LA RUSSA ESPIATORIO: MELONI LO CRITICA PER USCIRE DALL’ANGOLO
IL DISTINGUO (IO NON AVREI PARLATO) COME NECESSARIA CONCESSIONE
La verità, come insegnavano i vecchi politici avvezzi a coniugare pensiero e azione, ragione e controllo dei nervi, ruolo istituzionale e parole, eccetera eccetera, è che, quando l’errore è nel manico, poi, come si dice in gergo, “è difficile riacchiapparlo” o quantomeno è assai complicato.
La conferenza stampa di Giorgia Meloni al termine del vertice Nato di Vilnius ne è un icastico caso di scuola, a partire dal fatto – prima sgrammaticatura – che l’appuntamento al termine di un rilevante vertice internazionale è stato in parte occupato dalla vicenda degli scandali italiani.
Insomma, una vertigine: da Jens Stoltenberg sull’Ucraina a Daniela Santanchè, Andrea Delmastro e Ignazio La Russa, padre e figlio. Non proprio un bel vedere determinato dal fatto che, per giorni, la premier ha scelto di fuggire da domande e chiarimenti, affidando tutto a una nota anonima in cui accusava un potere dello Stato di complotto ai danni di un altro.
Però, devono aver pensato i suoi solerti spin doctor, in Italia sarebbe stato peggio: invece che due, si sarebbe beccata almeno una decina di domande e, come noto, quando sono dieci la premier non può cavarsela con due risposte e non dà il meglio di sé in termini di aplomb.
E qui (sulla nota), il secondo corno del caso di scuola, perché quella velina, per la gravità di affermazioni, rappresenta un punto di non ritorno che rende pressoché impossibile il tentativo di abbassare i toni. C’è poco da fare: se prima dici che la magistratura è in campagna elettorale per far vincere la sinistra, o ti smentisci, e ci vuole fantasia a trovare una spiegazione plausibile, a meno che i comunicati di Palazzo Chigi non siano vergati all’insaputa del premier (roba da cambiare mestiere), oppure ti arrabatti malamente.
Ecco, e infatti è andata in scena una gigantesca e scomposta supercazzola, iniziata col tentativo di smussare (“Non c’è intento di aprire un conflitto”, “non vogliamo fare la riforma contro i magistrati”) e finita con un “mi riconosco in quelle parole” (della velina) e la difesa, a corpo nudo, di Santanchè, con tanto di lodi per come sta svolgendo l’operato da ministro.
In mezzo, il distinguo su La Russa, il cui sproloquio inopportuno è stato stigmatizzato, sia pur tra un “comprendo da madre” e un “vedremo il merito”. Sia come sia, la “solidarietà a una ragazza che denuncia” è l’osso, che comunque fa titolo, dato in pasto a un’opinione pubblica esigente sul tema, e ancor più esigente, come ha spiegato Alessandra Ghisleri sulla Stampa verso un premier donna.
Diciamo così: è troppo dire che lo scarica, perché Giorgia Meloni non è nelle condizioni e non può permettersi di farlo, però deve essere stato un sacrificio non a costo zero perché non si era mai visto un capo del governo dire a un presidente del Senato che era meglio se taceva. Ma era l’unico modo per uscire dall’angolo e preservare il suo racconto di madre, donna e cristiana.
E tuttavia, nella sostanza, i fondamenti del conflitto con i giudici, le cui dichiarazioni vengono bollate come “apocalittiche” restano immutati rispetto alle reazioni a caldo, nell’ambito di un discorso in cui i singoli fatti scompaiono.
Per Giorgia Meloni è anomalo, anzi “è un caso politico” che un gip proceda all’imputazione coatta di un sottosegretario, cioè applichi la legge, ed è anomalo che a un ministro venga contestato di violarla.
E, nell’ambito di uno slittamento tutto politico in cui tutte le vacche sono nere, il problema non è l’indagine e neppure i reati contestati, ma che la notizia sia comparsa sulla stampa. E – udite udite – la gravità di questa violazione sarebbe tale da giustificare che l’avviso di garanzia, in questo contesto, non determini le dimissioni di un ministro. E, dato che ci siamo, pure l’accelerazione sulla separazione delle carriere, anche se il caso Delmastro, con ogni evidenza, rivela che almeno stavolta pm e gip sono piuttosto separati.
Assedio, è parola chiave per spiegare questa sindrome e questa costruzione illogica di casi diversi racchiusi in un unico “fascio” che magari si spiega con la difficoltà politica più generale e la ricerca di un nemico esterno. Ma forse l’aspetto più rilevante nell’esercizio della leadership, che si misura anche in una narrazione da cui è scomparso tutto l’armamentario della “legalità” e di “Borsellino”, è nel rapporto tra libertà e vincoli.
Colei che diceva “io non sono ricattabile” diventa colei che amplifica, politicizzandolo, ciò che sta avvenendo, perché non ha la libertà di dirsi estranea alla logica della sua tribù, che impedisce il sacrificio degli accoliti. E impone la difesa a testuggine dell’indifendibile.
(da Huffingotnpost)
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