LO «SCONCERTO» DI ROMEO: VOGLIONO PIANTARE BANDIERINE COSÌ SI CREA SOLO TENSIONE
LA LEGA NON INTENDE LASCIARE LA LOMBARDIA ALLA MELONI, MA E’ STATO SALVINI A SIGLARE IL PATTO
«Sono molto deluso. Anzi, direi esterrefatto per il comportamento di Fratelli d’Italia. È come se si volessero piantare bandierine». Era nell’ordine delle cose che il via libera a un leghista in Veneto si sarebbe riverberato sulla Lombardia con una contropartita per l’alleato principale. Se n’è parlato per settimane, ma quando mercoledì sera lo «scambio» è stato cristallizzato nero su bianco, seppur con una formula in politichese, anche Massimiliano Romeo, capogruppo leghista al Senato ma soprattutto segretario della Lega lombarda, è rimasto turbato.
L’analisi mette a fuoco due diversi tipi di criticità. La prima, la più immediata come dimostrano le reazioni a caldo, riguarda il fronte interno. «Si generano tensioni e fibrillazione nella Lega in Lombardia, creando peraltro una competizione con il Veneto che non ha senso» spiega Romeo.
Ma c’è un’altra preoccupazione che sorge pensando alle ricadute su chi sta guidando il Pirellone in questo momento.
«Penso a come possano vivere questa situazione il presidente Attilio Fontana, gli assessori e i consiglieri che stanno lavorando e che si vedono trattati come merce di scambio. Anche qui, si generano reazioni che non fanno bene» osserva il segretario che dal giorno della sua elezione alla guida dei leghisti lombardi si è battuto per rilanciare i temi cari al territorio, cercando di risvegliare l’orgoglio di quella Lega che aveva cuore e anima a Pontida e nelle valli varesine.
La mente corre ad altre stagioni politiche, quelle in cui il dominus del centrodestra era Silvio Berlusconi. Sotto il suo «regno» capitò, e non generò scandalo, di vedere in contemporanea alla guida di Lombardia e Veneto due leghisti doc come Roberto Maroni e Luca Zaia.
Ancor meno aiuta, vista da Milano, l’ipotesi di anticipare la chiusura del mandato di Fontana al 2027 per abbinare elezioni regionali e politiche.
«Ma è come se dicessimo ai cittadini — conclude il segretario della Lega lombarda — che consideriamo la partita già chiusa, una sorta di formalità, mentre abbiamo il dovere di continuare a lavorare per dare risposta alle istanze del territorio su sanità, trasporti, infrastrutture. Questo non è il momento di pensare alla bandierine, ma di tenere a testa bassa e pedalare. A chi toccherà guidare la Lombardia lo decideremo fra tre anni, scegliendo il candidato migliore»
Dopo avere ottenuto il proprio candidato, Alberto Stefani, i
leghisti del Nord avvertono che dovrà essere lo stesso anche lì. Ma Matteo Salvini li corregge: se FdI nel 2028 sarà il primo partito avrà il diritto di chiedere la Lombardia. D’altronde, FdI già protesta, e avverte di avere accettato la soluzione in Veneto con «rammarico».
Ma dire che il negoziato è stato vinto dal Carroccio appare vero solo simbolicamente. In cambio del «via libera» alla presidenza del Veneto, FdI ha ottenuto la garanzia che gli assessorati di maggior peso saranno affidati a suoi esponenti. E se la tendenza della Lega al calo proseguirà, e rimarranno le percentuali alte di Giorgia Meloni e la crescita di FI, sarà difficile impedire un brusco ridimensionamento leghista. Per questo è prevedibile una competizione feroce all’interno della destra, prima che con le sinistre.
Quello che si sta configurando non è più un Nord a Salvini e al suo partito, e il resto del Paese a mezzadria tra FdI, berlusconiani e leghisti.
L’ambizione di Palazzo Chigi è di puntellarsi dovunque e dunque anche sopra il fiume Po, a scapito soprattutto del Carroccio; e di contenere le ambizioni centriste dei berlusconiani, cresciute dopo l’affermazione in Calabria di Roberto Occhiuto. D’altronde, a breve termine la partita si gioca all’interno della coalizione governativa: le sinistre sembrano tagliate fuori da qualunque vera possibilità di alternativa.
(da il Corriere della Sera)
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