LA DISFATTA DI BERLUSCONI: LA GIORNATA IN CUI HA PERSO IL PDL PER STRADA
VERDINI SBAGLIA I CALCOLI E PIANGE, GHEDINI ALLONTANATO, SOLO 31 SENATORI SU 91 DISPOSTI A VOTARE LA SFIDUCIA, SCHIFANI CHE SI RIFIUTA DI PRONUNCIARE IL DISCORSO DI SFIDUCIA
Fiducia al governo Letta, Senato e Camera spianano la strada all’esecutivo, nel giorno epocale della grande disfatta di Silvio Berlusconi.
La prova di forza fallisce, la campagna acquisti notturna si arena, Verdini piange, Ghedini viene allontanato in malo modo.
Alla fine il Cavaliere si arrende, vota in extremis anche lui la fiducia ma perde il partito, il Pdl non è più suo.
La spuntano Alfano, i ministri e i 50 dissidenti della linea dura governativa. Pronti ora a dar vita a nuovi gruppi e a un nuovo partito di centro, se da qui a poche settimane non riusciranno a conquistare la guida del Popolo della libertà , esiliando il capo e i suoi falchi in Forza Italia. L’opa è lanciata, da completare quando la decadenza definitiva dal Parlamento sarà compiuta.
LA RIVINCITA DI LETTA
Trionfa l’asse di ferro Letta-Alfano. Sono 235 i sì e 70 i no al Senato al termine di una seduta al cardiopalma, saranno 435 i sì e 162 no alla Camera a fine giornata.
Il presidente del Consiglio canta vittoria, parla di «un giorno storico per la nostra democrazia», siamo nelle condizioni «diguardare lontano».
Ma che sorpresa quando alle 13.30 prende la parola in aula Berlusconi in persona e non Schifani per annunciare anche la sua fiducia.
Letta sorride, si rivolge ad Alfano al suo fianco e dice scuotendo la testa: «È un grande».
Nel suo discorso era stato tranchant, ma non al punto da affondare la lama contro il Cavaliere. «L’Italia ha bisogno che non ci siano più ricatti, tipo “o si fa questo o cade il governo”, anche perchè si è dimostrato che il governo non cade».
E per essere chiari, «non esiste un collegamento tra levicende giudiziarie e la vita del governo». Da oggi, «si lavorerà con una maggioranza politica coesa, ora serve chiarezza», dirà poi anche alla Camera. «Sarebbe stato un errore andare al voto».
Ci sono le riforme da portare avanti, a cominciare dalla cancellazione del porcellum, «che è il male assoluto».
LA BATTAGLIA FINALE
La Bbc l’ha battezzata come la “Berlusconi’s U-turn”, la virata a 360 gradi del Cavaliere. Quando alle 14 lascia l’aula di Palazzo Madama, è un leader provato, scende i gradini quasi barcollando, il volto terreo, si regge sui senatori, ore di vertici e telefonate in cui i suoi lo trovano «confuso».
Esce dall’edificio e viene fischiato, contestato. Sembra il tramonto, domani ancora più vicino col voto in giunta sulla decadenza.
Quando arriva nei suoi uffici a Palazzo Madama poco dopo le 9 del mattino, Verdini racconta al leader che i dissidenti non saranno più di 12, dopo una notte di trattative e contatti.
Berlusconi convoca il gruppo subito dopo il discorso di Letta ma nella Sala Koch adiacente l’aula gli alfaniani non ci sono.
Dentro è lo showdown dei falchi. «Sarai più garantito rispetto alle Procure da leader di opposizione che di maggioranza» è la tesi di Ghedini, mentre Scilipoti incalza: «Bastonate ai traditori».
Fuori, il frondista Formigoni parlando in sala stampa annuncia che in 24 hanno già firmato un documento in dissenso da Berlusconi, pronti a fare gruppo da lì a qualche ore. «Nasce una nuova maggioranza» certifica il ministro pd Franceschini.
È il detonatore che fa esplodere l’assemblea Pdl: si vota, in 34 sono per la sfiducia, ma almeno altri 27 vorrebbero uscire dall’aula per una «non fiducia» a Letta.
Alla fine il Cavaliere rompe gli indugi: «I nostri elettori non capirebbero l’uscita, votiamo no». Ma nella tarda mattinata comincia a vacillare il quartier generale del capo.
Il Cavaliere viene tempestato dalle telefonate di Barroso, presidente della Commissione Ue, di Rehn, commissario degli Affari economici, di Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, e ancora dal numero uno di Confindustria Squinzi, di Carlo Sangalli di Confcommercio.
LA RESA DEL CAVALIERE
È mezzogiorno, Denis Verdini sussurra al leader che si era sbagliato, che i dissidenti sono il doppio rispetto alle sue previsioni, ma lo invita a resistere con le lacrime agli occhi.
Crolla tutto.
Il capogruppo Schifani comunica a Berlusconi che lui non si sente di pronunciare il discorso della sfiducia in aula ed è pronto perciò a dimettersi.
È a quel punto che Paolo Romani, Paolo Bonaiuti e Maurizio Gasparri prendono da parte Berlusconi, lo scuotono. «Ti rendi conto o no che qui si va verso il disastro? Che questa può essere la tua Waterloo? Solo una trentina su 91 si sono espressi per la fiducia, qui perdiamo il partito».
Il Cavaliere sembra convinto, «in effetti lo dicevo da tempo, il nostro mondo ha molti dubbi». Ghedini insiste: «Sfiducia » e viene allontanato a brutto muso, raccontano.
D’intesa con Lupi le colombe organizzano un ultimo faccia a faccia con Alfano, nella stanza del capogruppo Schifani.
I toni sono drammatici. Berlusconi ammette l’errore col delfino, annuncia la fiducia, sembra che ottenga dal vicepremier e da Lupi l’impegno a non dar vita a nuovi gruppi, a restare compatti. Poi va in aula, prende lui la parola e in nome della «pacificazione» e della fine della «guerra civile» dice che voteranno la fiducia.
LA GUERRA DEI GRUPPI E DELLE FIRME
Ma la partita è solo iniziata. Si passa alla Camera, sono le 16, Cicchitto avanza subito alla presidente Boldrini la richiesta per la costituzione del nuovo gruppo, ne occorrono venti, un documento pro Alfano porta la firma di 26 deputati. «Abbiamoi numeri».
Berlusconi convoca a sorpresa i pidiellini. Anche lì, assenti tutti i dissidenti.
Attacca: «Quando Alfano guidava il Pdl siamo scesi al 12 per cento», ma per ora «restiamo uniti, io resisto, non mi dimetterò da senatore.
«Cicchitto fa un suo gruppo, bene» ride al cospetto dei cronisti uscendo.
«Oggi un colpo da teatro? Vengo da quel mondo lì…» Anche i berlusconiani fanno partire una loro raccolta di firme. Siamo alla conta.
Gli alfaniani si riuniscono a tarda sera nella sede della fondazione Magna Carta di Quagliariello per decidere se partire subito o attendere.
Prevarrà la seconda linea. «La frattura è inevitabile ma non irreparabile con Berlusconi » predica cautela ai suoi Alfano. Sul nuovo gruppo «si è aperta una riflessione ma i ministri per ora restano fuori» spiega il ministro Quagliariello. «Ormai la strada è quella» conclude il siciliano Castiglione. Il Transatlantico è un’arena dove si consumano abbracci commossi tra quasi ex compagni di partito. Le lacrime della Brambilla.
Ore prima, lo scambio di battute rubato, tra la Polverini e la Carfagna mentre lasciavano il Senato, è eloquente. «Quello lì non ha avuto le palle per espellere Fiorito, ora le ha trovate per accoltellare Berlusconi» dice la prima alla seconda.
La Carfagna annuisce. Sipario.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)
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