PEPPINO IMPASTATO, 40 ANNI FA LA MORTE DEL MILITANTE CHE PRENDEVA IN GIRO IL POTERE DEI BOSS
LE LOTTE IN DIFESA DELLA SUA TERRA, LA SFIDA ALLA MAFIA NEL PAESE DEI “CENTO PASSI”… E QUELLA NOTTE DEL DELITTO IMPERFETTO SUI BINARI
Irridente, geniale ed entusiasta.
Un trascinatore nella sua Cinisi muta, cieca e sorda.
Militante rigoroso, quanto irrequieto, fermo nel proposito di denuncia, ma convinto che l’arma dell’ironia, dell’irriverenza, dello sberleffo fosse molto più efficace di estenuanti dibattiti e di pagine su pagine di documenti.
Peppino Impastato studiava anche quelli con il piglio da giornalista, riconoscimento postumo nella sua esistenza.
Come l’elezione a consigliere comunale di Democrazia proletaria, successo dopo cocenti amarezze, arrivata dopo il funerale.
E allora eccolo nella memoria dei compagni di un tempo, i dibattiti, certo, i comizi ma anche il cineforum, il circolo di Musica e Cultura, i concerti, l’emancipazione femminile, le feste, le scorribande con i compagni, le serate di chiacchiere e le divergenze fino alle incazzature su fumo, nudisti e amore libero. Le rotture con chi voleva dare a quelle esperienze un’impronta hippy.
Ma anche il carnevale, quel suo travestimento da clown che sorprese e spiazzò tutti quando si presentò irriconoscibile con i bambini che gli facevano corona.
O quella sua idea che se il Comune opponeva l’occupazione di suolo pubblico per impedire una imbarazzante mostra sulle malefatte di Tano Badalamenti e dei suoi complici in municipio, era allora la mostra stessa a doversi mettere in movimento, a camminare sulle gambe di chi ci credeva, su e giù per il corso, così che potessero vederla tutti.
Erano le lotte per immagini e slogan secchi: quella sulla costruzione dell’Az10 il primo dei complessi turistici che avrebbero contribuito a privatizzare e a sfregiare la costa, gli espropri di campi e pascoli e lo sfascio sociale creato dalla realizzazione della terza pista dell’aeroporto.
Lo scalo stesso e il suo essere snodo per il traffico internazionale dell’eroina, raffinata tra mare e montagna nel grande golfo di Castellammare.
Il dito puntato su Pino Lipari, un geometra dell’Anas, che molti e molti anni dopo avrebbe portato dritto alla rete di protezione di Bernardo Provenzano.
E poi c’era Onda Pazza, l’appuntamento quotidiano di Radio Aut, quel picchiare duro su Tano Seduto e la sua Mafiopoli.
La voce che usciva da quel microfono l’ascoltavano tutti: gli amici e i detrattori. Se la ricordano quelli che a Cinisi lo hanno amato e quelli che ancora trovano sempre una ragione per scrollare le spalle.
Eppure quel grappolo di case che partono dal Municipio e corrono fin quasi alla costa, con le sue strade squadrate, le campagne avare e le mucche dei “vaccari” un tempo molto più generose di latte e carne, con le seconde case dei palermitani corsi a ritagliarsi uno rettangolo vista mare, oggi nel mondo è il paese di Peppino e non più quello di don Tano, come qui ancora qualcuno chiama il boss morto in carcere negli Usa, prima che la condanna per l’assassinio di Impastato diventasse definitiva.
È il paese dei Cento Passi, l’invenzione del film che ha fatto di Peppino un’icona ma è anche il paese di Casa Memoria.
Lì dove si custodisce il senso di una vita nota a morte avvenuta, grazie all’impegno di chi gli è sopravvissuto in un ponte ideale con Palermo, dove opera il centro di documentazione alla memoria di Peppino, animato da Umberto Santino che ha dedicato la propria esistenza a battersi per la verità , pur non avendolo mai conosciuto.
Ma Cinisi è anche il paese di Felicia, la madre di Peppino, la donna esile e minuta, dalla tempra fortissima che riuscì a chiudere gli occhi solo quando un pezzo della giustizia pretesa arrivò, 23 anni dopo l’omicidio
Incrociando in tribunale Vito Palazzolo, il braccio destro di don Tano, trascinato a rispondere di quel corpo dilaniato sui binari della ferrovia che si voleva far passare per suicida gli sibilò in faccia: “Vergogna”. Costringendolo ad abbassare lo sguardo. Quando le dissero delle condanne prima di Palazzolo e poi di Badalamenti, rispose solo: “Ora posso morire”.
Alla nipote fino a pochi giorni prima di andarsene chiedeva di metterle ancora una volta “u cinema di Peppino”, il film che di quel figlio ridotto “a un sacchetto di resti” gli aveva restituito l’onore della verità .
Per notti e notti, prima di allora, sola in casa, se ne stava a contemplare la foto del figlio, percuotendosi le tempie.
Se ne accorsero quando la ricoverarono trovando ai raggi X i segni di quei colpi. Lo aveva accudito e coccolato quel figlio, difeso anche contro il marito Luigi, mafioso, che lo aveva ripudiato.
Perchè Peppino le prime lotte le aveva fatte nel perimetro della sua famiglia, prendendo le distanze dal padre e dal mondo degli amici degli amici.
Una rottura insanabile, un disonore, per uno che alle scampagnate con la famiglia si trovava con Luciano Liggio, che aveva visto il corpo dilaniato dello zio capomafia Cesare Manzella, che avrebbe rifiutato le farisaiche condoglianze dei boss al funerale del padre.
Fedele alla linea dettata da Felicia che al marito aveva proibito di portargli in casa i suoi amici.
Era anche questo Peppino, intransigente, segnato da un’esperienza sentimentale che lo aveva amareggiato, deluso dalla piega che le convenienze e i minuetti della politica, anche a sinistra, anche a Cinisi, i compagni cooptati nel sistema avevano preso. Ne aveva scritto in una lettera.
I carabinieri del futuro generale Antonio Subranni, corsi il 9 maggio di 40 anni fa a chiudere sbrigativamente l’indagine su quel che doveva essere un bombarolo morto in servizio durante la preparazione di un ordigno, usarono anche quella per farlo passare per suicida.
Un kamikaze, contro l’evidenza della pietra sporca di sangue con la quale lo avevano stordito, delle sue mani integre, risparmiate da una bomba che si voleva esplosa mentre la maneggiava, dei testimoni mai cercati, delle chiavi di Radio Aut inspiegabilmente lucide, provvidenzialmente trovate tra gli sterpi da un carabiniere. Prima di interrogarsi su cosa fosse accaduto, gli investigatori avevano fretta di stabilire come uscirne.
“Era tutto apparecchiato”, rivelò un investigatore della polizia, arrivato sul luogo del delitto quando già i militari avevano sentenziato le loro certezze. Le perquisizioni? A casa degli amici e della vittima. Ad afferrare carte per costruire l’inganno. Funzionale all’impunità di un boss forse già allora confidente che doveva essere risparmiato dal suo stesso crimine.
A dispetto delle tante, troppe tracce, di un delitto assai imperfetto.
(da “La Repubblica”)
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