IL PREMIER SFRUTTA BENE LA VOGLIA DI ESSERCI DI UN M5S IN AFFANNO
CINQUESTELLE SUBALTERNI E LA REPENTINA SVOLTA “MODERATA” RISCHIA DI ESSERE POCO CREDIBILE
L’ansia di Beppe Grillo di precisare che Matteo Renzi non ha bocciato la sua riforma elettorale è la conferma della sua subalternità al premier.
L’incontro di ieri tra le due delegazioni, presente a sorpresa il premier, assente il capo del M5S, è stato un po’ falsato dalla caricatura della trasparenza rappresentata dallo streaming, non ha detto molto sul piano delle proposte.
Ma il fatto che il Movimento 5 Stelle abbia reagito dividendosi sul dialogo col Pd, mentre quest’ultimo ha foggiato una compattezza granitica, già dice chi abbia guadagnato di più politicamente.
Nelle intenzioni di Grillo, il dialogo doveva servire a incrinare l’asse tra Palazzo Chigi e Silvio Berlusconi sulle riforme istituzionali.
Ebbene, sembra che sia avvenuto il contrario. Forza Italia ha già fatto sapere di essere pronta a votare il cosiddetto Italicum immediatamente. E la disponibilità del vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, ambasciatore di Grillo, a trattare sul ballottaggio e a rivedere Renzi entro tre giorni, lascia capire quanto il Movimento voglia apparire responsabile; e cancellare l’impressione di avere intavolato la trattativa col vero obiettivo di perdere tempo.
È evidente che al suo interno i malumori sono più ramificati di quanto si voglia far credere. E la svolta «moderata» è apparsa troppo repentina per essere credibile.
Ha influito senz’altro il risultato deludente delle elezioni europee del 25 maggio. Ma pesa anche la sterilità della strategia del «no».
Sullo sfondo si intravedono le votazioni sul futuro presidente della Repubblica. Lo lasciano capire gli esponenti del M5S quando dicono che «con la scusa della governabilità si rischia la dittatura. Il partito che vince le elezioni elegge il capo dello Stato». Ma Renzi ieri ha avuto gioco facile nel chiedere se il Movimento è pronto a «ragionare» anche sulle riforme costituzionali.
È arrivato perfino a chiedergli, con un filo di ironia, di presentarsi al prossimo appuntamento «con le idee chiare», perchè il Democratellum, come è chiamata la proposta del M5S, non garantirebbe la stabilità .
Pur riconoscendo il paradosso, Renzi ha sostenuto invece che la nuova legge dovrà garantire «mai più inciuci e mai più larghe intese. Sembra strano che lo diciamo noi, in un contesto di larghe intese».
In effetti, se il governo dovesse andare avanti per i mille giorni indicati dal premier, l’eccezionalità dell’esecutivo diventerebbe meno spiegabile.
Il cambio di passo, lo spostamento del traguardo dai cento giorni di pochi mesi fa ai quasi tre anni del discorso di martedì in Parlamento, sono una prova di saggezza e la presa d’atto delle difficoltà .
Renzi non ha il problema dei bastoni tra le ruote che può mettergli Grillo. Semmai, le difficoltà possono riproporsi dentro la maggioranza di governo e in alcune frange di FI.
Il Nuovo centrodestra prova a reinserire l’elezione diretta dei senatori, che Renzi non vuole nel suo progetto di svuotamento della «Camera alta».
E l’apertura almeno di principio del premier alle preferenze lascia indovinare una duttilità figlia del realismo.
Così com’è, infatti, la bozza di riforma elettorale dell’esecutivo rischia di non passare; o di essere stravolta in Parlamento.
Palazzo Chigi lo sa. E dunque, preferisce non escludere i cambiamenti piuttosto che subirli.
Massimo Franco
(da “il Corriere della Sera“)
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