LA CRISI HA COLPITO SOPRATTUTTO I 30ENNI E L’ITALIA E’ IL PAESE CHE NE E’ USCITO PEGGIO
DAL 2008 NESSUNO IN EUROPA HA PERSO TERRENO COME NOI E LA RIPRESA E’ LA PIU’ LENTA DI TUTTE
Con le nuove previsioni autunnali della Commissione Europea, che contengono le stime più aggiornate sullo stato dell’economia, finalmente è possibile cominciare a tirare le somme sull’anno appena passato — capire a che punto siamo di questa crisi che ormai va avanti da sette anni.
Intanto conviene guardare alla crescita complessiva, che tutto sommato è l’indicatore generale di come le cose si sono rimesse in moto e — soprattutto — quanto in fretta.
Fra i principali in Europa, l’Italia è il paese ad aver perso di più dal 2008.
E quand’è così, com’è naturale, la strada per risalire risulta lunga e ripida.
Per recuperare il terreno perduto dovremmo allora correre più in fretta di altri: ma sta andando in questo modo? Per nulla.
Fino al 2013 l’Italia ha lasciato sul campo l’8,7 per cento del proprio Pil, e soltanto la Spagna si avvicina a noi pur fermandosi al 7,8.
E la ripresa? Se Francia, Germania, Spagna e Regno Unito hanno ricominciato a correre con almeno uno o due anni di anticipo, il primo segno positivo per l’economia italiana arriva soltanto nel 2015.
Poi c’è ripresa e ripresa: si può ripartire a razzo, come hanno fatto proprio Spagna e Regno Unito, oppure incerti e lenti come tartarughe. Quest’ultimo è il caso dell’Italia.
Fra 2014 e 2015 le stime aggiornate indicano una crescita complessiva per l’Italia di 0,4 punti percentuale.
Tutti gli altri — che pure avevano meno da recuperare — l’hanno fatto in misura maggiore: la Francia è all’1,3, la Germania al 3,3. Spagna e Regno Unito, appunto, viaggiano al rispettivamente a 4,6 e 5,2 punti: diverse volte il risultato dell’Italia.
E se è vero che usciamo dalla recessione, il quadro della situazione diventa completo soltanto ricordando che lo facciamo appena per qualche zero virgola.
Numeri minuscoli, che applicati all’intero sistema economico diventano miliardi e miliardi di euro in meno per famiglie e imprese
Poi c’è la questione — non meno importante — del lavoro. Sotto questo aspetto, fra le grandi nazioni europee soltanto la Spagna perde più dell’Italia.
Secondo i dati Ocse, a inizio 2008 erano molti di più gli spagnoli ad avere un impiego (quello che viene definito come “tasso di occupazione”): il 65,5 per cento di loro contro appena il 58,7 per cento degli italiani.
Da lì in poi nel paese iberico le cose peggiorano in fretta, tanto che a metà 2013 il tasso di occupazione italiano supera — anche se di poco — lo spagnolo.
Un mercato del lavoro colpito con maggiore durezza rispetto al nostro, dunque. Eppure risalito con altrettanta rapidità , tanto che all’ultimo trimestre per cui sono disponibili dati risulta due punti e mezzo superiore all’italiano: ovvero con molte centinaia di migliaia di posti di lavoro in più.
Certo è che nessuno dei due può essere preso a modello.
In Germania e nel Regno Unito l’occupazione — almeno per quanto riguarda i posti disponibili — è anche in salute migliore rispetto all’inizio della crisi, tanto che ormai in questi due paesi ha un impiego fra il 72 e il 74 per cento delle persone in età da lavoro. Un esercito in più rispetto all’Italia.
Caso a parte è la Francia, dove dal 2008 non si sono verificate grosse perdite ma neppure chissà quali miglioramenti.
Al contrario, osserviamo piuttosto un lento, costante scivolamento all’indietro, ma che nonostante tutto consente oggi a un maggior numero di persone di avere un impiego rispetto a Italia e Spagna.
Cos’è successo, esattamente, al lavoro in Italia?
Grazie ai dati Istat sappiamo che a inizio 2008 i disoccupati erano grosso modo 1,6 milioni. Il picco negativo arriva a novembre 2014, quando a cercare un lavoro senza trovarlo diventano 3 milioni e 350mila, per poi scendere nello scorso novembre a 2,8 milioni: ancora tanti rispetto a sette anni prima.
Al contrario, nel momento di maggiore difficoltà erano circa un milione gli occupati in meno, e di questi ne sono stati recuperati grosso modo uno su tre.
L’ultimo tassello è quello degli inattivi , cioè delle persone che nè lavorano nè cercano un impiego — coloro che spesso vengono definiti come “scoraggiati”.
Comunque vogliamo chiamarli, già all’inizio della crisi si trattava di un super gruppo di 14,3 milioni di persone, saliti poi a 15 milioni nell’aprile del 2011, per poi tornare a un valore leggermente inferiore rispetto al 2008.
Ancora nulla per cui scrivere a casa, comunque, tanto che per trovare un paese con una fetta tanto grande della popolazione in questa condizione bisogna arrivare in Romania.
Eppure anche quel leggero aumento di occupati, in Italia, non è cosa per tutti. In effetti — e ormai da anni — il tasso di occupazione aumenta soltanto per le persone fra 55 e 64 anni. Si impenna anzi dal 2011, insieme alle riforme che aumentano l’età pensionabile.
Cala viceversa per tutti gli altri — e per alcuni assai più in fretta. Viene fuori, per esempio, che ad aver sofferto di più la crisi sono i trentenni: se nel 2008 il 70 per cento di loro aveva un lavoro, sette anni avanti siamo passati al 60 per cento circa — il minimo da parecchio tempo a questa parte.
E certo si tratta della media italiana, che spesso però nasconde grosse differenze regionali.
Così, a guardare da vicino, emerge come al sud il calo sia stato maggiore, tanto che lì i trentenni senza lavoro arrivano al 42,7 per cento del totale.
Ma neppure quarantenni e cinquantenni posso sentirsi troppo tranquilli. Per entrambi, è vero, la caduta dell’occupazione è stata meno ripida, ma ancora oggi poco meno del 30 per cento di loro resta senza impiego.
Numeri impensabili, anche solo qualche centinaio di chilometri al di là dei confini.
Davide Mancino
(da “L’Espresso”)
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