IL PD CHE CI STA A FARE AL GOVERNO? SU RIFORME, IUS SOLI E DECRETO SICUREZZA SOLO RINUNCE
ORA GLI BASTA UNA DICHIARAZIONE D’IMPEGNO SULLA LEGGE ELETTORALE PER GIUSTIFICARE IL DEMAGOGICO TAGLIO DEI PARLAMENTARI
Dunque ci sarà un documento, da qui a lunedì, il giorno del grande trionfo “anti-Casta” e del “taglio delle poltrone”. Ci sarà scritto che la maggioranza tutta si impegna a varare una nuova legge elettorale, a mettere mano ai regolamenti e a inserire garanzie costituzionali, per correggere gli effetti distorsivi che il taglio dei parlamentari introduce.
In tempi ragionevoli, “contestualmente” all’entrata in vigore della nuova legge costituzionale tra qualche mese. Così viene deciso in un vertice sulle riforme con i capigruppo della maggioranza.
Un impegno, che non è neanche un articolato legislativo condiviso, insomma, ben al di sotto di un vincolo politico vero. Una nobile intenzione.
Tradotto: al Pd serviva un appiglio, per passare dal no, votato per ben tre volte, al sì, e per “coprire” il cedimento proprio di un partito che, finora, non ha avanzato una sua proposta di legge elettorale semplicemente perchè non ce l’ha, causa divisioni interne. E però è determinato a votare sì a una riforma finora invisa in nome della ragione di governo. Altrimenti, senza quell’appiglio, sarebbe stato assai complicata “reggerla” in termini di compattezza dei gruppi.
Diciamo le cose come stanno: è un via libera al “certo” in nome dell’“incerto”, con la rinuncia a un braccio di ferro politico, chiedendo, ad esempio, che le due cose venissero approvate davvero “contestualmente”.
Immaginiamo la scena, non ci vuole neanche tanta fantasia. Lunedì i Cinque stelle potranno sventolare la loro bandiera sul taglio delle “poltrone”, la fine dell’ingordigia dei forchettoni che occupano i Palazzi e i mitici “risparmi” per 65 milioni l’anno, spicci in un paese che, nell’ultimo anno, ha visto crescere di 61,5 milioni ogni sei ore il debito pubblico, lievitato di 34 miliardi in dodici mesi.
E il Pd, che finora si è opposto in nome del costo democratico del provvedimento, si accontenta di un “pagherò”, travolto dalla narrazione dei difensori dei cittadini contro i vecchi partiti che finora hanno difeso privilegi, posti e stipendi.
Ecco, la politica come costo. Questa non è una riforma perchè non tocca il tema del bicameralismo o dell’efficienza del meccanismo istituzionale, ma semplicemente uno “scalpo della Casta”.
Che, produce l’enorme distorsione democratica, di un parlamento meno rappresentativo. Tagliando i parlamentari ogni deputato rappresenterebbe oltre 400.000 abitanti e ogni senatore oltre 800.000. Sono numeri che allentano il rapporto eletti-elettori, che impattano sulla capacità effettiva di presenza nel territorio, sull’esercizio della funzione rappresentativa, sulla possibilità di fare campagne elettorali: i parlamentati come tanti carneadi, eletti grazie al messaggio politico nazionale dei leader, chiamati poi, una volta eletti, più che a rappresentare, semplicemente ad eseguire decisioni che vengono prese dai leader grazie ai quali sono stati eletti.
A legge elettorale vigente poi la “soglia implicita” che si viene a determinare produce una torsione maggioritaria enorme, per cui anche partiti del 20 per cento in alcune regioni rischiano di non essere rappresentati.
Dicevamo, la logica del “pagherò”, che sembra essere il fil rouge di questo avvio di Conte bis.
Col Pd che, almeno finora, ha indossato i panni del partito della stabilità a prescindere, e rinuncia alle proprie ragioni quasi avesse delle colpe da espiare. Il punto non è il clima mutato in positivo: non c’è più un ministro dell’Interno che inietta odio nelle vene del paese, non c’è più una costante tensione con l’Europa, un certo stile più sobrio ha imposto a tutti di non affacciarsi dai balconi a dire castronerie.
Il punto è la direzione politica, l’anima di questo governo. L’egemonia, si sarebbe detto una volta.
Ecco, finora il Pd appare come il partito delle rinunce, nell’indirizzo e nella capacità di costruire un racconto, taciturno anche di fronte alle botte prese da Fassina che difendeva dei lavoratori.
Circostanza che, con Salvini al Viminale, avrebbe prodotto ben altre reazioni sul clima che si respira nel paese, al netto della responsabilità diretta del ministro dell’Interno che evidentemente non c’è.
La sensazione è che avanzi, in questo nuovo assetto, la logica di un doppio standard per cui sono diventati trattabili principi finora non negoziabili.
È quel che sta accadendo sui temi più divisivi dell’ultimo anno. E così, mentre si mena il can per l’aia sullo ius soli — si discute, si incardina in commissione, si rinvia per non fare “forzature” — sono scomparsi dall’agenda i decreti sicurezza che dovevano essere abrogati al primo cdm.
È chiaro il perchè: anche le modifiche chieste dal capo dello Stato dovrebbero essere recepite dal consiglio dei ministri e poi mandate in Parlamento, dunque impegnerebbero il governo (e il premier) sul tema della “discontinuità ” rispetto al precedente (e a se stesso).
Ed è proprio questo il tema. La rimozione della discontinuità per non turbare il nuovo equilibrio. Anche con una certa determinazione nel rinunciare a una dialettica nella maggioranza, come sull’Iva che non si può più discutere perchè lo hanno stabilito Di Maio e Renzi, magari abbassandola sui pannolini e alzandola sul tartufo.
(da “Huffingtonpost”)
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