LE BAMBINE INVISIBILI E QUELL’AIUTO NEGATO DA 614 PASSANTI
IL MALESSERE DELLA SOCIETA’ MODERNA INIZIA DALLA MANCANZA DI VISIBILITA’ DELLE NOSTRE COSCIENZE
Questa storia potrebbe intitolarsi la storia delle sorelline invisibili.
Si chiamano Uma e Maya, hanno sette e cinque anni e sono bambine in carne e ossa. La storia, per fortuna ma neanche tanto, è un storia di finzione, nel senso che è stata sceneggiata da un gruppo televisivo per una specie di Candid Camera.
Siamo in un centro commerciale di Londra, vicino a Victoria Station, in un sabato mattina, orario di punta.
Le due sorelline vengono lasciate sole in mezzo alla folla immensa degli acquirenti. Devono fingere di aver perso la mamma, Uma stringendo al petto un pupazzo rosa, Maya, la più piccola, succhiando il pollice, guardandosi intorno spaurita e chiedendo aiuto.
La madre, in realtà , si nasconde dietro un pilastro per vedere se qualcuno offre loro un soccorso alle figlie, ma non è lei la persona invisibile, sono le due bambine sperdute.
In venti minuti si contano 615 passanti, ma solo una donna si ferma per aiutare le piccole.
È Perl Pitcher, una signora sulla settantina, con una borsetta in mano, che si china a chiedere se per caso c’è qualcosa che non va.
Gli altri passano via rapidi, come se nulla fosse, come se Uma e Maya fossero invisibili.
La madre non crede ai suoi occhi. Se la scena non fosse stata preparata da una troupe televisiva, per un sondaggio sociologico, sarebbe drammatica.
Forse lo è ugualmente: i clienti aggirano i due piccoli ostacoli viventi senza lasciarsi distrarre, e si affrettano a fare i loro acquisti.
Ammettiamo pure che la folla del sabato mattina, in un non luogo per antonomasia com’è il centro commerciale metropolitano, non si trova nelle condizioni migliori per entrare in relazione con l’altro, con gli altri.
Non c’è bisogno di richiamare il famoso saggio di Marc Augè, dove si studiano quegli spazi di passaggio in cui il solo scopo è impossessarsi, a gran velocità , dell’oggetto di consumo per tornare a casa rasserenati.
Mettiamoci pure il fatto che le due bambine non saranno state interpreti perfette del ruolo di figlie abbandonate loro assegnato dalla «fiction» televisiva.
Mettiamoci tutto, persino l’iper-cautela (politicamente corretta) di non apparire maniaci travestiti da soccorritori. Ma…
Qualche anno fa un cadavere era rimasto disteso, per ore, sotto un ombrellone del lungomare di Napoli mentre alcune signore si spalmavano la crema sulle spalle, un gruppetto di uomini chiacchierava nella totale tranquillità , altri continuavano a prendere la tintarella o a leggere indisturbati sulla sdraio.
Quanti clochard in agonia ignorati sui marciapiedi delle nostre città , quanti pedoni investiti da «pirati» fuggiti via sinceramente convinti di non aver neanche sentito il botto.
Alla vigilia di Natale del 2010 un Uomo invisibile, fermo sulla corsia d’emergenza della A1 per verificare il guasto del suo furgone, era stato travolto da un camion e trascinato sull’asfalto per 90 chilometri.
C’era un tempo in cui i vivi dovevano lottare con i fantasmi dei morti che volevano rendersi testardamente visibili al mondo, ora i vivi appaiono invisibili ai vivi.
Una percezione sovvertita ci fa reagire immediatamente agli evanescenti impulsi virtuali e ci lascia imperturbati di fronte alla realtà in carne e ossa.
Ma ci sono parole sufficienti quando in una società diventano invisibili persino i bambini?
Paolo Di Stefano
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