «Se nelle prime settimane facevano propria la retorica ufficiale sui “nazisti” e il Donbass da liberare, oggi tendono più a prendere le distanze con argomenti del tipo
“Siamo gente piccola, quelli in alto sanno quello che fanno, Putin avrà le sue ragioni”. In generale, notiamo che chi protesta contro la guerra ha più follower dei sostenitori del regime». Chi sostiene Putin allora? «Gli anziani. Il regime ha scommesso tutto sui vecchi nostalgici, proponendo loro una Urss-2 che ormai viene ricostruita anche nei dettagli più assurdi. Ma nessuno nella storia è mai riuscito a vincere contro i giovani».
(da la Stampa)
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