“QUI SI MUORE PER L’EUROPA”: TRA I COMBATTENTI DI MAIDAN, GLORIA ALL’UCRAINA RIBELLE
INDOSSANO I PASSAMONTAGNA, PREGANO E CURANO I FERITI: “SCRIVIAMO LA STORIA”
Slava Ucraini. «Gloria all’Ucraina». Incalcolabili le centinaia di feriti.
Slava Nazii, smert vraga. «Gloria alla nazione, morte al nemico».
Quanti di noi mancano, quanti sono morti, quanti arrestati? Bog s nami. «Dio è con noi».
Calcolate il numero dei cecchini sui palazzi, ragazzi.
Chiamate i dottori, ragazzi. Preparate altre molotov, ragazzi.
Non indietreggiate, Ucraini. Streljaut, «anche se sparano».
«Non abbandonate Maidan, non abbonate il simbolo della libertà ».
Eto serze Ucrainii, ribjata. «Questo ormai è il cuore dell’Ucraina, ragazzi».
Maidan brucia. Mentre in poche ore perdono i territori occupati, quelli che sono stati eletti generali tra i ribelli impartiscono ordini nel caos delle barricate, gestiscono l’anello di fuoco che mangia la piazza e non smettono di ricordare ai ragazzi nati dopo la caduta del muro di Berlino, sotto caschi e passamontagna, mazze ferrate tra le mani, perchè sono qui: «Per la libertà , per la terra, per l’Ucraina».
Intanto, mentre sulle barelle vanno verso le tende della croce rossa i feriti, ti chiedono: «In quale altro posto hai visto gente morire sotto la bandiera europea?».
Intorno a loro i preti benedicono le persone che pregano mentre anche il terreno trema per le deflagrazioni, alzano gli occhi al cielo e puntano la croce dove a pochi passi puntano fucili.
Chiedono che finisca «il terrore satanico della violenza». I passamontagna che indossano i migliaia di occupanti lasciano intravedere occhi di vecchie guerre, l’ Afghanistan del ’79, cicatrici di allenamenti in Unione Sovietica, e sono quegli occhi che nei giorni scorsi organizzavano in truppe ragazzini arrivati da tutte le province, da Lvov a Odessa, per combattere contro quello che sembra il nuovo patto di Varsavia. «Noi non faremo la fine della Bielorussia. Questa rivoluzione non è arancione. È blu per chi cerca l’Europa e nera per chi cerca indipendenza. Ma sappiamo di non avere una terza strada: l’Europa è l’unica alternativa per sopravvivere a Mosca».
Volodja è qui dal primo giorno e non indietreggia.
Legge la bibbia inginocchiato mentre bruciano ruote che hanno circondato la capitale di una nuvola di fumo. A 5 metri da lui le milizie sono pronte a colpire:
Valodja smette di combattere solo per pregare. Bardato da protezioni che appartenevano ai poliziotti, con la sua fedele mazza ferrata e la maschera antigas, Volodja, come molti Ucraini, continua da mesi a non aver paura.
È lui che dà inizio al coro delle mazze che battono sugli scudi di ferro e sui caschi verdi: «Devono sapere che siamo sempre qui, che non ce ne andiamo, non abbiamo mai smesso di combattere: vedi, i nonni hanno dato ai nipoti le maschere antigas dell’epoca sovietica, quando Mosca poteva dettare legge. Ma oggi non può farlo più. Yanukovic il fantoccio deve andare in prigione»
Il palazzo che era Museo di Lenin fino a 20 anni fa, dove era stata appesa la gigantografia di Putin sotto la scritta «Togli le tue mani insanguinate dal nostro paese», è andato perduto e ripreso dagli uomini del presidente.
Fino a ieri si riunivano studenti universitari, dormivano gli ultras divisi per squadre, si organizzavano i volontari, si proiettavano film, si distribuivano cibo, bevande calde e vestiti.
Ora è cenere e macerie il nido di quegli occupanti che erano il prematuro feto di una classe media che vuole rinascere sotto le stelle della bandiera europea e ha il terrore dell’aquila russa.
I portieri dei palazzi del Kreschatik serrano le porte.
Sono vecchi che piangono senza lacrime il ritorno dell’apparato, dei tempi della cortina di ferro come ritorsione all’anelito di una libertà mai veramente conquistata. Sono le babushke che ricordano le repressioni di guerre mondiali, civili, fredde e silenziose.
Ora al caldo delle fiamme della guerriglia ti guardano e chiedono «Allora adesso dove siete? L’Europa ci ha abbandonato, stanotte ammazzeranno questo popolo».
Serrano le porte: nessuno esce, nessuno entra.
Mentre i ribelli ripiegano e perdono terreno, le divise nere di Yanukovic hanno circondato la zona occupata: è a loro che donne e uomini continuano a urlare dagli altoparlanti «non sparate ai vostri figli, non sparate ai vostri genitori, non spezzate la schiena a questo paese».
Sulla bandiera blu a stelle gialle si appoggiano fronti insanguinate, sguardi di uomini neri sporchi di carbone.
Sono le voci dalla città che brucia, dove quando uno solo invoca gloria all’Ucraina, in migliaia rispondono gloria agli eroi.
Misha è tornato da Napoli, dove ha vissuto dieci anni, «perchè qui c’è crisi davvero, non come da voi: sono in prima linea per il mio paese».
Milita nel gruppo Udar, di Vitalij Klicko.
Ogni volta che il pugile si affaccia sul palco della piazza, non smette mai di stringere i pugni: «Non ce ne andremo, mai».
Maidan continua a essere circondata dalla Berkut, le squadre d’assalto addestrate, come pensano in molti, dai russi.
Ma Kiev non si arrende. «Da questo lato del mondo è sempre con le molotov che si è scritta la storia», dice Volodja.
Nessuno sa cosa resterà domani di Maidan, di Kiev, dell’Ucraina.
Questa notte rimarrà sveglia tutta la nazione per saperlo, ripetendo a denti stretti Gloria all’Ucraina.
(da “La Stampa“)
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