QUANDO DI MAIO FU ELETTO VICEPRESIDENTE DELLA CAMERA CON I VOTI DEL PD
CHI ALLORA PIAGNUCOLAVA UN POSTO GIURANDO DI “ESSERE GARANTE DI TUTTI”, OGGI LO NEGA AGLI ALTRI
Ma quanto sono importanti gli uffici di presidenza delle Camere? Nelle ore febbrili delle trattative con i capigruppo 5 stelle Grillo e Toninelli che chiedono il voto Pd sui questori in cambio dell’offerta di due vicepresidenze ai dem, può essere utile tornare a 5 anni fa, e ricostruire come da una vicepresidenza della Camera, al di là dei consueti giochi di posizione nel parlamento, può nascere anche una rilevante carriera politica.
Erano i giorni tumultuosi del marzo 2013, i grillini in Parlamento ancora “scatola di tonno” erano il fenomeno del momento, e l’allora ventiseienne Luigi Di Maio iniziò a essere “preso d’assalto” – parole sue – per essere stato nominato il più giovane vicepresidente della Camera della storia della Repubblica.
Una partenza che, col senno di poi, – “sarò garante” di tutti i deputati – rivelerà tutte le doti del politico di Palazzo piuttosto che di Movimento, il che, considerati i tempi caldi, era primizia assoluta.
Ma oltre che dallo stile, il destino manifesto di Di Maio si annuncerà a partire dalle modalità della sua nomina, arrivata con il sostegno decisivo del Partito democratico, allora perno della legislatura, che, complice “la non vittoria” alle elezioni aveva l’arduo compito di cercare una qualche forma di governo da sottoporre a Napolitano.
Fu così che per lasciarsi aperte tutte le strade, i dem decisero di dividere tutte le cariche istituzionali con le opposizioni.
Anche in ossequio al regolamento che chiede massima rappresentanza “di tutti i gruppi parlamentari nell’Ufficio di presidenza”.
Complice anche la decisione del Popolo della libertà di indicare un solo vicepresidente (Maurizio Lupi), via libera dunque allo sconosciuto webmaster studente di giurisprudenza di Pomigliano, “mollato dalla fidanzata” per il troppo impegno “nel progetto a 5 stelle” (e ok anche a un questore del Senato, ma non anche alla Camera, come richiesto dai grillini “per sapere tutto, anche sulle caramelle”).
Fu il primo riconoscimento formale del ruolo del Movimento, che passò all’incasso ma non aprì – come sappiamo – alcuna linea di credito col Pd.
Anzi, ci fu persino chi palesò l’insoddisfazione. “Abbiamo preso il 25% e non mi sembra che una carica su sette rispecchi il risultato delle urne”, commentò il neodeputato Alfonso Bonafede. Fedeli al dogma del “no all’inciucio” con altri partiti, i 5 stelle continuarono a votare soltanto i loro.
Tanto da far perdere la pazienza a Pier Luigi Bersani: “Ho sentito cose curiose: che noi dobbiamo votare i loro per rispetto degli elettori, ma loro non votano i nostri. Noi oggi abbiamo dimostrato rispetto per i loro elettori, loro non hanno dimostrato rispetto per i nostri”. Sei giorni dopo arrivarono le consultazioni Pd-5stelle e il fatidico streaming
(da “Huffingtonpost”)
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