INTERVISTA A SERGIO LEPRI, L’EX DIRETTORE ANSA CHE A 101 ANNI SCRIVE ANCORA
“RENZI CONTINUA A FARE MOLTI ERRORI, SALVINI E’ PEGGIO”
Sergio Lepri, lei va per i 101 anni. Qual è il segreto della longevità ?
«Poco cibo, un bicchiere di vino rosso, molto sport».
Sport?
«A 71 anni ho scalato il Cervino. Ho sciato fino a 96 anni, fino a quando camminando con gli scarponi sono scivolato e mi sono rotto la testa. Ho continuato per altri sei mesi a giocare a tennis, poi ho dovuto smettere».
Ora come si tiene in forma?
«Un’ora di passeggiata al mattino, un’altra al pomeriggio. Se piove, faccio sei volte le scale di casa. Ma la cosa più importante è continuare a scrivere. In rete, ovviamente».
La rete non sta uccidendo il giornalismo?
«Al contrario. La rete è una straordinaria opportunità per arricchire l’informazione, e anche per verificarla. Certo, ci sono pure pericoli. La rete cambia tutto a una velocità fino a ieri impensabile. Anche il nostro modo di pensare».
Cioè?
«Ogni giorno leggo l’edizione digitale di Corriere, Repubblica e Stampa, che è ancora una lettura tradizionale, a due dimensioni. Poi vado sui siti, dove la lettura è invece tridimensionale: ci sono i video, ma soprattutto i link, che ti portano vicino o lontano, prima o dopo. Una volta leggevamo come mucche, muovendo gli occhi da sinistra a destra; ora siamo come stambecchi, che saltano qua e là . La rete annulla la dimensione temporale».
Il passato non esiste.
«E la Seconda guerra mondiale è come la seconda guerra punica».
Lei la guerra l’ha fatta.
«Mi laureai – tesi sull’estetica di Croce – il mattino del 10 giugno 1940. Nel pomeriggio Mussolini dichiarò guerra».
Che ricordo ha del fascismo?
«I silenzi di mio padre Angiolo. C’era chi gridava “viva il Duce”, ma nessuno poteva gridare “abbasso il Duce”: finivi in questura e poi al confino o in galera. Si dissentiva tacendo».
E la guerra?
«Come laureato avrei dovuto fare il corso allievi ufficiali. Ma l’altezza minima, che prima era un metro e 54 come quella del re, era stata portata a un metro e 60; e io ero un metro e 59 e otto millimetri».
Per due millimetri...
«Mi mandarono al reggimento. Caporale, caporalmaggiore, sergente: ufficio operazioni comando della Quinta Armata. E posso dire che la storia dell’armistizio a sorpresa e dell’esercito lasciato senza ordini è un po’ una leggenda autoassolutoria: già nella notte tra l’11 e il 12 agosto arrivò l’ordine per le divisioni costiere di ruotare l’artiglieria di 180 gradi. I cannoni non erano più puntati sul mare in funzione antisbarco; perchè gli Alleati non erano più nemici».
Lei cosa fece l’8 settembre?
«Scappai a piedi, da Firenze a Reggello. Mi nascosi nella villa di un amico, anche lui disertore. Venne il maresciallo dei carabinieri a dirci: “Ho l’ordine di arrestare tutti i giovani sbandati. Ma sono le 5 del pomeriggio, e ho molto da fare. Tornerò domattina”. Era un chiaro invito a sparire. Così salimmo sul Pratomagno, la montagna nell’ansa dell’Arno, un posto bellissimo. Ogni quindici giorni un poliziotto passava da mia madre Ida a chiedere dove fossi».
E lei?
«Mamma era facile al pianto. Ogni volta scoppiava in lacrime: “Non lo so dov’è Sergio…”. Ovviamente lo sapeva benissimo. Ma quando la divisione Goering iniziò i rastrellamenti, non avendo armi per batterci, tornammo di nascosto a Firenze».
E lei divenne giornalista. Subito direttore.
«Ero iscritto al partito d’Azione – l’unica tessera che abbia mai avuto –, ma accettai di dirigere il giornale clandestino dei liberali, L’Opinione. A Firenze la guerra civile aveva una sua moderazione. Fino a quando non fucilarono cinque renitenti alla leva, e i partigiani risposero uccidendo Giovanni Gentile».
Un crimine? O un atto di guerra?
«Un episodio della guerra partigiana. Deciso a Firenze, non ordinato da Togliatti. Come studente di filosofia ammiravo Gentile, ma aborrivo le sue idee politiche. Fu un grande maestro; ma fu un cattivo maestro».
Incontrò mai Croce?
«Sì; e mi deluse. Aveva architettato una complessa proposta per salvare la monarchia: il re avrebbe dovuto affidare la luogotenenza non al figlio Umberto, ma al nipote Vittorio Emanuele – che si sarebbe poi rivelato uno sciagurato –, sotto l’egida di De Nicola. Mi pareva un pasticcio. Io ero per la Repubblica. Così lasciai il Pli per la Concentrazione democratica repubblicana, guidata da Ferruccio Parri e Ugo La Malfa. Avevamo grandi aspettative; ma alla Costituente furono eletti soltanto loro due».
Cosa votava?
«All’inizio, Pri. Negli anni 70 e 80, scheda bianca. Poi l’Ulivo».
Dopo la Liberazione lei passò al «Giornale del Mattino» di Firenze, direttore Ettore Bernabei.
«Fu il primo giornale moderno: grandi foto, titoli secchi, inserto della domenica, pagina dei ragazzi, e pure il cruciverba. L’editore non era la Dc ma Montini, il futuro Papa: era stato lui a trovare i soldi; però collaboravano laici come Manlio Cancogni e Carlo Cassola. Io ero il caporedattore, mi affidavano anche lunghe inchieste. Nel 1952 passai tre mesi negli Stati Uniti, evitando con cura New York e la California. Mandai 26 articoli, tutti dall’America sconosciuta: il Kentucky, l’Illinois. Lavorai per due settimane al quotidiano di Florence, Alabama. Mi chiesero un articolo su Firenze e lo misero in prima pagina, con la mia foto: il mattino dopo, per strada mi salutavano tutti. Poi mi chiesero un articolo sulla loro città ».
E lei cosa scrisse?
«Che le ragazze erano tutte belle ma tutte uguali: stessi sorrisi, stessa pettinatura, stesse scarpe da tennis bianche con striscia colorata… Il mattino dopo per strada la gente si voltava dall’altra parte. Dovetti andare nell’aula magna del college a chiedere scusa alle studentesse».
Come mai si offesero?
«C’era un non detto: i neri erano invisibili. Segregati nelle loro chiese e nelle loro scuole. Ma al Nord se la passavano pure peggio».
È stato anche in Unione sovietica?
«Altri tre mesi. Fu Giorgio La Pira a farmi avere il visto. La guida era ovviamente un agente segreto, quindi inutile. Giravo da solo nei mercati kolchoziani, nelle poche chiese rimaste aperte, nei cimiteri».
Perchè nei cimiteri?
«Il comunismo annunciava l’avvento dell’uomo nuovo; e io volevo capire come moriva, quest’uomo nuovo. Nei cimiteri c’era moltissima gente. Le tombe erano interrate, e attorno c’erano sedie su cui vedove e orfani passavano intere giornate, a far compagnia al defunto; siccome non si trovavano fiori, portavano quelli di carta. Non parlavo il russo; ma tanto loro non dicevano nulla. Restavano lì. E mi sembravano uguali a noi uomini vecchi».
Poi Fanfani la volle come portavoce.
«Lo avvisai che non votavo Dc. Lui rispose: “Le ho chiesto di diventare mio collaboratore, non le ho chiesto le sue idee politiche”».
Era così tollerante?
«Molto. A volte però si infuriava. Stava per morire Pio XII: l’accordo era che, quando fosse accaduto, un sacerdote avrebbe sventolato un fazzoletto bianco alla finestra. Il redattore dell’Agi, l’Agenzia Italia, vide o credette di vedere un fazzoletto, e diede la notizia. La France Presse la riprese. Ma il Papa era ancora vivo. La sera Fanfani entrò nel mio ufficio e intimò: “Faccia licenziare il direttore dell’Agi ed espellere quello della France Presse!”. Gli suggerii di aspettare il mattino dopo. Uscì adirato sbattendo la porta. Ma il mattino dopo cambiò idea».
Montanelli lo chiamava il Rieccolo.
«Era diventato presidente del Consiglio; ma la Chiesa e la Confindustria non volevano il centrosinistra, e i franchi tiratori lo silurarono. Quando tornò in sella, Fanfani mi chiese di ricominciare. Dissi di no: non avevo la necessaria passione politica».
E lui?
«Mi domandò: ma un posto ce l’hai?».
Ce l’aveva?
«No. Però avevo una mezza proposta del consigliere delegato dell’Ansa: la poltrona da direttore era vacante da due anni. Non la voleva nessuno: lo stipendio era basso, la redazione piccola».
Lei ha diretto l’Ansa dal 1961 al 1990.
«Ho assunto più di seicento giornalisti. Diventammo la quarta agenzia al mondo, davanti alla Dpa tedesca e all’Efe spagnola, con corrispondenti da tutte le capitali».
I politici telefonavano?
«Solo i primi due anni. Non fu difficile farli smettere: bastava dire di no».
Celebre una telefonata di Aldo Moro.
«Mi chiese se avrei dato la notizia dell’attacco di Malagodi al centrosinistra. Risposi che l’avrei fatto di sicuro. Seguì un lungo silenzio. Pensavo avesse riattaccato. Invece Moro disse: “Mi rendo conto”. Appena tre parole, ma importanti. La politica si rendeva conto che le notizie non si potevano censurare. Allora nessuno pensava di poterle manipolare o inventare, come fanno i politici di oggi».
Come ricorda gli Anni Sessanta?
«Un’era di grandi e positivi cambiamenti. Prima si viveva ancora secondo gli schemi dell’Ottocento. Nel 1961 la Corte Costituzionale confermò che l’adulterio femminile – ma non quello maschile – era reato. Meno di dieci anni dopo avevamo il divorzio».
È vero che ebbe uno scontro con Nilde Iotti?
«Lei voleva essere definita il presidente della Camera, ma io avevo dato disposizione di scrivere la presidente. Si adattò. Susanna Agnelli invece venne a protestare: “Sono il senatore Agnelli, non la senatrice!”. Risposi che senatore era suo nonno. Se ne andò senza salutare».
Pansa o Bocca?
«Due grandi giornalisti. Ma ho riserve su entrambi. Non so se tutto quello che scrivesse Bocca fosse veritiero. Quanto a Pansa, ha passato la vita a elogiare la Resistenza, per poi scrivere certi libri…».
Ha letto «Il sangue dei vinti»?
«Non l’ho letto e non mi è piaciuto».
Montanelli o Scalfari?
«Montanelli è stato un grandissimo. Prediligeva il verosimile, ed era talmente bravo da renderlo vero. Scalfari è come me: un superstite. Tra i giornalisti della Liberazione sono rimasto solo io. Dell’ondata successiva restano Arrigo Levi, Sergio Zavoli ed Eugenio Scalfari; che scrive ancora».
Lei disse di Renzi: «Non lo giudico, ma se fallisce sarà il disastro». Direi che ci siamo.
«Sono arrivate le Sardine però. Renzi ha fatto e continua a fare molti errori, ma non condivido la demonizzazione che ne viene fatta. Salvini è peggio».
Perchè?
«Mi fa paura. Sono un liberale; non mi piace la democrazia illiberale».
Il fascismo può tornare?
«Nulla torna. Tutto muta: anche la morale, i valori. La storia cambia ogni giorno. E va scritta con la “s” minuscola: perchè è la storia di tutti noi, dei miliardi di esseri umani che abitano la Terra».
Lei crede in Dio?
«No, non per motivi religiosi ma filosofici: non credo nella trascendenza. L’unica realtà è l’individuo. Sopra e al di là dell’individuo non c’è nulla».
E dopo la morte cosa c’è?
«Niente».
Chi è la signora che sorride da tutte le foto esposte in questa casa?
«Mia moglie Laura. Se ne è andata nel sonno, nove anni fa. L’ho amata per tutta la vita e la amerò per sempre. Laura, come vede, è ancora con me. Abbiamo avuto tre figli: Stefano, Paolo e Maria».
E di noi cosa resta?
«L’aspetto straordinario della rete è l’immortalità . I nostri articoli di carta venivano gettati via dopo poche ore. Il mio sito resterà anche dopo la mia morte».
(da “Il Corriere della Sera”)
Leave a Reply