LA STORIA DI LEIL, MIGRANTE DENTRO CASAPOUND: “E’ COME UNA SETTA, STARE LI’ MI FACEVA SENTIRE ACCETTATO”
IL RACCONTO DEL GIOVANE ARABO
“So che suona paradossale, ma in quel periodo era cresciuto dentro di me un germe dettato dalla tanta rabbia che vivevo. Sentivo il dovere di frequentare questi gruppi neofascisti per spiegare loro cosa significasse essere italiani, perché ci tenevo”, spiega Leil.
A raccontare non è un ragazzo italiano con pieno di odio verso i migranti ma Leil, un giovane di origine araba che, all’età di 13 anni, ha deciso di iscriversi a CasaPound, movimento di estrema destra conosciuto per la sua retorica anti-immigrazione e la difesa dell’identità italiana.
La storia di Leil inizia lontano dall’Italia, in un paese arabo dilaniato dalla guerra. Arrivato in Italia nel 2002, quando aveva solo cinque anni, si stabilisce con la sua famiglia in una piccola città del Centro Italia. Una zona “rossa”, dove i neofascisti sono piuttosto isolati e faticano a trovare uno spazio.
Il padre era già emigrato in Italia negli anni Settanta e a casa l’arabo era la lingua predominante. Fuori, invece, Leil si trovava immerso in una realtà italiana che gli appariva estranea. Questo dualismo culturale ha segnato profondamente la sua crescita. “Mi sentivo dentro al coro, e fuori dal coro”, spiega. Leil ha sperimentato il senso di alienazione che spesso accompagna chi vive in questa dualità, e impegnarsi in politica in un gruppo con un’identità così forte lo avrebbe addirittura aiutato a trovare un equilibrio.
Quando ha scelto di raccontarci la sua storia, ovviamente gli abbiamo chiesto come fosse visto all’interno dell’organizzazione il suo background migratorio, e la risposta ci ha lasciato abbastanza spiazzati: “Ero accettato soprattutto per una ragione di classe. Ero un immigrato di serie A, ma soprattutto andavo orgoglioso della mia identità e origine, e questo per loro era un modo per dimostrare come non fossero in realtà dei razzisti decerebrati come raccontavano gli antifascisti”.
Si sente accolto e accettato. Non manca qualche uscita razzista, certo, così come le posizioni dure nei confronti dell’immigrazione, ma lui è diverso da quelli arrivati “sui barconi” e che dormono nei “centri d’accoglienza”.
“L’idea di poter stare in mezzo a queste persone, gente con la svastica tatuata in testa e altro, e riuscire a farmi accettare da loro, mi faceva camminare a testa alta.” Era insomma una dimostrazione di forza e di integrazione in una società che spesso marginalizza persone con un background migratorio. “C’erano momenti in cui mi chiedevo se fossi veramente accettato o se fossi solo tollerato perché potevo essere utile. Alcuni vedevano le mie origini come un possibile simbolo antirazzista, mentre altri lo trovavano strano o poco credibile.”, aggiunge.
A tenerlo dentro l’organizzazione di estrema destra anche una certa vena nichilista. Quando scoppia la guerra nel suo paese d’origine, comincia a partecipare con empatia a eventi che prima gli sembravano lontanissimi. “Mi sentivo impotente pensando al mio amichetto d’infanzia armato, mentre io vivevo una vita normale in Italia, e parlavo continuamente di andare a morire combattendo, di imbracciare un fucile appena avessi finito la scuola. Questo era molto apprezzato dai capi”.
Leil trova nei locali che fanno da sede al gruppo una comitiva di amici, ma anche un gruppo disciplinato, con un vincolo di obbedienza totalizzante. “Quando indossavi una maglietta del movimento o riconducibile a CasaPound, non potevi fare come ti pareva, perché ogni gesto o azione poi poteva essere accollato a tutti”. E poi bisogna arrivare in orario agli appuntamenti, versare i soldi ogni mese e attacchinare i manifesti che arrivano da Roma. “Per noi in provincia non c’era tanta autonomia, si vedeva a quello che succedeva nella capitale, si ascoltavano i capi a livello nazionale e si agiva di conseguenza, anche perché noi sul territorio non eravamo poi molto forti”, spiega.
“La città dove vivevo era fortemente antifascista. Scegliere di appartenere a CasaPound non era una scelta ben vista neanche al liceo”. Leil cresce, e continua il suo percorso politico all’estrema destra nonostante tutto. Si sposta per partecipare alle manifestazioni nazionali, va ai concerti e ascolta la musica che circola nell’ambiente, a Grosseto ogni anno la festa nazionale è un appuntamento fisso. E da militante semplice viene promosso ad avere qualche responsabilità: “Ho preso anche una denuncia per una manifestazione, ero però contento di essere io adesso a poter dire almeno ai più piccoli cosa fare”.
Una cosa c’è però che non lo convince tanto “la scelta di candidarsi alle elezioni”, anche perché nella sua città “non c’era nessuna speranza di farcela”. In generale il percorso elettorale scelto per una fase dal movimento non lo affascinava, e convinceva molto poco anche quelli del suo gruppo. Cosa ti affascinava allora? Gli chiediamo a questo punto. E anche questa volta la risposta ci stupisce un po’: “Ero molto attratto dal paganesimo. Ho letto diversi libri sull’argomento, e poi c’erano dei riti per il solstizio. C’era anche chi dall’8 dicembre fino al 21 dicembre si asteneva dal sesso e dalla masturbazione, non mangiava carne e seguiva altre regole per purificarsi in attesa del rito”.
Chiediamo a Leil se abbia mai preso parte a spedizioni punitive, scontri e azioni violente. Ci risponde di no, anche se “il clima interno era spesso teso”, e la violenza fosse “considerata una parte naturale della lotta politica e sociale, non gratuita ma strumentale”.
E poi cosa succede? Che la scuola finisce, lo studio lo porta lontano dalla città d’origine e scopre che, non ha voglia di andare a morire in guerra ma di studiare, conoscere, viaggiare. E nella nuova città evita di legarsi di nuovo a CasaPound, dopo i primi approcci capisce che non è più quella la sua strada. “Lasciare il gruppo è stato difficile I tatuaggi e la simbologia rappresentavano un legame profondo con quella parte della mia vita, e non erano facile da cancellare”.
“A volte faccio sogni in cui confronto le mie scelte passate con le persone del passato, cercando di spiegare le mie ragioni”, spiega Leil che ora è quanto più lontano da quelle idee, ma ci tiene a spiegarsi a farsi capire. E poi dice una cosa che ci sembra significativa: “Certo la politica e le elezioni, ma quello che CasaPound fa è organizzarti la vita, darti delle certezze: che musica ascoltare, in che pub andare, cosa devi pensare, che marca scegliere. Assomiglia più a una setta che ti fa allontanare dagli altri che a un movimento politico.”.
E sulla possibilità che i movimenti di estrema destra vengano sciolti? Su questo anche Leil sembra avere le idee chiare: “Non sono sicuro che sciogliere un gruppo come CasaPound sia la soluzione. Potrebbe essere un modo per mettere a tacere una parte del problema, ma potrebbe anche portare alla creazione di nuovi gruppi più estremisti. È essenziale affrontare le cause alla radice, piuttosto che semplicemente eliminare il sintomo.”
(da Fanpage)
Leave a Reply