NOI VECCHI, SENZA ILLUSIONI NE’ SOGNI
IL MONDO E’ CAMBIATO, RICORDI GLI AMICI MORTI, TUTTO E’ ATTUTITO, REMOTO, LONTANO
“Camminavo per le strade di Pietroburgo e mi sentivo solo e questo era strano perché erano ventisette anni che vivevo solo a Pietroburgo” (Le notti bianche, Dostoevskij). Cammino per le strade di Milano e osservo i ragazzi che van via svelti. Potrei, con un po’ di sforzo, tenerne il passo, ma nessuno potrebbe restituirmi la loro scioltezza e la luminosità della pelle che pure io avevo da ragazzo.
Cammino e vedo delle vecchie curve, rattrappite, rimpicciolite, canute, che si appoggiano al bastone da passeggio, eppure, mi dico, anche loro sono state delle ragazze e magari delle belle ragazze, e mi pare impossibile. Cammino e vedo delle vecchie, un po’ meno vecchie, e mi rendo conto, con raccapriccio, che sono le ragazze della mia generazione che abbiamo corteggiato e alle volte amato. I giovani non pensano mai che anche i vecchi sono stati tali. Avevo ricoverato mia madre in una di quelle strutture che oggi si chiamano RSA, luogo decoroso, peraltro. Fra noi non avevamo mai parlato molto ma un pomeriggio mi disse quasi a bruciapelo: “La sola cosa che ha funzionato con tuo padre è stata il sesso” e una scarica elettrica mi passò lungo la spina dorsale. Non potevo immaginare mia madre e mio padre in un amplesso eppure io e mia sorella siamo pur nati da lì (si è detto di passata: poiché aveva un enfisema polmonare i medici volevano impedirle di fumare. Io dissi: questa donna non ha più niente dalla vita, volete impedirle anche l’unico piacere che le rimane? E le sigarette, nazionali semplici, quelle blu, gliele
portavo di nascosto).
Nella canicolare estate del 2003, quando soprattutto nelle grandi città i vecchi morivano a frotte, ero seduto vicino a un tavolo di ragazzi che stavano giocando a carte al bar della spiaggia. Uno con un paio di enormi e spudorati occhiali da sole, tipo gangster, l’aria da impunito, commentò: “Ottimo! A Milano ci saranno più posti per parcheggiare”. E quello che gli stava di fronte, di rimando: “Non mi farei troppe illusioni. È tutta gente che non guida più”. Erano spacconate, naturalmente, e fra di me ne sogghignavo (i giovani, a volte, ci vogliono anche bene, a modo loro). Il fatto è che quei due bricconi se lo potevano permettere, mentre tutta la spiaggia over sixty boccheggiava e ogni mattina guardava tremebonda i tabellini meteo dei quotidiani per vedere di quanti gradi era salita la temperatura. E negli occhi dei più anziani si leggeva, sia pur dissimulato, il timore di sentirsi male da un momento all’altro.
In un certo periodo della mia vita ho abitato, insieme al mio amico Giagi, in uno squallido condominio in piazza Amati all’estrema periferia ovest di Milano, al limitare di un immenso terrain vague dove si potevano ancora vedere, qua e là, degli ‘orti di guerra’ residuo di una realtà mezzo contadina e mezzo urbana che la città si stava divorando.
Era così squallido quel condominio che in otto piani ci abitavano solo tre famiglie, una era quella di Giagi e me, un’altra di due ragazze che dicevano di essere delle modelle ma in realtà facevano le mantenute, in un’altra, la più normale, un certo
Visinalis, un cinquantenne già vinto dalla vita, sposato con una moglie inglese bruttissima e con due figli ancora piccoli. Poiché i genitori erano fuori dalle balle la mia casa era luogo di raccolta di tutti i perdigiorno. Non passava sera che non facessimo baldoria. Non che, di solito, accadesse granché di peccaminoso. Le ragazze si tenevano alla larga, il permissivismo sessuale, che arriverà con la generazione hippie, era di là da venire, non “la davano” e con loro era un eterno ed estenuante trafficare, soprattutto nei cine di terza visione, sopra e sotto la camicetta e la gonna, “tutta roba senza risultato” per dirla con Jannacci. Suonavamo la chitarra, mettevamo il giradischi a tutto volume e facevamo baccano fino alle tre o alle quattro di notte. Una sera il Visinalis, esasperato, suonò alla porta. Andai ad aprire. Era comprensibilmente agitato, con quel fracasso gli svegliavamo regolarmente i bambini. Poiché alzava un po’ la voce gli dissi: “Sia più urbano”. Il poveretto, credendo fosse un insulto, si alterò ancora di più e gridò: “Urbano sarà lei!”. Allora lo presi per il bavero e lo feci ruzzolare giù dalle scale. Una bravata stupida, facile e vile, per farmi bello con gli amici, con un uomo che non poteva competere con i miei vent’anni, di cui mi vergogno ancora oggi. O, forse, soprattutto oggi che so che se litigassi con dei ragazzi farei la fine di Visinalis.
In vecchiaia tutto decresce tranne degli orribili peli che spuntano dal naso e dalle orecchie.
L’aspetto più drammatico della vecchiaia non è tuttavia la decadenza fisica, ma l’impossibilità di un progetto di vita,
esistenziale, sentimentale, professionale. Manca il tempo. Manca il futuro. Manca la speranza. Sorella Morte ha già alzato la sua falce. È vero che si può morire a qualsiasi età, anche a vent’anni, e che la morte è certa. Ma una cosa è immaginarla in un futuro indefinito, altra è quando ti cammina a fianco. Una cosa è se si tratta di una certezza lontana, remota, altra è se sai che sei al finale di partita. E che non ci saranno supplementari.
Un pomeriggio ho chiesto al mio caro amico Giorgio Bocca, l’unico che abbia avuto in questo mestiere insieme a Walter Tobagi, che pensava di avere un luminoso futuro da direttore del Corriere della Sera e avrebbe raggiunto sicuramente quell’obiettivo, ma sono bastati due idioti per troncarglielo, a dimostrazione che la vita è Caso, se avesse paura della morte. “Sì” è stata l’onesta risposta. E non potrebbe essere diversamente. Non si tratta di una paura fisica, tanto che al momento del dunque tutti siamo in grado di affrontarla, ma metafisica. È l’orrore del Nulla. Lo spaventoso Nulla. L’inesistenza. Tutto ciò che hai vissuto, amato, conosciuto, visto, ascoltato, letto, pensato, è cancellato di colpo, immerso in un buio senza tempo e senza risveglio.
L’uomo cerca di colmare il non-senso dell’esistenza con ogni sorta di attività. In fondo lo sappiamo benissimo, lo sappiamo tutti, da sempre, che nulla ha senso, che la vita è un gioco. Ma per tollerarla abbiamo bisogno di riempirla. Di azioni, di pensieri, di miti, di speranze, di passioni, di credenze, di illusioni, di sogni. Ecco, la vecchiaia è senza illusioni e senza
sogni. Perché non c’è più nulla da sognare. Nulla da aspettare. Se non la morte.
Se un vecchio non può più sognare può perlomeno ricordare. Una volta che ero andato a trovare una grande attrice di teatro, Paola Borboni, che viveva i suoi ultimi anni in un ospizio, per consolarla della situazione ebbi l’imprudenza di dirle: “Però lei ha tanti bei ricordi…”. Mandò un grido che era quasi un ruggito (era pur sempre una grande attrice) e, sollevandosi a metà dal suo giaciglio, sibilò: “Ricordi? I bei ricordi sono la cosa più tormentosa per un vecchio”. Perché enfatizzano, per contrasto, la pena presente.
Anche il mondo che hai conosciuto e a volte, con l’energia e l’incoscienza della giovinezza, dominato, è scomparso. Il paesaggio è cambiato, i luoghi pure, gli oggetti sono diversi, altri i miti, gli idoli, gli attori, le letture di riferimento. Il mondo dei vecchi non sta nel futuro, non sta nel passato, sta nel presente. Nel ricordo degli amici morti. Tutto è attutito, remoto, lontano. È scesa la sera. Sei un sopravvissuto.
Massimo Fini
(da ilfattoquotidiano.it)
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