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IRLANDA DEL NORD AL BIVIO, DOMANI SI VOTA

I REPUBBLICANI NON VOGLIONO LA BREXIT E PREMONO PER UN REFERENDUM CHE RIPORTEREBBE L’ULSTER CON L’EIRE… MA E’ FORTE L’OPPOSIZIONE DEGLI UNIONISTI

Le elezioni del 2 marzo segneranno uno spartiacque decisivo nella storia del processo di pace in Irlanda del Nord.
Le dimissioni del vicepremier Martin McGuinness, storico esponente dei repubblicani di Sinn Fèin, hanno fatto cadere il governo formato meno di un anno fa aprendo la strada al voto anticipato, ma hanno anche creato i presupposti per una lunga stagione di instabilità  nella regione.
Questa crisi è infatti la diretta conseguenza della profonda divisione che tuttora caratterizza la società  nordirlandese, il sintomo inequivocabile della chiusura di una fase storica e politica avviata con la firma dell’Accordo del Venerdì Santo del 1998. Uno dei capisaldi della pace raggiunta a Belfast ormai quasi un ventennio fa era la politica del ‘power sharing’, ovvero la condivisione dei poteri tra i maggiori partiti del Paese.
Sinn Fèin e Dup, espressione della comunità  cattolico-repubblicana e di quella unionista-protestante, erano stati chiamati a governare insieme su una serie di questioni ‘devolute’ dal Parlamento britannico.
Un meccanismo istituzionale che almeno negli ultimi dieci anni ha funzionato, contribuendo a chiudere i conti con il passato e con una stagione di violenza che pareva interminabile.
Al tempo stesso non è però riuscito a proiettare il Paese nel futuro poichè non è stato capace di ricostruire il tessuto sociale ed economico dopo decenni di conflitto.
La convivenza tra le due comunità  continua a essere assai problematica a causa di una struttura sociale profondamente settaria e basata sulla segregazione religiosa.
Ancora oggi, appena il 7% degli studenti dell’Irlanda del Nord frequenta scuole integrate, mentre tutti gli altri seguono un percorso educativo che viaggia su binari rigidamente separati in base all’appartenenza confessionale.
Le famiglie vivono in comunità  divise, e sia a Belfast sia in altre città  sono ancora presenti numerose ‘peace line’, le barriere di cemento e lamiera che dividono per motivi di sicurezza i quartieri cattolici da quelli protestanti.
Come se non bastasse, le statistiche più recenti parlano di una disoccupazione giovanile al 20% e della crescita costante del tasso di criminalità  e della diffusione di droghe.
Ufficialmente, l’ex vicepremier McGuinness ha fatto cadere il governo per prendere le distanze dal primo ministro Arlene Foster (Dup), coinvolta in uno scandalo relativo al cattivo utilizzo degli incentivi per la riconversione delle industrie più inquinanti, ma in realtà  le sue dimissioni sono arrivate dopo un lungo percorso di scontro tra i due partiti di maggioranza relativa dell’esecutivo nordirlandese.
Da tempo Sinn Fèin lamenta una sostanziale subalternità  nei confronti della controparte unionista e, forte anche della crescita registrata al sud negli ultimi anni, vorrebbe ridiscutere alcuni dei punti stabiliti dall’Accordo del 1998 alla luce degli esiti del referendum sulla Brexit.
I due partiti di governo hanno affrontato la campagna referendaria su sponde opposte (Dup pro-Brexit, Sinn Fèin contrario), e l’esito del voto nordirlandese ha espresso una chiara maggioranza a favore della permanenza nella Ue (56%).
Ciò ha fatto tornare con forza all’ordine del giorno il tema della riunificazione dell’isola (l’Ulster con l’Eire), obiettivo storico dei repubblicani ma da sempre ferocemente osteggiato dagli unionisti (che vorrebbero tornare con Londra).
Adesso il problema non è più solo di natura politica ma anche costituzionale, poichè l’accordo di pace ha stabilito che la popolazione del Nord ha diritto alla cittadinanza irlandese e quindi dell’Unione europea.
Sulla falsariga di quanto sta accadendo anche in Scozia, Sinn Fèin sostiene che il governo inglese non rappresenta più gli interessi economici e politici di una popolazione che ha votato in maggioranza per il ‘Remain’ e insiste sulla necessità  di un referendum per la riunificazione con Dublino.
Alcuni giorni fa il presidente di Sinn Fèin Gerry Adams — unico leader rimasto tuttora in carica tra i protagonisti dell’Accordo del 1998 — ha detto che se Londra farà  uscire l’Irlanda del Nord dalla Ue compierà  «un atto ostile» che distruggerà  il processo di pace. «Il premier britannico — ha aggiunto — ha confermato l’intenzione di porre un termine alla giurisdizione della Corte europea e ritirare la Gran Bretagna dalla convenzione europea sui diritti umani, una posizione che minaccia gli elementi fondamentali riguardanti i diritti umani dell’Accordo del Venerdì Santo».
Parole pesanti, che secondo i più pessimisti potrebbero persino scoprire il fianco agli estremisti che da sempre contestano il compromesso che è alla base di quell’accordo.
I timori più consistenti riguardano il possibile ripristino della frontiera tra le due parti dell’Irlanda, un tempo presidiata militarmente e teatro di scontri e attentati, la cui stessa presenza simbolica potrebbe alimentare le attività  dei gruppi dissidenti con effetti assai controproducenti sul processo di pace.
Ma nonostante qualche isolato rigurgito di violenza, i repubblicani irlandesi hanno ormai definitivamente messo da parte il passato rivoluzionario e Sinn Fèin, un tempo braccio politico dell’Ira, ha consolidato il proprio profilo politico-istituzionale affidando la leadership alla 40enne Michelle O’Neill, che non ha trascorsi nella lotta armata e incarna alla perfezione il volto nuovo di un partito sempre più proiettato nel futuro.
Il loro obiettivo, da raggiungere attraverso una strategia di medio periodo sfruttando anche la leva della Brexit, è la riunificazione dell’isola sul modello della Germania post-1989.
La divisione dell’Irlanda fu imposta dagli inglesi nel 1922 contro il volere degli irlandesi, con l’unico scopo di creare una maggioranza artificiale, ‘un Parlamento protestante per uno Stato protestante’ basato su una sistematica discriminazione nei confronti dei cattolici.
Un’entità  geopolitica creata a tavolino che col trascorrere del tempo è implosa fino a portare la guerra nelle strade, e che ormai appare del tutto anacronistica sul piano storico, economico e demografico.
All’ultimo censimento effettuato nel 2011, il 48% della popolazione dell’Irlanda del Nord si è dichiarato protestante e il 45% cattolico, confermando una tendenza in corso da anni e che è destinata a ribaltare in tempi brevi la dinamica demografica della regione.
Per la prima volta, nella storia ormai quasi centenaria della Northern Ireland, i protestanti si ritroveranno a essere una minoranza.
Ma è sul piano strettamente economico che l’esistenza stessa dell’Irlanda del Nord dimostra ormai di non avere più alcun senso: troppo piccola e marginale rispetto all’economia britannica, è al tempo stesso troppo legata ai sussidi del governo di Londra per poter sopravvivere autonomamente.
Secondo un recente studio di un gruppo di ricerca indipendente, la riunificazione porterebbe enormi benefici a entrambe le parti dell’isola trainando le economie del Nord e della Repubblica verso una crescita stimata in oltre trenta miliardi di euro in meno di un decennio.
Un effetto virtuoso che sarebbe raggiungibile unendo sistemi economici già  in larga parte interdipendenti ma non allineati tra loro.
Se il Nord adotterà  l’euro e il regime fiscale della Repubblica — sostiene lo studio —, vedrà  crescere esponenzialmente le esportazioni e il Pil pro-capite, mentre Dublino trarrà  beneficio dall’abbattimento delle barriere d’accesso al mercato del Nord.
Anche una città  come Belfast, che ha saputo solo in minima parte riconvertire il suo passato industriale e presenta oggi tassi di povertà  e disoccupazione preoccupanti, potrebbe approfittare dello sviluppo e degli investimenti esteri che negli ultimi anni hanno arricchito città  come Dublino, Cork e Galway.
Non è un caso che l’ex premier nordirlandese Peter Robinson — un tempo strenuo oppositore di un’Irlanda unita, al pari di tutta la comunità  unionista — abbia mostrato apprezzamento del dinamismo economico della Repubblica e abbia cercato di armonizzare le politiche fiscali tra Belfast e Dublino.
Dopo l’esito del referendum sulla Brexit, i cittadini dell’Irlanda del Nord hanno cominciato a fare la fila per prendere il passaporto della Repubblica, terrorizzati dall’idea di perdere lo status comunitario e consapevoli che l’economia della regione non potrebbe fare a meno del miliardo di euro di fondi che arrivano ogni anno da Bruxelles.
Persino il pragmatico primo ministro irlandese Enda Kenny, alcuni mesi fa, ha aperto alla possibilità  di una United Ireland, sollecitando paragoni con quanto fece la Germania Est nel 1990.
D’altra parte è lo stesso Accordo del Venerdì Santo a prevedere l’eventualità  di un referendum per riunire il Nord al Sud, se e quando sarà  la popolazione a volerlo.
Gli sviluppi politici, economici e demografici fanno dunque pensare che il ‘muro’ di Belfast possa davvero cadere e che la riunificazione dell’isola rappresenti ormai la soluzione plausibile per chiudere un capitolo lungo e doloroso della storia europea.

(da “Avvenire“)

This entry was posted on mercoledì, Marzo 1st, 2017 at 22:37 and is filed under Europa. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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