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LA DERIVA UNGHERESE

LA PROVA DI TROVARCI IN UNA DEMOCRAZIA ILLIBERALE

Ha ragione da vendere Antonio Scurati, quando dice che in Italia la “svolta illiberale” è già cominciata. Possono negarla solo gli onorevoli con le lingue chiodate di casa Meloni, che per zelo e malafede ricordano le “vedette della montagna” care a Mussolini, come Giacomo Matteotti chiamava i fedelissimi del Duce alla vigilia del suo ultimo discorso in Parlamento prima dell’assassinio, il 10 giugno 1924. Ma si rassicurino, i volonterosi carnefici di Giorgia: qui nessuno teme che il disegno meloniano di oggi contempli il ritorno alla dittatura fascista. Come avvertiva Michela Murgia – vittima da viva e da morta dello squadrismo digitale – non siamo così imbecilli da credere che il fascismo ci bussi alla porta di casa con il fez. Purtroppo ci sono anche quelli, i vecchi nostalgici che si inginocchiano davanti alla fiamma eterna di Predappio e i giovani arditi che tendono il braccio davanti alla croce celtica di Acca Larentia. Ma fanno parte del brodo di coltura, non di un “progetto” totalitario. Quello che dobbiamo temere, invece, sono le democrazie illiberali. La prova l’abbiamo avuta proprio nel giorno della Festa della Liberazione. Con notevole sprezzo del ridicolo, e pur di non pronunciare l’abiura del Ventennio, la premier ha attribuito la caduta del fascismo non alla Resistenza e al sangue versato da migliaia di partigiani, rossi e bianchi, azionisti e liberali, comunisti e socialisti, laici e cattolici, insieme alle truppe di Roosevelt, di Churchill e di Stalin. Giammai: pare sia stato un destino insondabile, o forse il maltempo, l’estinzione dei dinosauri, la deriva dei continenti.
Nelle stesse ore, il Parlamento Europeo ha votato sulla risoluzione di condanna delle interferenze russe nelle elezioni europee, e Fratelli d’Italia e Lega si sono astenuti, appoggiandosi sulla stampella multiuso dei pentastellati: giù le mani da Putin, che con tutta evidenza ha fatto “anche cose buone” (chiedere a Zelensky e a Navalny). Mercoledì scorso i patrioti tricolori avevano fatto anche di peggio, unici a votare no alla mozione di condanna dell’Ungheria per violazione dello Stato di diritto: nessuno tocchi Orban, che sta facendo cose egregie (chiedere a Ilaria Salis e ai cronisti di Klubràdiò). Eccoli, i riferimenti politico-culturali di chi ora ci governa: i burocrati cresciuti al di là dell’ex cortina di ferro trasformati in autocrati con l’inganno dei popoli. Anche qui, torniamo a Scurati: i nemici delle liberaldemocrazie non marciano su Roma, ci arrivano vincendo le elezioni.
Per questo Meloni non può permettersi di dire quello che disse Gianfranco Fini a Fiuggi, nel 1994: “E’ giusto chiedere alla destra italiana di affermare senza reticenze che l’antifascismo fu un momento essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato”.
E non può permettersi di ripetere neanche quello che disse Silvio Berlusconi a Onna, nel 2009: “Il nostro compito è costruire finalmente un sentimento nazionale unitario, una democrazia pacificata”. A lei questa svolta è preclusa, pena la rottura con un pezzo del suo passato di militante missina. Movente tattico, quindi. Ma anche politico. Come scrive Francesco Piccolo: per dichiararsi antifascisti, bisogna esserlo. E Meloni, fino a prova contraria, non lo è. Semmai è “a-fascista”, ed è anche questa la ragione per la quale ha bisogno di una riforma come il Premierato Forte, indispensabile per rifondare una nuova Costituzione nella quale la “destra esclusa” di Almirante diventa “madre costituente”, senza mai aver chiuso i conti con i lasciti tragici di nonno Benito. E allora, armiamoci e partiamo, e che elezioni siano. Senza troppa enfasi, ma davvero e per mille ragioni – le guerre e le crisi, l’Occidente e il Medioriente, l’Ucraina e la Cina – sul voto europeo del 9 giugno batte l’ora della Storia. Domenica, alla conferenza programmatica dei suoi Fratelli a Pescara, la Sorella d’Italia annuncerà la discesa in campo come capolista, elmetto in testa e manganello in mano, come stiamo mestamente vedendo. E nonostante settimane di apparente complicità con Von der Leyen e mesi di fervente “occidentalismo” – professato sui principi geostrategici ma non praticato sui valori fondanti – la presidente del Consiglio non taglia il filo nero che la unisce alle democrature dell’Internazionale Sovranista (oltre che alla galassia post-missina): quando si va alla conta, preferisce sempre Visegrad a Bruxelles. Alla sua ala più estrema, d’altra parte, c’è voglia di menare le mani. Aiutati da otto svalvolati nordafricani e da duecento sciamannati dei centri sociali vogliosi solo di sputare veleno contro Israele e contro la Brigata Ebraica, i giornali-cognati si affannano a sporcare il 25 aprile, trasformando in un infernale G-8 di Genova due oceaniche e pacifiche manifestazioni riempite da centinaia di migliaia di italiani orgogliosi della Liberazione e della Costituzione. Sempre il 25 aprile – tanto per far capire a tutti dov’è per lui la vera Festa – Capitan Salvini annuncia la discesa in campo del Generale Vannacci, che per la gioia del ministro Crosetto, dell’Esercito e dei malpancisti padani alla Fedriga aggiungerà le sue originali teorie sui “negri” autoctoni e sugli omosessuali “anormali” al mondo al contrario della nobile famiglia degli eurofobici francesi di Le Pen e dei neonazisti tedeschi di Afd.
Di qui al voto si preannunciano settimane di fuoco, con il melonismo da combattimento. Incrocia l’elezione diretta del presidente del Consiglio e l’autonomia differenziata che spacca l’Italia (e in parte anche la stessa coalizione). Prevede il piano-migranti da deportare in Albania a spese della pietà e del contribuente, e il pacchetto-giustizia con la separazione delle carriere tra giudici e pm. Esige la pubblica gogna per gli Scurati e le Mira, il linciaggio mediatico delle Bortone e persino degli Zanchini (uno dei conduttori più seri e più equilibrati della tv), e poi i processi penali per i Saviano e i Canfora, la galera per i giornalisti che diffamano, le nomine blindatissime alla Rai ormai trasformata nell’Eiar 4.0, e in altre 693 controllate dallo Stato. Mentre i Cinque Stelle di Conte inseguono le farfalle del “campo giusto” e il Pd di Schlein si lecca le ferite dell’ultimo autodafè sul nome nel simbolo, la destra comanda e non fa prigionieri. Una delle ultime censure del governo, due mesi fa, era piovuta su un libro: si intitola “Storie di diritti e di democrazia”, scritto da Giuliano Amato e Donatella Stasio. Avrebbero dovuto presentarlo a San Vittore e in altre carceri, ma all’ultimo momento “ordini superiori” lo hanno impedito. A Meloni e ai suoi Fratelli fa paura, un testo che parla della nostra Costituzione, dei diritti fondamentali che sancisce e che la Consulta tutela, supplendo quasi sempre all’ignavia dell’esecutivo e del legislativo. Temono la “democrazia del limite”, il costituzionalismo come bilanciamento dei poteri. E non è un caso se pochi giorni prima lo stesso Amato in un’intervista a Simonetta Fiori su questo giornale aveva lanciato il suo allarme: “Quella di Fratelli d’Italia e Lega continuiamo a chiamarla destra, ma di sicuro non ha la cultura politica di Reagan né della Thatcher: è un’altra cosa, che ha a che fare con l’ideologia dell’ostilità e del rancore”.
Poi denunciava la lunga “lista dei nemici” stilata dalla premier ad Atreju. Tra questi, Amato indicava anche la Corte costituzionale: “Per la destra populista tutte le Corti finiscono per essere espressione e garanzia di quelle minoranze che turbano il loro ordine”. Per questo, concludeva, anche l’Italia può rischiare una deriva ungherese o polacca: “Potrebbe accadere, non c’è nulla che lo impedisca”. Ecco: per gli italiani che non vogliono farsi incantare da un “Mattinale” di Palazzo Chigi o da un Generale sul Carroccio, proprio questa è la posta in gioco della sfida europea di giugno. Votare è importante. È la preziosa lezione di Gramsci: vivere vuol dire essere “partigiani”. E l’indifferenza è il peso morto della Storia.
(da La Repubblica)

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