IN MARE CON GLI ANGELI DEL MEDITERRANEO, TRE SETTIMANE A BORDO DELLA AQUARIUS
SULLA NAVE DELLA ONG “SOS MEDITERRANEE'”, IMPEGNATA NEL SOCCORSO DEI PROFUGHI NEL CANALE DI SICILIA…UN EQUIPAGGIO DI EROI FORMATI DA GIOVANI DI TUTTO IL MONDO CHE HANNO RINUNCIATO A COMODE CARRIERE
Un’enorme distesa di mare con il sole a picco e niente all’orizzonte per giorni.
C’è qualcosa di irreale in questa vasta linea del fronte a ridosso delle acque territoriali libiche, in cui i sommersi e i salvati si sono giocati la vita alla roulette russa del Mediterraneo.
Sul ponte dell’Aquarius, una nave dell’Ong italo-franco-tedesca Sos Mèditerraneè attrezzata in collaborazione con Medici senza frontiere, si fanno i turni di vedetta. Si monitora il radar. I soccorritori e l’equipaggio, dal capitano in giù, stanno per ore attaccati al binocolo.
L’Aquarius ha due scialuppe di soccorso.
La prima, più grande, può portare una quindicina di persone per volta in una sorta di navetta fino al ponte. Effettua una decina di rotazioni per svuotare il gommone.
La seconda, più piccola, viene inviata con i giubbotti di salvataggio, un soccorritore di Sos Med e un mediatore di Msf con il compito di tenere a bada i migranti, comprensibilmente in preda al panico.
Quandi si avvista un gommone carico di profughi, la visione dalla scialuppa è impressionante, anche per un professionista del mare come Jonathan Gerecht, 32 anni, di Marsiglia, ufficiale della marina mercantile a lungo imbarcato su navi da crociera e commerciali. “Non posso dimenticare il mio primo soccorso, ad aprile — racconta Gerecht — è stato il primo contatto con i rifugiati in vita mia. Me li sono trovati davanti, loro erano più di cento e noi solo due. È stato un incontro difficile e commovente. In quel momento dovevo spiegargli che, dopo molte ore in mare, dovevano essere ancora pazienti e non salire tutti insieme sulla scialuppa, altrimenti ci avrebbero rovesciati in acqua. Dovevo essere fermo, ma gentile, cercare di non urlare per non aumentare il panico. Alla fine tutto è andato bene”.
Seduti su ogni angolo del gommone ci sono uomini, bambini, donne incinta, neonati e feriti. “Ne ho visti ustionati dalla benzina mista all’acqua di mare, in ipotermia, feriti in Libia dalle bastonate o da colpi di arma da fuoco — prosegue Gerecht — a volte sono così deboli che non riescono neanche a salire sulla scialuppa o dalla scialuppa al ponte della nave, per cui bisogna sollevarli in due a braccia”.
Dal mare la prospettiva cambia e si capisce che il naufragio e l’ecatombe non sono l’eccezione. Il miracolo, al contrario, è quando va tutto bene.
“Dobbiamo spiegargli come mettersi il giubbotto di salvataggio, non è facile per chi non l’ha mai fatto”, spiega Mathias Menge, il capo delle operazioni di soccorso.
Nel caso più disperato di un gommone che l’Aquarius ha soccorso il 17 aprile quando era già mezzo affondato, i giubbotti non sono stati neanche distribuiti, non c’era tempo.
“E’ stato drammatico — continua — le persone ci annegavano davanti, non ci è rimasto che afferrarli dall’acqua con le nostre mani e comunque siamo riusciti a salvarne 108 (28 sono stati i morti e i dispersi secondo la polizia italiana, ndr). Fossimo arrivati trenta minuti dopo, sarebbero affogati tutti”.
Dopo due giorni di navigazione da Trapani, con le onde alte più di quattro metri che hanno allungato il viaggio ben oltre le canoniche 30 ore, siamo arrivati in posizione di ricerca e soccorso, a venti miglia da Tripoli. Apparentemente siamo soli.
Le comunicazioni via radio e il radar ci dicono che non è così. A poche miglia di distanza naviga la Dignity I di Medici senza frontiere, che insieme all’altra nave di Msf, la Bourbon Argos, ha salvato 4000 persone in un mese.
Vicina è anche la Sea Watch, allestita da un’Ong tedesca che non può prendere persone a bordo, ma avvicina i barconi per distribuire giubbotti di salvataggio e resta di guardia in attesa dell’arrivo dei soccorsi.
Nei prossimi giorni si aggiungeranno poi anche due imbarcazioni di Moas. Sul monitor non compaiono le navi da guerra, della missione militare europea Eunavformed, dell’italiana Mare Sicuro e di Triton, l’operazione gestita dall’agenzia europea delle frontiere Frontex.
Queste unità non usano l’Ais, il sistema automatico di identificazione. Ma chiamano via radio Alex, il comandante bielorusso dell’Aquarius, e i suoi secondi ucraini, Vitaly e Alex.
Oppure parlano con la Dignity I e con Sea Watch per coordinarsi nei soccorsi.
Ci indicano in che posizione andare a controllare la segnalazione di un gommone alla deriva. Ogni tanto ci vediamo sorvolare da un aereo militare.
Il mare dove si consumano le stragi è una massa d’acqua grande quanto Lazio, Toscana, Umbria, Abruzzo e Marche messe insieme.
I numeri delle vittime sono quelli di una guerra, le forze in campo anche.
Secondo l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unchcr), i migranti morti sulla frontiera liquida del Mediterraneo nel 2016 sono stati 2.510 (nello stesso periodo del 2015 erano stati 1.855) a fronte di 204.000 partenze.
Eppure questo non è solo un cimitero.
Per 47.478 profughi salvati solo nel 2016 è stato anche l’inizio di una nuova vita. 327 barconi sono stati soccorsi quest’anno sotto l’ombrello del Centro Nazionale di Coordinamento per il soccorso marittimo (Mrcc) che a Roma riceve gli Sos dai gommoni e dirotta sul posto tutti i mezzi presenti in zona: militari, mercantili, rimorchiatori d’altura e navi umanitarie delle Ong come l’Aquarius.
È un nuovo corso anche per questa imbarcazione di 77 metri, con lo scafo tutto dipinto d’arancione, battente bandiera di Gibilterra, affittata insieme all’equipaggio da Sos Mèditrraneè. L’Aquarius è in mare da quarant’anni, ma è ancora in ottimo stato.
Ha molto spazio sul ponte e può trasportare fino a 400 persone. È molto robusta perchè nelle sue vite precedenti è stata una nave di protezione per la pesca e di ricerca scientifica.
Nei tempi morti scambiamo qualche parola con Menge. “A volte ho l’impressione che questi morti per l’Europa siano solo un deterrente all’ingresso dei migranti sul nostro territorio — dice – il punto è che dobbiamo decidere come trattare le vite umane”.
Senza corridoi umanitari e un modo legale di viaggiare, è come svuotare il mare con un cucchiaio. Questi 26, tra uomini e donne, che si trovano a bordo dell’Aquarius sono venuti nel Canale di Sicilia ad offrire le loro braccia per afferrarne altre, quelle di esseri umani che supplicano di non andare a fondo.
“Giusto in tempo” è la parola d’ordine per Menge.
Trovare un gommone che porta tra le 110 e le 140 persone è sempre un terno al lotto e una corsa contro gli ostacoli. Quando il ‘target’, le cui coordinate sono state segnalate dalla centrale operativa di Roma, finalmente compare all’orizzonte, dal ponte di comando si vede una massa indistinta di esseri umani che agitano le mani per chiedere aiuto.
A quel punto il capitano suda freddo, manovra con grande attenzione e rallenta fino quasi a fermare i motori.
Il primo recupero a cui assistiamo è quello di 119 persone su un gommone di plastica bianca.
Ci spiegano che è diverso da quelli grigi, perchè è meno resistente. Pare li fabbrichino direttamente in Libia.
Bucano la frontiera ma poi cedono, spaccandosi a metà per il sovraccarico dopo poche ore di navigazione. È un soccorso in cui fila tutto liscio. Terminate le operazioni le condizioni meteo peggiorano però rapidamente. “Si è alzato un vento forza sette e poi forza otto — dice Menge — appena un’ora dopo sarebbe stato un disastro”.
I trafficanti li buttano in mare dalle spiagge libiche con il buio, fra la mezzanotte e le due del mattino. I gommoni impiegano circa sette ore a uscire dalle 12 miglia marittime che segnano il confine territoriale delle acque libiche, il limite che non si può superare per andare a recuperare i naufraghi, anche nei casi in cui stiano affondando.
Nei versi dall’esilio, i Tristia, Ovidio sosteneva di non temere la morte, ma il naufragio, perchè non concede una tomba ma solo di essere mangiati dai pesci.
L’Aquarius e le altre imbarcazioni umanitarie cooperano con le navi militari per sottrarre il maggior numero di persone a una fine tanto orrenda. Il destino di queste cinquantamila persone salvate dall’inizio dell’anno sarebbe stato in fondo al mare se non fossero arrivati i soccorsi.
Tra le cinque e le sette del mattino sull’Aquarius arriva la telefonata o il fax del comando della centrale operativa della Guardia Costiera, l’Mrcc di Roma.
A quel punto si fa rotta verso la posizione indicata. Ogni giorno, in questa specifica area di soccorso del Canale di Sicilia, ci sono dalle quattro alle dieci navi che la Guardia Costiera può mobilitare.
Ma quando, come nei giorni scorsi, ci sono oltre una ventina di gommoni e barconi in acqua contemporaneamente, può succedere di non fare in tempo a raggiungerli.
Alla Guardia Costiera italiana la chiamata di soccorso arriva con un Sos lanciato da un telefono satellitare Thuraya che nell’80 per cento dei casi viene dato dai trafficanti alle persone sul gommone, insieme al numero di telefono della centrale operativa di Roma.
La Guardia Costiera innesca l’operazione di soccorso passando l’informazione, di prassi, a tutti i paesi confinanti. Ma nessuno interviene.
La Libia non ha in questo momento un’organizzazione che risponde alle emergenze di soccorso. Il motivo per cui la Guardia Costiera italiana deve operare il soccorso in acque di competenza libica è che, in base alla Convenzione di Amburgo del 1979, la responsabilità è del centro di soccorso che per primo riceve l’Sos.
Queste barche devono essere assolutamente evacuate perchè non hanno la stabilità sufficiente per poter navigare, non hanno una bandiera, non appartengono a nessuno Stato, sono senza equipaggio e prive di attrezzature di salvataggio. Sono sovraccariche, con a bordo donne, bambini e persone che hanno necessità di assistenza medica.
Le Ong devono relazionarsi con gli apparati militari su più fronti.
All’Aquarius viene chiesto diverse volte di procedere alla distruzione dei gommoni, che è uno dei compiti della task force europea Sophia EunavforMed come contrasto al traffico di esseri umani.
Ma che alla fine si risolve in un contributo all’inquinamento del mare, con i gommoni bucati e affondati con tutto il motore, carichi di spazzatura.
Oppure bruciati in acqua con i serbatoi ancora pieni di benzina dalle navi militari dei diversi paesi coinvolti.
Da questi mezzi, italiani ed europei, Sos Mèditerraneè prende spesso a bordo centinaia di migranti soccorsi per trasferirli sulla terra ferma, in Sicilia, Calabria, Puglia o Sardegna.
Non di rado la destinazione, indicata dalla Guardia Costiera insieme al ministero dell’Interno, cambia nel corso del tragitto e l’imprevisto è sempre dietro l’angolo.
Assistiamo così a una staffetta in acqua. Prendiamo a bordo centinaia di persone dalla nave da guerra tedesca Frankfurt e soccorriamo due gommoni. Dirigiamo verso Lampedusa, ma non ci viene concesso l’ingresso in porto.
I 368 migranti, comprese donne, bambini e feriti, devono essere trasferiti a braccia a due motovedette della Guardia Costiera e a una della Guardia di finanza.
Un’operazione difficile, durata alcune ore, prima di riprendere il largo.
Raffaella Cosentino
(da “La Repubblica”)
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