PER LIBERARE ALBERTO TRENTINI, IL REGIME DI MADURO, CHE DETIENE IL COOPERANTE ITALIANO DA QUASI UN ANNO, CHIEDE UNA TELEFONATA DELLA PREMIER ITALIANO. SAREBBE UN RICONOSCIMENTO FORTE PER IL DITTATORE DI CARACAS
C’È UN’ALTERNATIVA: I MILIARDI DI EURO DI CREDITI NON RISCOSSI DALLE AZIENDE ITALIANE A CARACAS. SVALUTARLI POTREBBE ESSERE CONSIDERATO UN SEGNALE DI DISTENSIONE PIÙ EFFICACE DELLA CHIAMATA
Il 15 novembre sarà passato un anno. Trecentosessantacinque giorni da quando Alberto Trentini è stato arrestato dal regime di Nicolas Maduro. Rinchiuso nel carcere di El Rodeo I, senza avvocato, è stato di fatto sequestrato dal regime come “vendetta” contro l’Italia, che negli ultimi anni non ha agevolato l’estradizione di oppositori che hanno trovato rifugio a Roma, primi tra tutti l’ex viceministro dell’Energia Gerardo Villalobos e l’ex ministro del petrolio Rafael Ramirez, archiviato dalla procura di Roma due settimane prima dell’arresto di Trentini.
Quest’ultimo ha potuto parlare al telefono con la famiglia una manciata di volte, l’ultima pochi giorni fa: fatto che fa sperare i nostri servizi in una positiva risoluzione a breve della vicend
I due governi non si espongono pubblicamente, ma secondo quanto ha ricostruito Domani, ci sono due dossier che potrebbero sbloccare l’impasse.
Sotto sanzioni e con l’economia in crisi nera da almeno un decennio, Caracas è alla disperata ricerca di riconoscimento internazionale. A maggior ragione adesso che Donald Trump, motivando la scelta con la necessità di combattere i narcos che usano il Venezuela come base, ha schierato i B-52 davanti alle sue coste e bombardato alcune imbarcazioni private in acque internazionali.
Fonti vicine al governo di Caracas dicono che per portare alla liberazione di Trentini basterebbe una telefonata tra Meloni e Maduro, o tra lui e Sergio Mattarella.
Una mossa politica molto difficile da fare, però: secondo fonti vicine a Palazzo Chigi, questa strada è infatti la più complicata. Il governo Meloni a gennaio scorso, fedele all’alleanza con gli Stati Uniti e la Commissione europea, ha dichiarato di non riconoscere il regime di Maduro.
I rapporti diplomatici tra Italia e Venezuela sono ai minimi termini, anche se recentemente un primo contatto ufficiale tra i due governi c’è stato. Il 25 settembre il vice ministro degli Esteri, Edmondo Cirielli, ha telefonato alla sua omologa venezuelana, Andrea Corao, per ringraziarla di aver permesso all’incaricato d’affari italiano (non c’è scambio di ambasciatori tra i due paesi) di entrare in carcere per fare visita a Trentini.
Il riconoscimento politico sembra la strada più difficile, mentre ce n’è un’altra che – a Palazzo Chigi – è considerata più percorribile: la strada finanziaria.
La storica presenza dell’Italia in Venezuela, interrotta quasi totalmente dopo le sanzioni Usa, ha lasciato infatti miliardi di euro di crediti non riscossi. Soldi di aziende che hanno realizzato lavori in Venezuela, ma che la Repubblica bolivariana non ha mai pagato. O, almeno, non totalmente.
Abbiamo già raccontato nelle scorse settimane di Eni, che con i suoi 2 miliardi di euro di crediti verso la società petrolifera locale Pdvsa (dati di fine 2024) è il maggior creditore italiano di Caracas. La multinazionale guidata da Claudio Descalzi è controllata dal Mef, che potrebbe decidere di svalutare quei crediti più facilmente di quanto farebbero alcune aziende private.
Un credito rilevante è nelle mani di Webuild, Ghella e Astaldi. I tre nel 2011 hanno iniziato la costruzione in Venezuela di opere ferroviarie per 3,3 miliardi di euro. Nell’ultimo bilancio di Astaldi, ora in concordato preventivo, il credito che le aziende devono incassare da Caracas è quantificato in 433 milioni di euro: circa 140 milioni a testa. Webuild, Ghella e Astaldi (oggi Astaris) stanno tentando di ottenerli attraverso un arbitrato intentato a Parigi contro il governo venezuelano e l’Instituto de Ferrocarriles del Estado, la società ferroviaria di Caracas.
La vicenda va avanti da anni e il lodo è atteso per fine anno. Secondo quanto riportato nel suo bilancio, Ghella avrebbe anche dei crediti legati alla costruzione della metropolitana di Valencia, capitale dello stato del Carabobo e terza città del paese. […]
Investimenti incagliati in Venezuela riguardano anche la Tenaris della famiglia Rocca, presente in Venezuela da decenni per via dei legami della famiglia milanese con il Sudamerica. La somma totale dovuta da Caracas è di 137 milioni di euro. […] Tenaris ha vinto nel 2018 un arbitrato contro il governo venezuelano presso l’Icsid (International Centre for Settlement of Investment Disputes), istituzione creata dal Gruppo della Banca mondiale con sede a Washington.
Oggetto dell’arbitrato: l’esproprio di due controllate venezuelane di Tenaris, Tamsa e Comsigua. Al momento i Rocca e i loro soci si sono però dovuti accontentare di poco: 33 milioni incassati nel 2023 come riconoscimento per la nazionalizzazione delle due aziende, si legge nel bilancio della multinazionale.
Nella lista di chi in Venezuela ci ha rimesso qualche milioncino ci sono anche Danieli e il San Raffaele del gruppo San Donato. L’azienda ospedaliera deve ricevere ancora 2,7 milioni di euro dalla venezuelana Pdvsa: si tratta di un credito nato da un accordo del 2016 per la cura delle persone affette da patologie del midollo osseo
Danieli vanta invece qualche milione di euro di credito un impianto siderurgico progettato nel 2005 con la Sidor, equivalente caraibica della vecchia Italsider, e mai pagato.
Queste, dunque, sono le principali aziende italiane che attendono pagamenti dal Venezuela, e il totale vale oltre 2,5 miliardi di euro. Si vedrà se e come il governo Meloni riuscirà a convincere queste imprese, quasi tutte private, a rinunciare ai crediti per provare ad ottenere la liberazione di Alberto Trentini.
Di sicuro l’Italia sa di poter contare su qualche potenziale interlocutore a Caracas. Una si chiama Camila Fabbri, 30 anni, romana. Moglie del ministro delle Industrie e fidatissimo consigliere finanziario di Maduro, il colombiano Alex Saab, Fabbri è stata scelta dal regime come vice ministra della Comunicazione internazionale del ministero degli Affari esteri.
L’altro interlocutore forte è Rafael Lacava, italo-venezuelano, oggi governatore dello stato di Carabobo, dal 2007 al 2008 ambasciatore della repubblica socialista in Italia. È stato anche grazie alla sua mediazione, oltre a quella della Comunità di sant’Egidio, se nel maggio scorso l’Italia ha ottenuto la liberazione di Alfredo Schiavo, italo-venezuelano rimasto in carcere a Caracas per oltre cinque anni.
(da agenzie)
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