LA MAFIA DELL’OLIO EXTRAVERGINE: PRODOTTI LOW COST, ETICHETTE INVISIBILI
FANNO INCETTA DI MISCELE STRANIERE, LE TRATTANO E POI LE IMMETTONO SUL MERCATO A PREZZI RIBASSATI CON LA DICITURA OLIO EXTRAVERGINE “ITALIANO”
Sulle etichette c’è scritto “olio extravergine di oliva” e “made in Italy”. In realtà è il risultato di disinvolte miscele di oli che vengono da Tunisia, Spagna, Grecia.
Oli spesso difettosi ma soprattutto straordinariamente convenienti per i signori di questa “agromafia”.
Ma ora una maxi-inchiesta che Repubblica è in grado di rivelare sta per smascherare la filiera taroccata.
I boss internazionali dell’olio fanno incetta di miscele straniere a meno di 25 centesimi al chilo.
Poi le trattano, le mescolano, le deodorano e le mettono sul mercato a prezzi ribassati, due/quattro euro al chilo, ma sempre con ricarichi importanti e con informazioni al cliente sostanzialmente false
“E’ qui che i signori dell’olio giocano la loro partita sleale – spiega Stefano Masini, responsabile consumi della Coldiretti –. C’è un gruppo di potere agroalimentare che sull’importazione e sull’assenza di tracciabilità delle “miscele” sta facendo fortune illegali. Così come per i rifiuti si parla di ecomafia, è arrivato il momento, anche per l’olio, di parlare di agromafia. Bisogna iniziare a aggredire i patrimoni”.
I capoccia dell’olio si sono evoluti.
Non solo hanno individuato nuovi canali di approvvigionamento per la materia prima (che poi è anche l’ultima). Hanno pure capito come farla rendere al massimo.
Nella relazione delle Dogane si ricostruisce, tonnellata per tonnellata, un sofisticato sistema di import export: una ragnatela europea fatta di incastri societari e ordinazioni milionarie, “flussi in entrata” e “flussi in uscita”, importazioni “definitive” e “temporanee”.
Il tutto condito da anomalie fiscali, fatture gonfiate, proficui scambi intra e extra comunitari.
“Repubblica”, per non pregiudicare l’esito delle indagini, per ora tiene coperti i nomi delle aziende finite nel mirino degli investigatori.
Raccontiamo come funziona il meccanismo.
C’è questa parolina magica – “trasformazione” – di cui si è esteso il significato. In modo strumentale. Un tempo per trasformazione si intendeva la frangitura, la molitura: insomma il passaggio dall’oliva al suo nettare.
Oggi se i boss internazionali dell’olio dicono che trasformano, può significare che ce la stanno facendo sotto il naso.
Fanno incetta di olio spagnolo e tunisino.
Lo pagano meno di 25 centesimi al chilo. In Italia lo miscelano, anzi, lo”trasformano”, che è un termine più igienico, anche rassicurante. A volte la trasformazione è semplicemente l’imbottigliamento.
In altri casi prevede degli innesti. Magari minimi.
O il processo di deodorazione: si interviene con il vapore per eliminare i difetti (morchia, rancido, muffa, riscaldo, lubrificanti).
Chiamiamoli pure trucchi. In apparenza non lasciano traccia.
C’è un motivo. In base al regolamento comunitario 182 del 6 marzo 2009, indicare la provenienza delle miscele (“di diversa origine”) impiegate sarebbe obbligatorio. In realtà , in nove bottiglie su dieci le scritte che dovrebbero essere riportate – “miscele di oli di oliva comunitari”, “miscele di oli d’oliva non comunitari”, “miscele di oli di oliva comunitari e non comunitari” – sono illeggibili.
I caratteri sono talmente piccoli, e stampati in posizioni quasi nascoste, che per scorgerli bisognerebbe avere la lente d’ingrandimento.
E’ uno dei paraventi dietro cui si nascondono i trafficoni.
“L’ex ministro delle politiche agricole Saverio Romano quattro mesi fa aveva annunciato con grande enfasi un decreto che fissando delle dimensioni minime rendesse più leggibili queste etichette – ragiona Sergio Marini, presidente di Coldiretti –. Che fine ha fatto il decreto? Si è perso?”.
Una volta etichettato l’olio straniero, i furbi distributori italiani lo piazzano a prezzi ribassati: nei discount, negli autogrill con le superofferte turistiche, nella grande distribuzione.
Un euro e ottanta, due euro. Tre, quattro, al massimo. Un bel ricarico se si considerano i 23 o 25 centesimi del prezzo di acquisto.
Fumo negli occhi del consumatore se si pensa che sull’etichetta spicca sempre, quella sì, bene in vista, la scritta olio extravergine d’oliva. Italiano.
“L’olio, rispetto ad altre produzioni agroalimentari, per esempio il vino, è un prodotto straordinariamente semplice – dice Amedeo De Franceschi, vice comandante dei Nafs della Forestale –. Vent’anni fa l’attività dei produttori era regolata da una legge europea che diceva: l’extravergine d’oliva è un prodotto ottenuto solo dalla spremitura meccanica delle olive. Oggi è cambiato tutto. L’olio d’oliva è sparito. E l’extravergine è diventato una giungla. Risultato: le aziende non spremono più niente: mettono in cascina olio che viene da fuori, da lontano, coi tir. La gente lo compra e non sa che è un inganno. Perchè dall’etichetta non si riesce a capire che cosa c’è nella bottiglia”.
Che cosa c’è nell’olio che compriamo?
Quali fregature ci propinano i maneggioni degli ulivi?
Prendiamo l’olio made in Spagna spacciato per extravergine italiano.
Al supermercato il primo prezzo è 3 euro.
Ma dietro la convenienza, ecco la sorpresina.
Non solo non è extravergine, ma è anche di pessima qualità .
“C’è pieno di oli di oliva difettati venduti come extravergini – dice Massimo Gargano, presidente di Unaprol –. Sono oli che meritano di essere declassati, altro che made in Italy”.
La prima indagine nazionale sulla qualità dell’olio d’oliva in vendita nei supermercati italiani ha dato esiti disastrosi.
Su dodici campioni (delle marche più vendute) prelevati dagli scaffali e analizzati in laboratorio, quasi la metà sapeva di muffa.
Le analisi organolettiche hanno evidenziato difetti gravi come il rancido e il riscaldo. “Un olio per poter essere considerato extravergine deve essere privo di difetti organolettici”.
Figuriamoci.
Paolo Berizzi
(da “La Repubblica“)
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