LA STRATEGIA DI ELLY
SALARIO MINIMO, SANITA’ PUBBLICA E CAPOLISTA ALLE EUROPEE IN TUTTE LE CIRCOSCRIZIONI: OBIETTIVO 23% E RIDIMENSIONARE I CAPIBASTONE
Ce l’ha una strategia Elly Schlein. Una strategia per poter cominciare a fare davvero la segretaria del Pd. Perché sa la leader uscita dalle primarie a metà, quelle che hanno incoronato Stefano Bonaccini fra i dirigenti ufficiali democratici e lei nei gazebo fra il popolo comune, che per essere il capo deve vincere qualcosa del tutto. E questo qualcosa riguarda le prossime elezioni, le Europee del 2024.
Giocano a favore di Elly le regole elettorali. Perché quelle elezioni che potrebbero cambiare volto al Parlamento di Strasburgo si basano su una legge elettorale proporzionale.
Vale a dire che ogni partito corre per se stesso, che non ci sono alleanze e soprattutto che non c’è Giorgia Meloni da battere, ma questa volta da sconfiggere ci sono i propri potenziali alleati, togliendo più voti possibili al Movimento 5 Stelle e confinando le sinistre residuali al di sotto della soglia di sbarramento.
Ecco dove punta Elly. Ed è per questo che corre in solitaria anche in questi mesi, forte delle parole d’ordine di una sinistra che non c’entra molto con la vocazione maggioritaria necessaria in Italia per poter competere al governo, ma molto utili per radicalizzare il voto e superare quella soglia psicologica del 20% di un numero sufficiente di punti per staccare Giuseppe Conte e i suoi Cinquestelle di almeno 10 lunghezze. Se riuscirà a fare questo, il Pd sarà il secondo partito italiano con una percentuale che garantirà a lei di essere la calamita naturale di qualunque operazione politica avvenga dal giorno dopo quelle elezioni europee, diventando il leader naturale di una coalizione che a quel punto dovrà scegliere se stare con lei o contro di lei.
Per vincere questa partita Elly punta al 23%, con l’obiettivo considerato dai vertici attuali del Partito Democratico una vittoria su tutta la linea fissato al 25. E il sogno, per ora proprio un sogno, di riuscire in questa corsa solitaria e addirittura competere con Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia per segnare il podio al primo posto.
Nel qual caso il risvolto sugli equilibri di maggioranza in Italia sarebbe a dir poco eclatante ma proprio per questo non è stato posto fra gli obiettivi necessari. Per ora il Pd vincerebbe la sua partita anche se arrivasse al secondo posto, proprio perché questa in realtà è una partita tutta interna alle opposizioni.
Sul piano dei temi Elly sta giocando con chiarezza su due colori: l’intestazione del salario minimo, sul quale ha superato i freni culturali della sinistra sindacalista, e che nella sua logica può avere lo stesso effetto che ebbe il reddito di cittadinanza alle elezioni politiche, l’elemento elettorale che garanti a Giuseppe Conte non solo la sopravvivenza ma addirittura il rilancio dei pentastellati.
E come si è visto sul salario minimo per ora Elly Schlein i suoi punti li ha segnati, avendolo trasformato nel dibattito centrale della scena politica italiana, costringendo anche il premier Meloni a un atto di avvicinamento e a una apertura culturale, benché frenata da mille paletti e dubbi, perché è molto chiaro al premier che lasciare il campo aperto a queste due parole adesso è gestibile, fra tre mesi potrebbe essere un errore. Al salario minimo il Pd intende aggiungere il tema della sanità pubblica, che già nelle ultime ore è andato al centro dei discorsi di fine estate del segretario.
Ma che al Nazareno è considerato un elemento capace di attrarre entro poche settimane l’attenzione degli italiani allo stesso livello del salario. Ma c’è una terza carta, l’asso nella manica, che non riguarda questa volta il centrodestra ma riguarda proprio questo clima di guerra civile che dal giorno dopo le primarie che hanno incoronato la ex vicepresidente dell’Emilia Romagna al vertice del partito è scoppiata in casa democratica.
Schlein intende, spinta dai suoi fedelissimi, mettere il proprio nome come capolista in tutti i collegi delle elezioni europee. Secondo un principio per cui non si tratta di una candidatura multipla ma, parafrasando proprio Giorgia Meloni sul caso di Caivano, la necessità di mettere la faccia e di candidare la sinistra italiana nel suo insieme a un ruolo di grande rilievo nel prossimo Parlamento Europeo.
E’ evidente che nel popolo della sinistra questa candidatura avrebbe il vento in poppa sul piano delle preferenze personali, fatto che sta spingendo i democratici a ipotizzare che proprio quei dirigenti che contestano la leader e che fanno mille distinguo sulla linea del partito, come se il Pd avesse una storia di unità reale, e non solo confinata alle interviste e ai discorsi di filosofia, si candidino tutti e si contino alle urne.
Il combinato disposto, per dirla alla democristiana, di queste due decisioni sta scatenando il putiferio in casa democratica. Perché è chiaro a tutti che lo scivolone è dietro l’angolo per molti volti noti dei dem, a partire da quei governatori che da un po’ di tempo secondo il Nazareno alzano troppo la cresta nei confronti del leader.
Ed ecco che di fronte a questa prospettiva una candidatura non supportata da un consenso molto forte segnerebbe la fine della stella in questione, mentre la rinuncia a correre sarebbe di per sé un gesto di resa alla leadership uscita dalle primarie del Pd. Ed ecco perché le frasi come quella strappata a Zingaretti dal Foglio, dove l’ex governatore del Lazio avrebbe messo in dubbio la forza elettorale di Schlein, vaticinando un diciassette per cento come risultato elettorale, trova una spiegazione in questo piano strategico che sta facendo andare ai matti il gotha storico del partito.
Poco male, perché al centro si muove Renzi e quella sembra ormai essere l’unica porta di uscita di sicurezza per chi non gradirà la linea ufficiale per le europee. Portando molti volti noti dei dem di fronte a un bivio davvero difficile da affrontare sul piano elettorale. Bivio che rende molto più spiegabile l’idea del referendum contro il Jobs Act, un referendum in pratica contro se stessi, ma che assume un significato diverso se visto come garanzia preventiva consegnata di fatto ai vertici del Pd di una impossibilità materiale di saltare giù dal carro all’ultima curva per salire su quello di un Renzi che a quel punto sarà diventato un avversario formale di chi invece ha scelto di sostenere la strada dell’abolizione di quella riforma che connotò certo la segreteria dell’ex rottamatore ma tutta l’epoca di governo dei democratici nel secondo decennio del 2000.
(da Identità)
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