PUTIN FA IL BULLO CON I SUPER MISSILI MA DALLE FABBRICHE RUSSE ESCONO AUTO SENZA POGGIATESTA NÉ ARIA CONDIZIONATA
GLI OPERAI DELL’IMPIANTO DI AVTOVAZ, LA LEGGENDARIA FABBRICA DI TOGLIATTI COSTRUITA A SUO TEMPO DALLA FIAT, LAVORANO E VENGONO IMPIEGATI NELLE PULIZIE DEGLI STABILIMENTI…LE VENDITE SONO CROLLATE DEL 25%, E 9 AUTO SU 10 VENDUTE NEL PAESE SONO CINESI – PER LA PRIMA VOLTA DALL’INIZIO DELLA GUERRA, FRENA ANCHE L’INDUSTRIA BELLICA: A SETTEMBRE È SCESA DELL’1,6%, NONOSTANTE I MEGA RAZZI ANNUNCIATI DALLO “ZAR”
«Abbiamo iniziato a considerare le offerte dei potenziali acquirenti»: con un secco
annuncio sul proprio sito, la compagnia petrolifera russa Lukoil ha mandato giù le sue quotazioni alla Borsa di Mosca.
Le sanzioni introdotte da Donald Trump a causa del «rifiuto del presidente Putin di finire questa guerra insensata» – come recita il comunicato del segretario al Tesoro americano – possono venire bollate come insignificanti dai portavoce del Cremlino, ma i diretti interessati le hanno prese molto sul serio. La Lukoil è il secondo produttore russo: insieme al colosso statale Rosneft è responsabile di più della metà del greggio nazionale, il 3% dell’estrazione mondiale.
Ora, parte di questo impero viene messo in vendita, tra giacimenti dall’Iraq al Venezuela, raffinerie in Bulgaria e Romania e distributori di benzina in giro per il mondo, per un totale di quasi un terzo dei ricavi della società, secondo il Moscow Times.
A Mosca ci si chiede se sia una operazione di copertura, che benefici acquirenti di comodo per evitare le sanzioni.
Una quota della società è in mano allo Stato russo, e difficilmente può mettere in vendita i suoi attivi esteri – l’inaugurazione delle stazioni di rifornimento negli Usa era stata molto sbandierata a suo tempo come un grande successo – senza il consenso del Cremlino.
Che le casse dello Stato russo stiano mostrando il fondo lo si capisce anche dalla decisione della Duma di aumentare al 22% l’Iva, nonostante il rischio già elevato di inflazione. «L’economia russa è sulla soglia del collasso industriale», annunciava ieri la Nezavisimaya Gazeta, citando un rapporto del Centro di analisi macroeconomica, che valuta la situazione a metà tra «stagnazione e declino».
Il Comitato per la statistica russo ha reso noti i dati della crescita industriale a settembre: 0,3%, una riduzione di ben 20 volte rispetto al boom dell’anno scorso. Gli esperti dell’Istituto dei pronostici economici dell’Accademia delle scienze lanciano l’allarme: 18 settori su 24 dell’industria di trasformazione – in altre parole, l’80% del made in Russia – mostrano un segno “meno”.
Dietro ai numeri ci sono situazioni reali che parlano di disastri. L’Avtovaz – la leggendaria fabbrica di Togliatti costruita a suo tempo dalla Fiat per dare ai sovietici una automobile “popolare” – ha appena prorogato la settimana di quattro giorni lavorativi fino all’anno prossimo.
Per evitare i licenziamenti, gli operai qualificati vengono impiegati nelle pulizie degli stabilimenti, con una integrazione di circa 150 euro per 32 ore in cui spazzano segatura e raccolgono
residui di vernici. Nonostante i marchi occidentali, coreani e giapponesi si siano ritirati dal mercato dopo l’invasione dell’Ucraina, il maggior produttore nazionale non è riuscito a cogliere l’occasione: le vendite sono crollate di un ulteriore 25%, e oggi 9 auto su 10 vendute in Russia sono cinesi.
Le sanzioni hanno reso le Lada ancora meno concorrenziali di prima: l’ultimo modello non monta nemmeno i poggiatesta, per non parlare di aria condizionata o servosterzo, e i social sono pieni di meme che ironizzano sull’inevitabile avvento dell’auto a pedali, dagli indubbi vantaggi ambientali.
La crisi dell’Avtovaz – finita sotto sanzioni europee – è in realtà soltanto la punta di un iceberg. La settimana di quattro giorni viene infatti applicata ormai in tutti i big industriali russi, come la fabbrica di automobili Gaz e quella dei camion pesanti Kamaz, e nella holding Tsemoros, maggior produttore nazionale di cemento, colpito dalla crisi dell’edilizia.
Si timbra il cartellino solo quattro volte anche nelle officine del più grande produttore di titanio mondiale, Avisma, mentre le ferrovie dello Stato stanno costringendo i dipendenti a prendere tre giorni di ferie ogni mese, e il presidente Oleg Belozyorov ha ordinato di preparare un piano di «riduzione del personale».
I giganti del carbone hanno licenziato quasi 20 mila dipendenti soltanto dall’inizio dell’anno, e nonostante questo un terzo delle miniere russe rischia la bancarotta […]. Anche il monopolista bancario Sberbank ha avviato i licenziamenti, insieme al colosso del metano Gazprom.
Ma soprattutto a mostrare segni di improvviso rallentamento sono le fabbriche militari, che avevano trainato l’economia di guerra fino a pochi mesi fa. La produzione di “prodotti metallici”, eufemismo onnicomprensivo per l’industria bellica, a settembre è arrivata a meno 1,6%, dopo essere cresciuta di un terzo nel 2024, mentre quella degli “altri mezzi di trasporto” (cioè militari) è aumentata soltanto del 6%, e anche l’Uralvagonzavod, la fabbrica di vagoni ferroviari e carri armati particolarmente amata da Vladimir Putin, ora lavora soltanto quattro giorni su sette. E per i dismessi dalle fabbriche non c’è più nemmeno l’opzione di guadagnare andando in Donbas: diverse regioni russe stanno riducendo drasticamente i premi per chi si arruola al fronte.
(da La Stampa)
Leave a Reply