NETANYAHU AFFONDA NEI SONDAGGI MA NON MOLLA LA POLTRONA
INSEGUITO DA ERRORI E SCANDALI ESCLUDE OGNI PASSO INDIETRO MA LE COSE POSSONO CAMBIARE NEI PROSSIMI MESI
Incerto, nervoso, preda di dubbi e spettri. A tratti sotto assedio. Così i media israeliani dipingono ormai da mesi Benjamin Netanyahu. Saranno presto trascorsi 100 giorni dall’inizio della guerra “totale” tra Israele e Hamas, dopo l’eccidio compiuto dagli islamisti nel sud dello Stato ebraico, e il rapporto tra il premier e il Paese appare sempre più tormentato. La maggioranza degli israeliani non ha più fiducia in lui, e vorrebbe vederlo rispondere del fallimento degli apparati dello Stato nel prevenire il massacro del 7 ottobre. Il governo di unità nazionale che guida di unitario pare avere poco più della facciata, con delicatissime riunioni trasformatesi di recente in ring. E la Casa Bianca di Joe Biden, che si sgola da mesi per chiedere all’alleato piani chiari per il dopoguerra, per trovarsi al contrario di fronte a quelli per aprire un possibile nuovo fronte in Libano, non fa mistero di auspicare un cambio di governo a Gerusalemme. Eppure come questo possa accadere non è affatto chiaro. Andare a elezioni anticipate, nel bel mezzo di una guerra (se non due) in cui è in gioco l’esistenza stesso dello Stato, pare una follia. Netanyahu lo sa: sa che l’opinione pubblica è focalizzata in primis sulla guerra, e che intende occuparsi di lui dal giorno immediatamente successivo alla sua fine. Ma il conflitto appare lontano, forse lontanissimo, dalla conclusione. Gli stessi vertici di governo e esercito parlano di altri mesi di combattimenti in vista, forse un anno. E il premier, come appare sempre più evidente, ha tutto l’interesse a dilatarne i tempi, e forse perfino le dimensioni. Come scongiurare allora che le decisioni militari servano gli interessi personali dell’ex «Re Bibi», piuttosto che quelli reali del Paese? E davvero non c’è modo con cui si possa evitare il tragico equivoco sostituendo in corsa Netanyahu?
Matematica politica
I numeri, prima di tutto. Insediatosi negli ultimi giorni del 2022, il governo più a destra nella storia di Israele guidato dal redivivo Netanyahu può contare su una solida maggioranza – fatto eclatante dopo che il Paese si era avvitato in un’estenuante serie di «pareggi» alle elezioni e di governi nati sul filo di lana. La coalizione formata dal suo Likud, dall’ultradestra di Smotrich e Ben Gvir e dai partiti religiosi, è forte di 64 seggi alla Knesset sui 120 totali (la maggioranza si forma con 61 voti). Altri numeri, quelli del “Paese reale”, mostrano al contempo come in un ipotetico voto oggi lo scenario politico ne uscirebbe radicalmente modificato. Netanyahu, come detto, è inviso a una porzione mai così ampia dell’elettorato. Lontani i tempi in cui spaccava il Paese in due come una mela: amore o odio, e poco in mezzo. Dopo il 7 ottobre e una guerra difficilissima, lo sceglierebbe ancora come primo ministro appena il 15% degli elettori, secondo l’ultima rilevazione condotta dall’Israel Democracy Institute. Molti di più, quasi un quarto dell’elettorato, sarebbero quelli che vedrebbero meglio al suo posto Benny Gantz: l’ex capo di Stato maggiore entrato in politica per guidare un fronte centrista anti-Netanyahu, e che ha accettato di deporre temporaneamente le armi per dare una mano in un governo di unità nazionale, oggi appare a molti come il «volto sicuro» cui affidare la sicurezza del Paese che Bibi ha dimostrato di non saper garantire. Se si andasse a votare, secondo l’ultimo sondaggio commissionato dal Canale 13 a fine dicembre, il suo partito volerebbe addirittura a 38 seggi, la coalizione di centrosinistra che potrebbe guidare a 71. Il Likud di Netanyahu ne uscirebbe invece a pezzi, con appena 16 seggi, condannato all’opposizione insieme agli altri partiti di destra.
La sfiducia costruttiva e il sostituto impossibile
Proprio questo scenario politico, paradossalmente, pare al momento la miglior polizza assicurativa sulla vita politica di Netanyahu. Escluso che il più longevo leader della storia israeliana possa dimettersi – ha messo più volte in chiaro che è l’ultimo dei suoi pensieri – solo la maggioranza che lo sostiene potrebbe infatti farlo inciampare. Se avesse un piano B. Nel sistema di governo israeliano, a differenza di quello italiano, è possibile votare la sfiducia a un governo in carica solo se contestualmente viene proposta per il voto di fiducia una nuova compagine di governo. La mozione del caso dev’essere votata dalla maggioranza assoluta del Parlamento: almeno 61 deputati. La clausola della sfiducia costruttiva, presente anche nei sistemi politici di Paesi europei come Spagna e Germania, implica insomma che se le stesse destre che sostengono Netanyahu volessero sbarazzarsene, facendogli pagare errori, impopolarità o inimicizie, dovrebbero aver pronto un accordo blindato sul suo successore. Uno scenario oggi impensabile, spiega a Open Nimrod Goren, analista e presidente del think-tank Mitvim, considerata la diversità di opinioni e sensibilità all’interno della coalizione di governo. La stessa maggioranza minima sarebbe necessaria per far cadere il governo nell’altro modo possibile, più radicale: votare per sciogliere il Parlamento e tornare alle urne. Scenario che oggi appare altrettanto lunare, oltre che potenzialmente autolesionista per le destre. Eppure nel corso del 2024 le cose potrebbero cambiare.
Una fase nuova?
Proprio oggi il portavoce dell’esercito israeliano ha annunciato, come gli Usa attendevano da tempo, che la guerra a Gaza è entrata in una «fase nuova»: parte delle truppe sarà via via richiamata, le operazioni si faranno più mirate, almeno secondo i piani. A voler tornare a casa, al contempo, sono i circa 200mila cittadini israeliani che ormai da tre mesi vivono altrove, evacuati dalle aree di frontiera con Gaza a sud e col Libano a nord per ordine del governo. Senza contare, ovviamente, quelli ridotti senza voce, i circa 120 ostaggi che si presume essere ancora nelle mani di Hamas a Gaza, i cui famigliari continuano a chiedere l’immediata liberazione. Il Paese resta in guerra, e lo sarà in un modo o nell’altro ancora per lunghi mesi, insomma: ma non è detto che nei prossimi mesi questo non possa accompagnarsi a un iter di progressiva «normalizzazione» dopo il trauma del 7 ottobre, spiega Goren, secondo cui potrebbe aprirsi prossimamente un diverso processo politico. «La prima cosa cui guardare saranno le mosse di Benny Gantz: il gabinetto di guerra d’emergenza difficilmente durerà ancora a lungo. Gantz cercherà il tempo e il modo giusto per chiamarsene fuori senza danneggiare la sua immagine di leader affidabile e security-minded per il Paese». Al contempo, sostiene l’analista, la sua grande popolarità al momento potrebb’essere almeno in parte transitoria. L’elettorato resta in maggioranza su posizioni di centrodestra, tendenza perfino rafforzata dal 7 ottobre. E se da quell’area emergesse nei prossimi mesi un leader credibile alternativo a Netanyahu, potrebbe attrarre attenzioni e voti. Sui media israeliani si fanno i nomi, ad esempio, dell’ex premier Naftali Bennett o dell’ex capo del Mossad Yossi Cohen. Altri ministri e parlamentari del Likud potrebbero essere tentati di uscire allo scoperto, piuttosto che venire travolti da un probabile tracollo del partito sotto la guida di Netanyahu.
Tempo al tempo
La destra, insomma, potrebbe legittimamente pensare ad aprire una nuova pagina per continuare a guidare il Paese con una diversa configurazione. E se il fronte col Libano e col più vasto asse regionale guidato dall’Iran dovesse raffreddarsi, come diversi segnali tra le righe paiono indicare negli ultimi giorni, conclude il ragionamento Goren, un percorso a tappe che porti a elezioni anticipate – da tenersi magari nella seconda metà del 2024 – potrebbe rivelarsi in definitiva conveniente per una parte predominante dell’arco politico del Paese. A Netanyahu, a quel punto, non resterebbe che presentarsi in altre aule: quelle dei tribunali dove è indagato per corruzione, e quelle della commissione d’inchiesta sul 7 ottobre che il Paese reclama a gran voce.
(da Open)
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