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LA RETORICA DEL “NON SI TROVANO LAVORATORI”, SEMMAI, NON SI TROVANO PIÙ SCHIAVI

GLI ITALIANI HANNO INIZIATO A CAPIRE IL TRUCCHETTO DEGLI IM-PRENDITORI, CHE APPROFITTANO DI DECENNI DI POLITICHE DI “FLESSIBILITÀ” … GLI STIPENDI NON CRESCONO DA VENT’ANNI… IL LIBRO “GLI ITALIANI NON HANNO PIÙ VOGLIA DI LAVORARE (E HANNO RAGIONE)”, DI CHARLOTTE MATTEINI

introduzione a “Gli Italiani non hanno più voglia di lavorare (e hanno ragione)”, di Charlotte Matteini, ed. Cairo
Da anni leggiamo sui giornali che in Italia nessuno sembra aver più voglia di lavorare, specialmente i giovani. È un refrain talmente diffuso da essere diventato ormai una sorta di filone narrativo a cui media, politica e associazioni datoriali si aggrappano disperatamente per evitare di guardare in faccia la realtà del mondo del lavoro italiano, che è andato a deteriorarsi nel corso degli ultimi vent’anni a causa, soprattutto, di due principali fattori: politiche del lavoro errate e una radicata mentalità che continua a considerare i lavoratori come un mero costo da comprimere il più possibile.
La situazione è oggettivamente disastrosa, senza usare troppi giri di parole, ma sembra non ci sia una vera consapevolezza di quanto sia pervasivo il fenomeno dello sfruttamento nel mondo del lavoro in Italia. Non solo lavoro nero e lavoro sommerso: gli abusi dovuti alla precarizzazione del lavoro in Italia sono di fatto sistematici e sistemici in ogni settore, nessuno escluso.
Con “Gli italiani non hanno voglia di lavorare. E hanno ragione” vorrei provare a tracciare un quadro del cosiddetto «stato dell’arte» per mostrare quali siano le condizioni di abuso più ricorrenti e come la cosiddetta «flexicurity» abbia portato, negli ultimi trent’anni, non certo a un miglioramento delle condizioni per i lavoratori italiani, ma anzi all’esatto opposto: perdita di diritti, di salari e di dignità professionale.
Il tutto in netto contrasto con quanto invece osserviamo nei Paesi UE con economia comparabile alla nostra.
Ho affrontato il tema con Domenico Tambasco, avvocato giuslavorista attivo nella difesa dei diritti dei lavoratori e specializzato nella prevenzione e nel contrasto delle condotte violente e moleste sul luogo di lavoro
La situazione odierna è sostanzialmente frutto di un percorso iniziato ormai vari decenni fa, e che nessuno sembra aver intenzione di arrestare
Nonostante le evidenze e l’oggettiva necessità di invertire la rotta, pare che per i governi che si stanno susseguendo il tema lavoro non sia esattamente una priorità: tutte le misure introdotte negli ultimi anni altro non sono che soluzioni-tampone, di fatto ben poco utili al miglioramento delle condizioni dei lavoratori di questo Paese.
«Con lo Statuto dei lavoratori e tutta una serie di norme a tutela del rapporto di lavoro, negli anni Settanta si era creata una legislazione quasi speciale nell’ordinamento italiano, volta a proteggere i lavoratori e a equilibrare gli innaturali e congeniti squilibri del rapporto di lavoro; in questi rapporti, infatti, c’è una parte “ontologicamente” forte, ossia il datore di lavoro, che detiene gli strumenti e i mezzi di produzione, e dall’altra parte c’è il lavoratore, che di fatto, come dice la parola stessa, è subordinato al volere e al potere del suo datore» prosegue l’avvocato Tambasco.
Le vittorie raggiunte grazie alle lotte dei lavoratori negli anni Settanta sono di fatto state smontate, pezzo per pezzo, da una serie di politiche introdotte a partire dalla fine degli anni Novanta: un esempio su tutti è il Pacchetto Treu, un insieme di norme introdotte dal governo Prodi nel 1997 allo scopo di «promuovere l’occupazione».
È la famigerata flexicurity, una politica attiva del lavoro che si basa su una strategia precisa: aumentare flessibilità e sicurezza sul mercato del lavoro grazie ad accordi contrattuali flessibili che rendono più semplice il licenziamento e l’assunzione, e politiche di welfare in grado di garantire un sostegno al reddito durante le transizioni occupazionali.
Qualcosa però sembra essere andato storto. E non esattamente in maniera imprevista.
«In Italia il dogma della flexicurity è stato inoculato con dosi da cavallo fino ad arrivare al Jobs Act: ossia, maggiore flessibilità nei licenziamenti, precarizzazione dei rapporti di lavoro con preferenza per i posti a termine piuttosto che quelli a tempo indeterminato, e addirittura la flessibilizzazione della gestione dei rapporti di lavoro, con la possibilità anche di demansionare i lavoratori.
Fino al 2015-2016 si riteneva che la flessibilità avrebbe aumentato i posti di lavoro; diciamo che questa cosiddetta politica si è rivelata un boomerang, o meglio, si è rivelata per quello che era: disastrosa.
Perché i dati parlano chiaro: sì, è vero che forse sono aumentati o comunque sono stati recuperati posti di lavoro, ma questo ha portato una conseguenza
abbastanza prevedibile: si trattava di una politica che avrebbe di fatto portato a un crollo delle retribuzioni.
Che è esattamente il panorama che noi osserviamo oggi, perché a fronte di una disoccupazione non allarmante (questo lo possiamo dire), le retribuzioni e quindi anche il potere d’acquisto sono tra i più bassi d’Europa» continua l’avvocato Tambasco.
Oggi, nel terzo decennio del terzo millennio, i risultati di questa fallimentare strategia sono sotto gli occhi di tutti, ma nonostante ciò sembra che nessuno voglia davvero puntare lo sguardo sull’elefante nella stanza: retribuzioni basse e per nulla proporzionate al carico di lavoro e al caro vita sempre più crescente, depotenziamento della contrattazione sindacale, compressione dei diritti dei lavoratori, una produttività che cala a picco (complice un sistema imprenditoriale che non si innova […] e cerca disperatamente di competere abbassando sempre di più i salari e comprimendo i diritti) stanno di fatto portando l’Italia verso il baratro della stagnazione economica.
«In uno studio condotto l’anno scorso dall’università Bocconi emergeva che, a fronte di un’occupazione in crescita, in Italia si hanno delle retribuzioni stagnanti, addirittura in crollo.
E questo fenomeno è determinato proprio da politiche del lavoro che hanno indebolito il potere contrattuale dei lavoratori e dei sindacati, mentre hanno rafforzato il potere dei datori di lavoro, che evidentemente agiscono secondo il loro interesse.»
Secondo Tambasco, lasciando da parte per un momento la tendenza legislativa, bisogna riconoscere che la tendenza giurisprudenziale ha invece mantenuto un cammino oscillante: «La giurisprudenza è stata ipergarantista nei confronti dei lavoratori fino alla fine dei primi anni Duemila, poi ha un po’ allargato le maglie seguendo la tendenza legislativa.
Ultimamente, però, è tornata a essere molto più garantista sul piano del riconoscimento delle tutele dei lavoratori.
Faccio un esempio, tornando alla questione delle retribuzioni, che in alcuni casi sono bassissime (e addirittura i minimi contrattuali previsti dai contratti nazionali sono quasi al di sotto della soglia di povertà): negli ultimi anni è stata la giurisprudenza a intervenire a tutela dei lavoratori per porre un argine rispetto a quella che è una sorta di giungla dal punto di vista delle retribuzioni.
Con le sentenze del 2023 e del 2024 ha dichiarato addirittura la nullità parziale di diversi contratti collettivi che disponevano minimi contrattuali in contrasto
con l’articolo 36 della Costituzione. In buona sostanza, abbiamo assistito a un intervento proattivo della giurisprudenza laddove il legislatore non solo non si occupa di salario minimo, ma addirittura apre le porte a una legislazione che va a diminuire ulteriormente il potere contrattuale» prosegue il giuslavorista.
Nonostante a livello di politiche del lavoro il quadro sia piuttosto infausto, negli ultimi anni la giurisprudenza ha quindi giocato, e sta ancora giocando, un ruolo fondamentale rispetto alla tutela dei lavoratori. E questa azione non investe solamente la questione retributiva.
Vent’anni fa, per esempio, se non c’era una certezza rispetto alla volontà persecutoria del datore di lavoro, le condizioni come il superlavoro o la mancata conciliazione tra vita privata e professionale non venivano considerate mobbing, o comunque era necessario farle rientrare all’interno della categoria del mobbing, che però a sua volta era molto ristretta.
Oggi non si parla invece solo di mobbing: si parla di stress lavorativo così da dare un perimetro di tutela molto ampio per migliorare le condizioni dei lavoratori» sottolinea Tambasco.
Tra i maggiori detonatori del cambiamento, non solo dal punto di vista salariale ma anche e soprattutto rispetto alla qualità dell’organizzazione delle attività lavorative, sicuramente possiamo citare la pandemia, che ha avuto un forte impatto soprattutto sui lavoratori, non più disposti ad accettare compromessi al ribasso:
«L’emergenza Covid ha sensibilizzato un po’ tutti i lavoratori sulla necessità che il posto di lavoro garantisca una qualità della vita lavorativa.
Infatti, ora più che mai i lavoratori fanno sempre maggiore attenzione alle condizioni, agli orari, alla qualità del lavoro. Nessuno è più disposto a quelle grandi maratone che si facevano una volta: ecco perché la stessa giurisprudenza ultimamente sta dando particolare rilievo a questi aspetti» continua l’avvocato.
Sul piano normativo, invece, l’aspetto che Più mi preoccupa è l’intervento sulle retribuzioni. In quest’ottica, l’intervento che ritengo più importante è quello del salario minimo, ovvero di un legislatore che stabilisca un minimum, che poi ovviamente potrà essere derogato in melius dalla contrattazione collettiva: questo è tra l’altro un meccanismo presente in molti altri Paesi europei, e ha avuto una funzione virtuosa perché ha supportato la contrattazione collettiva, permettendo di riconoscere dei minimi contrattuali davvero superiori al minimo di legge, e quindi decorosi.
Non è vero che il salario minimo svuota il potere della contrattazione o che
sarebbe una sottrazione di potere alle organizzazioni sindacali; anzi, in realtà andrebbe ad affiancarle, a integrarle, a supportarle. Sarebbe d’aiuto.
Infine, l’incentivazione del whistleblowing, magari diffondendolo anche nelle imprese più picco-le: potrebbe essere di supporto per aumentare il numero di denunce e segnalazioni» conclude l’avvocato
Come risulta evidente da questa breve panoramica, il cavallo di Troia per la compressione dei diritti dei lavoratori è stata quella serie di politiche che si sono susseguite dalla fine degli anni Novanta a oggi: esse hanno trovato terreno fertile anche grazie a un substrato culturale che ha permesso la proliferazione di tutti quei danni collaterali che hanno gravemente minato le basi del mondo del lavoro italiano, spogliando i lavoratori di molte tutele, con un impatto devastante sulla dinamica di mancata crescita delle retribuzioni.
Dalla Panoramica legislativa e giurisprudenziale ora passiamo al fulcro di questo libro: la fotografia dinamica dell’involuzione del mondo del lavoro italiano, dei sistematici abusi che caratterizzano numerosi settori, e dell’enorme ruolo che la stampa ha avuto nel peggioramento delle condizioni dei lavoratori, contribuendo a costruire una narrazione fondata sulla negazione della realtà
(da agenzie)

This entry was posted on domenica, Aprile 13th, 2025 at 15:28 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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