MANCA LA CULTURA DELLA SICUREZZA
SI CONTINUA A MORIRE SUL LAVORO E NON PER FATALITA’
Pressione a fare in fretta, sottovalutazione dei rischi, disattenzione, fatica, sfruttamento intensivo, preparazione inadeguata alla mansione, l’elenco delle cause per cui si continua a morire sul lavoro è lungo e poco ha a che fare con la “fatalità”, con l’imperscrutabilità del destino. Può invece essere sintetizzato in una diffusa e trasversale carenza di consapevolezza che la sicurezza sul lavoro è un diritto da rivendicare e un obbligo da praticare da parte di tutti, lungo la filiera che va dal committente, o datore di lavoro, al singolo lavoratore/lavoratrice, oltre a riguardare, ovviamente, anche chi lavora in proprio. Perché garantire, e rivendicare, sicurezza sul lavoro significa assicurarsi che il lavoro non metta, per nessuna ragione, a rischio la vita. Le conseguenze mortali della mancanza di forme di sicurezza adeguate non sono “morti bianche”, sono veri e propri omicidi sul lavoro.
Di fronte all’inarrestabile catena di morti sul lavoro (tre soltanto ieri), che ormai fa notizia solo quando avviene in circostanze particolarmente sconvolgenti o coinvolge più persone, si sono dette molte parole e fatte molte proposte, a partire dall’aumento dei controlli e il rafforzamento delle responsabilità lungo la filiera degli appalti (quest’ultima oggetto anche di uno dei referendum che, purtroppo, non ha ottenuto il quorum). Certo i controlli sono importanti e vanno rafforzati, non solo per quanto riguarda l’esistenza dei sistemi di protezione, la regolarità dei contratti e l’applicazione delle norme, ma anche sull’adeguatezza delle qualifiche e competenze dei lavoratori/lavoratrici rispetto alle mansioni in cui sono impiegati. Così come va rafforzata la catena delle responsabilità (ed evitare che le cause penali che seguono agli incidenti mortali si trascinino per anni e finiscano in un pugno di mosche). Ma non è sufficiente se anche i lavoratori non sono messi in grado di rifiutare condizioni di lavoro prive della necessaria sicurezza e non sono sufficientemente formati, non solo per le mansioni che devono svolgere, ma sui loro diritti ed anche sulla necessità che loro stessi non violino le norme di sicurezza per fare più in fretta, o per stare più leggeri, o perché si sentono in grado di evitare i rischi.
Entrambe queste cose sono difficili in un mercato del lavoro in cui la precarietà non solo è diffusa, ma è un’ombra che accompagna anche chi ha un contratto a tempo indeterminato e dove, in certi settori (l’edilizia, l’agricoltura, la logistica) la manodopera è spesso formata da migranti che, oltre ad aver bisogno di lavorare ad ogni costo, non sempre sono a conoscenza delle norme che dovrebbero regolare il loro lavoro. Lavoro nero o “grigio”, caporalato, povertà, irregolarità forzata sono terra di coltura della insicurezza sul lavoro e vanno affrontati in quanto tali. Tuttavia bisogna provare anche a formare e rafforzare la consapevolezza dei lavoratori, in qualsiasi condizione contrattuale e di residenza, che la loro vita è preziosa e va salvaguardata.
Lo si può fare (come sindacati, associazioni di società civile) facendo formazione sul lavoro e ai lavoratori, fornendo informazioni essenziali non solo sui loro diritti, ma sui comportamenti da tenere per non esporsi a rischi, anche entrando in conflitto con datori di lavoro poco scrupolosi. E lo si dovrebbe fare preventivamente con le ragazze e i ragazzi quando sono ancora a scuola, nel contesto dell’educazione civica, di cui le norme di base del diritto del lavoro e della sicurezza sul lavoro dovrebbero essere una componente essenziale almeno a partire dal biennio delle superiori: parte integrante della formazione di cittadini consapevoli dei propri diritti e doveri, inclusi sia il
diritto a condizioni di lavoro che non mettano a repentaglio la vita solo perché non a norma sia la necessità di avere comportamenti responsabili verso la propria vita e quella altrui, in generale e specificamente nei contesti lavorativi.
(da lastampa.it)
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