PABLITO, IL BRASILE E QUELLA LEGGENDA VISSUTA DA EMIGRATO SVIZZERO
IL RISCATTO DI NOI ITALIANI CHIAMATI “ZINGARI” DAGLI ELVETICI
Mundial 1982. “…Allo stadio, ad Aarau o a Wettingen, ci andavo con lo zio Nino. Ogni volta che però l’Italia affrontava la Svizzera sentivo mio padre dire “con noi si impegnano sempre allo spasimo”. Non era calcio, era la vita…”
Ho visto Italia-Brasile 3-2 in Svizzera, da emigrato. Gli svizzeri tifavano tutti per la Selecao. A scuola, la mattina, un tipo grande e grosso mi affrontò con aria canzonatoria: “Stavolta potete fare tutto il catenaccio che vorrete, ve ne faranno quattro lo stesso”.
Il Brasile, qualche giorno prima aveva fatto a pezzi la Scozia, giocando un calcio da playstation, e un giornale calcolò persino la velocità supersonica dei tiri di Eder. Non avevamo scampo.
All’epoca essere italiano in Svizzera voleva dire essere uno Tschingg, uno zingaro, sinonimo di furbo, levantino, traditore, di gente brava solo a farsi largo in contropiede. Vivevamo di rivalse. Quasi tutti gli stagionali avevano ancora i poster di Rivera o Mazzola appiccati con lo scotch alle pareti delle baracche e che quell’estate in tanti, persino gli svizzeri, ballassero cantando “Un’estate al mare” di Giuni Russo era per noi motivo di orgoglio.
Era un lunedì pomeriggio. Splendeva il sole sul paese di Staufen, quando mi ritrovai nell’appartamento della famiglia Mirra, che abitava sopra di noi; erano originari del Beneventano; la signora Giorgina preparò una merenda, al marito, ai due figli e a me, e ci piazzammo rassegnati nel salotto, davanti alla tv. La Rai non si prendeva ancora in Svizzera (sarebbe arrivata soltanto nel gennaio 1986) e ci sintonizzammo sul canale ticinese. Telecronista Giuseppe Albertini. Ricordo bene? Non lo so più. Però rammento che quando Rossi segnò l’1-0 pensai, “ecco, e ora ce ne faranno quattro”. Socrates pareggiò subito, confermando gli inevitabili presagi. La mattina, al chiosco della piccola stazione di Lenzburg, avevo comprato La Gazzetta dello sport, devo averla conservata tra qualche parte. Non ho dimenticato il titolo: “Provateci ancora!” E il sottotitolo: “Questi undici artisti del calcio sono proprio invincibili?”.
Mio padre non amava il calcio. Non tifava per nessuna squadra. Non guardava le partite. Non ascoltava, come tutti gli emigrati, Tutto il calcio minuto per minuto su pesanti transistor mentre passeggiavano la domenica pomeriggio nei viali deserti della Bahnhofstrasse ricolmi di nebbia impenetrabile. “Scusa, Ameri”, era la colonna sonora di ogni paisà .
Gli emigrati tifavano per l’Avellino di Juary, per il Catanzaro di Palanca e andavano a Como a vedere l’Inter o la Juve. Allo stadio, ad Aarau o a Wettingen, ci andavo con lo zio Nino. Ogni volta che però l’Italia affrontava la Svizzera lo sentivo dire “con noi si impegnano sempre allo spasimo”. Eravamo superiori, ma si faceva fatica. Non era calcio, era la vita.
Italia-Brasile 3- 2 è il romanzo del calcio italiano, e Pietro Trellini vi ha dedicato un libro mondo, che merita di stare nella biblioteca di ogni sportivo. Lì ritrovate tutto. Che tenessimo testa ai brasiliani con tale bravura ci lasciò inizialmente sgomenti, invece il tempo passava ed eravamo sempre in partita. 2-1. 2-2. 3-2.
Possibile? Dopo il terzo gol di Rossi restammo in piedi ad urlare, dai balconi delle case attigue arrivavano grida di giubilo o di imprecazioni in tutti i dialetti possibili. Stavamo battendo il Brasile di Zico e Falcao! Era la cosa più incredibile che ci potesse capitare.
Poi suonarono alla porta. “E’ tuo padre”, disse la signorina Giorgina.
Entrò nel salotto in preda a un’eccitazione che non gli avevo mai visto addosso. “Non riesco a vederla da solo”, disse. Rimase in piedi con noi, davanti allo schermo, mentre l’assedio dei brasiliani si fece più pressante. Quando Zoff fermò con un balzo felino la palla sulla linea dopo il colpo di testa ravvicinato di Oscar all’89 (al Brasile bastava pareggiare), esultammo come dopo un gol.
“Fischia!” gridava mio padre all’arbitro Klein. “Fischia!”
Lo guardai incredulo.
Se penso alla gioia che sa dare il calcio penso a quel pomeriggio. Non ne ho mai più provata una più pura. Abbracciai papà , che al fischio finale aveva alzato i pugni al cielo, indossai in gran fretta una vecchia maglietta dell’Italia che mi avevano regalato per gli Europei dell’80 e in bicicletta mi presentati alla serata danzante della festa della gioventù di Lenzburg.
Ogni italiano che t’incontrava ti stringeva forte urlando e piangendo. Incrociai il tipo grande e grosso della mattina: “Catenaccio eh!” gli dissi trionfante. Grugnì.
Valse quella vittoria al Mundial spagnolo a cambiare per sempre la percezione che gli svizzeri avevano di noi, e inaugurò un amore sincero per il made in Italy che negli anni si è rafforzato. Fu una cesura culturale e civile.
Ogni tanto mi capita di incontare delle persone con cui si parla appassionatamente di calcio, e di match memorabili, ma quando scopro che nel 1982 non erano ancora nati, o erano troppo piccoli per ricordarsene, dico sempre: “Sì, ma tu non puoi capire cosa è stata Italia-Brasile 3-2”.
(da “La Repubblica”)
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