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QUIRINALE LE PAGELLE DI FANPAGE

MELONI E RENZI TOP, SALVINI E CONTE FLOP

Certo, possono servire per tirare una linea sullo stato di salute dei partiti, dopo un appuntamento importante. Oppure per misurare le capacità dei leader, all’inizio di quello che un lungo anno di campagna elettorale, verso le politiche. La realtà è che scrivere le pagelle dei pazzi sei giorni di scrutini, schede bianche, agguati, tradimenti che hanno portato alla rielezione di Mattarella è soprattutto molto divertente. Andiamo, allora.
GIUSEPPE CONTE 4
Nessuno ha davvero capito che partita si è giocato. Due, forse tre volte, ha flirtato con Matteo Salvini per provare a eleggere Frattini, Belloni o Casellati, in nome del fu asse gialloverde. In tutti i casi, il tentativo è fallito, con il solo risultato che i presunti alleati nel “campo progressista” Pd e Leu lo hanno via via guardato sempre più in cagnesco. Se l’obiettivo di Conte era quello di sfruttare l’occasione dell’elezione al Colle, per rompere l’alleanza di centrosinistra, non è chiaro con quale prospettiva politica futura l’abbia fatto. E poi c’è tutta la questione interna al Movimento. In più di un momento, Conte ha dimostrato di non avere il controllo dei suoi gruppi parlamentari. Alla fine delle votazioni, Luigi Di Maio (vedi sotto) ha aperto ufficialmente il processo interno al capo. Il mezzo punto in più è solo perché ha evitato la prospettiva da lui più temuta, quella della promozione al Colle di Mario Draghi. Ma francamente, per come oggi è la situazione dentro i 5 Stelle, sembra difficile pensare che la sua leadership possa durare ancora a lungo senza strappi traumatici.
ENRICO LETTA 6+
L’obiettivo del segretario del Pd è stato soprattutto quello di fare da “scudo umano” al premier Draghi. Il rischio di ritrovarsi alla fine della partita senza Draghi al Quirinale, ma nemmeno più a palazzo Chigi è stato l’assillo di Letta. Considerando che nel tritacarne dei nomi è finito persino quello della capa dei servizi segreti Elisabetta Belloni, aver fatto uscire vivo dal braciere di Montecitorio l’ex presidente della Bce , è stato sicuramente un successo. Altro punto a favore di Letta:  siamo a uno dei pochi day after, dei momenti cruciali nella storia recente, in cui nessuno dei vari capicorrente del Pd invoca un congresso o le dimissioni del segretario. Per la prestazione di Letta va resuscitata la formidabile parodia d’annata che Corrado Guzzanti faceva di Romano Prodi: “Io sono come un semaforo,  fermo tranquillo, governo la strada stando fermo”. E però va bene l’idea di guidare i processi dalle retrovie, ma che il segretario del principale partito della sinistra in Italia non abbia preso nessuna iniziativa politica ufficiale – in un crocevia così importante – fa una certa impressione. Ammesso di non considerare iniziativa politica, andare in tv da Fazio a dire che “la rielezione di Mattarella sarebbe il massimo”. Un po’ poco. Basti dire che nei sette scrutini che si  sono susseguiti prima della fumata bianca, Letta ha sempre dato indicazione ai suoi di votare scheda bianca o astenersi. Per vincere le elezioni nel 2023, servirà molto di più
MARIO DRAGHI 5
Parliamoci chiaro, vista a posteriori, possiamo dire che l’ipotesi concreta che Mario Draghi varcasse il portone del Quirinale non è mai davvero esistita. Troppi, fuori e dentro il parlamento, quelli che “chiunque ma non Draghi”, ognuno con i propri motivi. Il premier però ci ha messo del suo, in almeno un paio d’occasioni. La prima è la conferenza stampa di fine anno del 22 dicembre 2021, quando ha detto e fatto trasparire troppo, circa le sue intenzioni di traslocare al Colle. Lì per lì era sembrata una prova di forza, invece si è rivelata una dimostrazione di debolezza. Stesso discorso per l’accelerazione che ha provato a imprimere per la sua elezione, il primo giorno di votazioni, il 24 gennaio.  Palazzo Chigi ha lasciato trapelare che il presidente del Consiglio aveva incontrato il leader della Lega Salvini, uno dei principali ostacoli alla sua corsa. Con il passare delle ore si è capito che quel faccia a faccia era andato male, così come i contatti successivi del premier con Silvio Berlusconi. Lì, la candidatura di Draghi è tramontata definitivamente. Per paradosso, però, alla fine del tragitto, Draghi si trova rafforzato nel suo ruolo di capo del governo, perché dalla partita escono fortemente ridimensionate le sue spine nel fianco in questi mesi, Salvini e Conte. Difficilmente, nei prossimi mesi, i due siano nelle condizioni di imporre  ultimatum. A questo punto, il potere di Super Mario è blindato fino al 2023. Dopo si vedrà.
LUIGI DI MAIO 6,5
Per lui vale lo stesso discorso di Letta sul tentativo, riuscito, di proteggere Draghi dalle intemperie. Il mezzo punto in più sta nel fatto che Di Maio ha recitato il ruolo, da una posizione di minoranza interna, almeno formalmente, dentro al proprio partito. E con questa manovra ha minato – consapevolmente e in maniera forse definitiva – la leadership di Giuseppe Conte nel Movimento 5 Stelle. Ora però, l’enfant prodige della politica italiana deve decidere cosa fare da grande. Nelle prossime settimane , Di Maio dovrà dire chiaramente se vuole riprendere la guida del Movimento e con quale programma politico. In questi mesi ha sfruttato a pieno la sua posizione di ministro degli Esteri, con la conseguente rete di contatti e relazioni. Ma l’incarico alla Farnesina non dura per sempre. E Conte ha sempre in mano, forse come ultima carta, la regola del divieto terzo mandato, che se applicata alla lettera stroncherebbe la carriera di Di Maio.
SILVIO BERLUSCONI 5,5 
È il voto più controverso. Da un lato, ancora una volta l’ex Cavaliere è stato decisivo per sbloccare la situazione. Nella notte tra venerdì e sabato, infatti, la nota con cui, dal letto di ospedale del San Raffaele, ha in sostanza detto: “ora comando io” ha rimesso un po’ d’ordine, nel caos del centrodestra. E forse non è un caso che poche ore dopo, Matteo Salvini abbia compiuto il suo (ennesimo) dietrofront, rispetto al veto sulla rielezione di Mattarella. D’altra parte, però, non bisogna dimenticare che per molti giorni le trattative per il Quirinale sono state bloccate dall’ostinazione di Berlusconi nel portare avanti la sua candidatura. Se il suo nome non è stato bruciato nel falò dei franchi tiratori, è solo perché, all’ultimo momento, qualcuna delle figure più sagge del suo entourage (aka Gianni Letta) è riuscito a farlo ragionare. Ma, dopo il ritiro, Berlusconi non ha comunque avanzato nessuna altra proposta, oscillando tra Casini e Tajani, fino allo scellerato endorsement per la Casellati. Quando ha dato il suo placet al Mattarella bis, la pallina stava ormai scendendo sul piano inclinato.
GIORGIA MELONI 7
Portare alla terza votazione in solitaria il nome di Guido Crosetto – uno dei fondatori di Fratelli d’Italia, ma figura apprezzata trasversalmente – è stata la vera mossa del cavallo di questa elezione. Crosetto ha raccolto 114 voti, quasi 50 in più rispetto ai grandi elettori di Fdi. In quel momento, Salvini ha capito di essere finito in un vicolo cieco, mentre Giorgia Meloni ha giocato una scommessa win-win. Fin dall’inizio, Meloni sapeva di non poter avere un ruolo decisivo nell’elezione del presidente della Repubblica. Con quella mossa però è riuscita nel suo intento: costringere Salvini a legarsi mani e piedi a una prova dei numeri nel centrodestra, sul nome di Casellati. Una volta che quella candidatura è naufragata, la presidente di Fratelli d’Italia  ha lasciato il cerino in mano al segretario della Lega. Mentre lei si accreditava come unica vera figura coerente nel panorama della destra italiana, il Capitano ha iniziato ad annaspare. Alla fine il risultato è andato forse oltre le sue aspettative visto che, come spieghiamo sotto, il ruolo di Salvini come leader del centrodestra si è disintegrato. E allora perché solo un sette men0? Perché, anche in questo caso, l’esito resta sospeso. “Ora il centrodestra va rifondato da zero”, ha detto Meloni. Ma toccherà a lei chiarire che ruolo vuole interpretare: essere il nuovo leader di tutte le forze conservatrici, oppure fare la Marine Le Pen italiana, una catalizzatrice di consensi, ma con poche o nulle possibilità di governare il Paese.
MATTEO SALVINI 4
Non è proprio il Papeete. Ma solo perché siamo a fine gennaio e gli ombrelloni sono ancora chiusi. “Ci dice una cosa la mattina e ne fa un’altra la sera”, confessava sconsolato un alto dirigente del Pd qualche sera fa. Ricostruire le mosse di Matteo Salvini negli ultimi giorni è quasi impossibile, oltre che impietoso: facciamo un tavolo di tutta la maggioranza; no anzi, ci eleggiamo un presidente solo con il centrodestra; parlo con Draghi, ma vado anche a trovare Cassese; ho incontrato avvocati e giuristi, ma intanto tratto con Conte; voglio una donna, ma parlo con l’ambasciatore Massolo. Alla fine, il rumore che rimane è il botto fragoroso dell’unica proposta che il leader della Lega si è intestato, quella della presidente del Senato Casellati. Così, Salvini è rimasto a metà del guado, né sovranista, né governativo. La sola attenuante che si può concedere a Salvini è quella di essere stato imbrigliato per giorni dalla candidatura di Berlusconi. Ma forse meglio così, chissà quante altre ne avrebbe combinate. Per sua fortuna, gli esponenti della Lega si auto-definiscono “leninisti”, evocando la fedeltà al capo e alla sua linea, altrimenti ci sarebbero tutte le condizioni per chiedere le dimissioni del segretario. E però stavolta, non basterà nemmeno l’annunciato ritorno di Luca Morisi nella squadra della comunicazione di Salvini a rivitalizzare la figura del Capitano.
MATTEO RENZI 7
Qui siamo costretti a rifugiarsi nella definizione più banale: è antipatico; ha posizioni spesso discutibili; porta i giochi tattici all’esasperazione; però la politica la sa fare. L’ex premier era conscio di non poter dare le carte, ma poteva decidere a quale tavolo sedersi. Contro tutti i pronostici della viglia, Renzi ha scelto di rifiutare le sirene del centrodestra. E nel segno di un reciproco “scordiamoci il passato”, ha giocato di sponda con Enrico Letta, per fare muro sulle candidature proposte da Salvini e Conte di Casellati, Frattini, Belloni. Difficilmente, senza l’aiuto di Renzi, il segretario del Pd avrebbe avuto l’appoggio compatto nelle sue scelte di tutto il partito, che ricordiamo è ancora zeppo di parlamentari ex renziani (se questo sia un bene per Letta, lo lasciamo decidere a voi). Rimanendo riva del fiume, Renzi ha anche osservato incrinarsi l’alleanza fra i dem e il Movimento 5 Stelle, che ha sempre visto come fumo negli occhi. Pure per lui, però, questo è l’ultimo giro di giostra, prima che le prossime elezioni politiche cambino gli equilibri in parlamento. Vedremo quale sarà la sua strategia d’ora in poi, tenendo in mente che Renzi è stato sempre più bravo a distruggere che a costruire.
PREMIO DELLA CRITICA:  PIERFERDINANDO CASINI.
Ha rischiato di diventare lo Steven Bradbury di quest’elezione (se non sapete di cosa sto parlando, cercate su Youtube). Tante volte in questi giorni, la sua candidatura è stata affossata e tante volte è tornata in piedi. È arrivato in finale, ma ha capito che non poteva vincere e si è sfilato un attimo prima dell’ultima conta. La candidatura di Pierfedinando Casini – ex democristiano, poi big del Pdl di Berlusconi, poi montiano, poi eletto nelle fila del Pd, etc, etc… – è quella che ha fatto capire che stavolta i leader di partito non tenevano in mano il Joystick del videogioco. Se ci fosse un premio di consolazione, domani Casini sarebbe scelto come presidente del Senato al posto dell’impallinata Casellati
E IL VINCITORE È… L’ESERCITO DEI PEONES
Per quattro anni so stati insultati, presi in giro, dipinti come macchiette. Nel momento più importante della legislatura, i circa 900 parlamentari (togliamo dal conto dei 1009, quelli che pesano qualcosa) si sono presi la loro rivincita. Hanno affossato candidature nel segreto dell’urna e altre nemmeno le hanno fatte arrivare al voto. Scrutinio dopo scrutinio, hanno alimentato la cascata di voti per Matterella, tanto che a un certo punto nei palazzi si temeva che il presidente venisse riconfermato “a sua insaputa”. Alla fine i leader di partito si sono dovuti piegare.
La morale della storia, sta tutta in un aneddoto personale che ora vi possiamo svelare. La sera di giovedì 27 gennaio, alla fine del quinto scrutinio, rimango a chiacchierare con alcuni colleghi giornalisti. Ci si avvicina il peone ignoto, incarnato nelle fattezze di un parlamentare di centrodestra. “Voi di che corrente siete?”, ci chiede. Nemmeno facciamo in tempo a rispondere, il peone continua: “Vabbè, siete Contiani, Dimaiani?”. Ci ha scambiato per parlamentari del Movimento 5 Stelle. “No ma noi…”. Il peone prosegue: “Tanto stiamo tutti nella stessa barca, qui con il taglio (fa il gesto della forbice con le mani) non rientra nessuno, dobbiamo trovare il modo di fare un altro anno pieno”. Si blocca, forse capisce che ha equivocato: “Un anno pieno, di riforme intendo, ma comunque che sia pieno”.
Ci salutiamo, senza chiarire l’equivoco.
(da Fanpage)

This entry was posted on domenica, Gennaio 30th, 2022 at 21:50 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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