L’ITALIA DA RICUCIRE
I SALARI LORDI FERMI AL 1990, DISEGUAGLIANZE IN TUTTI I SETTORI TRA NORD E SUD E CON L’EUROPA… UN PAESE IN DECLINO DOVE L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA ACUIRA’ LE DISTANZE
Tutti i dati disponibili ci dicono da tempo che l’Italia è una nazione in lento e costante declino. Ogni giorno, una statistica in più ci ricorda quanti punti in meno vale la nostra economia in Europa e nel mondo. Sembra essersi esaurita, almeno dalla crisi del 2008, la spinta propulsiva della nostra creatività, la capacità di superare in avanti i momenti difficili, ripartendo dopo crisi strutturali o eventi drammatici. Come se tutti i fattori di debolezza, attenuati per un lungo tratto storico dalla lunga fase di espansione, improvvisamente si fossero trasformati in un ostacolo strutturale per una ripresa duratura.
Qual è la zavorra che appesantisce la nostra economia e ci trascina sempre più giù nelle statistiche del malessere? A mio parere l’Italia è malata essenzialmente di diseguaglianze (territoriali, sociali, di genere, di salute, di dotazioni di servizi essenziali) e questa sua malattia si rispecchia senza più attenuazioni sulla sua base produttiva. È dimostrato che in Europa i Paesi economicamente più forti sono quelli più coesi socialmente e le nazioni con minori differenze territoriali reagiscono meglio alle crisi. Le società e le economie più diseguali stanno dando dei risultati peggiori di quelle più paritarie. L’Italia è all’apice dei Paesi più diseguali.
Annoveriamo 4 territori fra i primi in Europa per reddito (provincia di Bolzano, Lombardia, provincia di Trento, Valle d’Aosta) ma anche 4 regioni tra le peggiori 50 d’Europa (Puglia, Campania, Sicilia e Calabria). Nel 2000, però (appena 23 anni fa) l’Italia contava ben 10 regioni classificate tra le prime 50, e nessuna regione italiana compariva nella classifica delle 50 peggiori. Nel giro di un ventennio, mentre accrescevano le disparità tra Nord e Sud cresceva anche la distanza tra regioni italiane e le altre regioni europee. Le diseguaglianze interne troppo marcate sono ormai un fattore di scarsa competitività del nostro sistema produttivo.
La lotta alle diseguaglianze non è solo un entusiasmante programma politico ma una grande strategia di crescita dell’economia. L’Italia è un Paese lungo geograficamente, corto economicamente e storto socialmente. Gli egoismi territoriali, l’esasperazione delle disparità sociali, di genere e di salute rappresentano un danno economico per il nostro Paese, perché gli squilibri oltre un certo limite diventano un handicap economico, rallentano il motore dello sviluppo, ne inficiano la potenza, e addirittura sono in grado di incepparlo.
Se il Pil rappresenta la ricchezza di una nazione, è ovvio che questa ricchezza non aumenta se non quando essa si propaga in tutte le sue parti. Se in un insieme una parte non cresce, è l’insieme a subirne le conseguenze, anche se una singola sua parte è cresciuta. Una nazione è come un corpo. Se si cammina su di un solo piede, sarà difficile mantenersi in piedi, ed è già un miracolo fare qualche passo. Il convincimento che l’Italia possa continuare a prosperare anche facendo a meno di una sua parte è, dati alla mano, destituita di ogni fondamento. Non regge alla lunga una nazione con una economia dimezzata. Lo hanno dimostrato Alberto Quadrio Curzio e Marco Fortis in uno studio di qualche anno fa per la Fondazione Edison. La loro tesi fondamentale è questa: se l’Italia scommettesse sullo sviluppo industriale del Sud, accompagnando alcune sue eccellenze produttive già presenti, in pochi anni la nostra nazione diventerebbe economicamente più forte di Francia e Germania. Con il Meridione sviluppato ai livelli di alcune aree del Nord, la nostra diventerebbe la prima economia in Europa.
Un altro esempio: in un recente libro di Ferruccio Pastore (Migramorfosi) si fa notare che il salario lordo annuo degli italiani, a parità di potere d’acquisto, è stato nel 2021 di 29.694 euro rispetto ai 29.341 del 1990. Nello stesso periodo gli spagnoli i francesi sono passati da 29.000 a 40.000 dollari e i tedeschi da 30.000 a 43.000. L’Italia è rimasta ferma al 1990! Anche in questo caso, i vantaggi sarebbero enormi se si riducesse la disparità delle retribuzioni con il resto d’Europa. Altro esempio: in Italia il divario di genere è impressionante. Se in Europa la differenza tra il tasso di occupazione femminile rispetto a quello degli uomini è di 10,7 punti, nel nostro Paese è di ben 20 punti. Ma questa pur notevole differenza non è uniforme: nel Sud appena il 35% delle madri con figli in età prescolare lavora rispetto al 64% delle mamme del Centro-Nord. Se si portasse il tasso di occupazione femminile meridionale ai livelli del Centro-Nord, ciò comporterebbe un vantaggio economico per l’Italia intera oltre che un passo in avanti notevole in materia di diritti civili.
Si vive, dunque, in due Italie nettamente distinte. Dove l’economia è meno sviluppata c’è meno ricchezza da distribuire, si muore prima, ci si cura peggio, si apprende di meno, si emigra in massa, si hanno minori possibilità di trovare lavoro, più probabilità di restare a casa se si è donna. Ecco perché l’Autonomia differenziata è un veleno per la nostra base produttiva perché impedisce di allargarla. La sua approvazione potrebbe avere gli stessi effetti che la Brexit ha avuto per l’economia inglese. Così come l’avversione per il salario minimo (e per ogni forma di riduzione delle differenze salariali) è un ulteriore freno per la migliore distribuzione della ricchezza nazionale. E aver tolto il reddito di cittadinanza porterà solo all’aumento della povertà e una riduzione dei consumi. Colmare le distanze, ridurre le disparità, ricucire le fratture vuol dire allargare i polmoni alla nostra economia.
(da La Repubblica)
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