LA PRIORITÀ DEL GOVERNO MELONI: INVECE DI SOSTENERE I REDDITI DA LAVORO, OPERA LE SOLITE MICRO-REDISTRIBUZIONI PER LE MINORANZE CHE VOTANO A DESTRA
TITO BOERI: “IL GOVERNO SOSTIENE DI AVERE ABBASSATO LE TASSE SUL LAVORO E CHE L’AUMENTO DELLA PRESSIONE FISCALE SIA DOVUTO ALL’AUMENTO DELL’OCCUPAZIONE. MA IL TAGLIO DEL CUNEO NON È RIUSCITO A NEUTRALIZZARE GLI EFFETTI DEL DRENAGGIO FISCALE SULLA GRAN MASSA DI LAVORATORI. QUESTI HANNO PERSO POTERE D’ACQUISTO, AL CONTEMPO, HANNO PAGATO PIÙ TASSE PERCHÉ PASSATI AD UN’ALIQUOTA FISCALE PIÙ GRAVOSA”
Un paese in declino demografico, che perde quasi mezzo milione di cittadini in età lavorativa ogni anno, dovrebbe porsi l’obiettivo imprescindibile di sostenere i redditi da lavoro e di farne aumentare la produttività.
Sono due obiettivi tra di loro non solo compatibili, ma che si possono rafforzare a vicenda. Sostenere i redditi da lavoro […] serve ad incoraggiare la partecipazione al mercato del lavoro, quindi a contenere il calo del numero di coloro che generano reddito
Aumentarne la produttività serve a contenere gli effetti sul reddito nazionale della diminuzione di coloro che possono lavorare. Si interviene in questo caso sulla qualità piuttosto che sulla quantità del lavoro. Se la produttività aumenta, anche con meno lavoratori il reddito nazionale può crescere.
Le manovre di bilancio sin qui varate dal Governo Meloni sembrano avere seguito una strada diversa e quella che verrà presentata alle Camere nei prossimi giorni non sembra scostarsi da questa tradizione
Sono manovre del “non fare”, sempre più piccole e che ignorano completamente l’emergenza demografica. Ma la cosa più grave di queste manovre è che aumentano la pressione fiscale sul lavoro anziché ridurla.
Lo fanno per effetto della mancata sterilizzazione del cosiddetto drenaggio fiscale, vale a dire il fatto che molti contribuenti sono stati soggetti in questi anni ad aliquote fiscali più alte senza che il loro reddito, in termini di potere d’acquisto, fosse aumentato.
Come certificato dall’Istat, nel solo 2024 la pressione fiscale (il rapporto fra entrate e reddito nazionale) è aumentata del 3% (dal 41,4 al 42,6 per cento), comportando 26 miliardi di entrate aggiuntive. Questo aumento della pressione fiscale è anch’esso figlio della politica del non fare, Non è legato a un esplicito inasprimento delle tasse […] ma alla scelta di non indicizzare all’inflazione le aliquote fiscali, come avveniva in passato in Italia.
Il governo sostiene, invece, di avere abbassato le tasse sul lavoro e che l’aumento della pressione fiscale sia dovuto all’aumento dell’occupazione (si veda l’audizione del Ministro Giorgetti sulla
legge di bilancio).
Ma il taglio del cuneo fiscale varato da questo governo non è riuscito a neutralizzare gli effetti del fiscal drag sulla gran massa di lavoratori.
Questi hanno perso potere d’acquisto, al contempo, hanno pagato più tasse perché passati ad un’aliquota fiscale più gravosa
Inoltre, come chiarito da Massimo Bordignon e Leonzio Rizzo su lavoce.info, l’aumento del numero di lavoratori non comporta affatto, di per sé, un incremento della pressione fiscale, perché in questo caso aumentano sia le entrate che il reddito nazionale, vale a dire numeratore e denominatore della pressione fiscale.
Sterilizzare il fiscal drag di un inflazione al 2%, il target della Banca Centrale Europea, ha un costo limitato, attorno ai 3 miliardi, secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio. E se la produttività del lavoro fosse aumentata, la pressione fiscale si sarebbe presumibilmente ridotta anche senza sterilizzare il fiscal drag.
Ma non sembrano queste le priorità del governo. Operano micro redistribuzioni a favore di esigue minoranze particolarmente ben rappresentate, e non vanno certo ad aumentare i redditi da lavoro o a incoraggiare aumenti di produttività. Vanno, ad esempio, a vantaggio di coloro che avranno 67 anni nel 2027, che potranno andare in pensione due o tre mesi prima che a legislazione vigente
Ma questo governo non voleva incoraggiare il lavoro rispetto al non lavoro?
(da agenzie)
Leave a Reply