RICERCATORI, LA RIVOLTA
IN TUTTA EUROPA I FONDI VENGONO FALCIDIATI… I GIOVANI SONO COSTRETTI A EMIGRARE PORTANDOSI DIETRO I CONTRIBUTI EUROPEI LORO ASSEGNATI… IL 19 OTTOBRE LA PROTESTA IN FRANCIA
Il 19 ottobre gli universitari francesi raggiungeranno Parigi in bicicletta, ma quella data è diventata un giorno di protesta continentale per lottare contro il taglio drastico dei fondi. Abbiamo raccolto le storie di italiani, spagnoli, tedeschi e altri per scoprire lo stato di abbandono e decadenza degli atenei.
Giardinieri pagati con i soldi della ricerca.
Roma, agosto inoltrato, il malumore è palpabile all’Istituto dei sistemi complessi: “Ci hanno tolto 20mila euro per pagare la manutenzione dei giardini della sede distaccata del Cnr a Monte Libretti”, spiegano nei corridoi semi-deserti.
Benvenuti nell’anno anno zero della ricerca. Via i cervelli, via i fondi e il potenziale.
L’Italia e il sud Europa sono contribuenti netti di scienza: danno più di quanto ricevono.
La via del salasso porta a Nord, verso i Paesi “virtuosi”.
Dal 2008 le università e i laboratori italiani hanno perso il 18,7 per cento dei finanziamenti statali, il 100 per cento dei fondi per la ricerca di base e il 90 per cento dei reclutamenti (meno 10 mila ricercatori).
Altrove non è andata meglio: Spagna, Portogallo, Grecia e Francia affrontano tagli spaventosi (ne trovate una sintesi a pagina 6  ).
Al contrario, Paesi come Germania, Olanda e Inghilterra hanno retto l’urto della crisi, e non sempre per meriti propri, anzi, ai cervelli migranti si sono affiancati i fondi europei vinti dai ricercatori in rotta verso il Nord.
Il drenaggio è nei numeri, lento, inesorabile e in atto da almeno una decade.
A parte gli scienziati, nessuno sembra accorgersene, e il motivo è semplice: tutto è in uno stato di coma vigile, le risorse che ci sono bastano solo a mantenere in piedi la struttura, e nulla più, mentre pezzo dopo pezzo il crollo della spesa e la fuga di ricercatori, dottorandi e post-doc ne mina le fondamenta, compromettendone il futuro.
In Italia, secondo l’Associazione dei dottori di ricerca, dei 15.300 assegnisti attivi nel 2013, il 96,6 per cento non continuerà a fare ricerca.
Il 19 ottobre, migliaia di ricercatori lanceranno l’ultimo mayday della scienza.
A Parigi arriveranno in bicicletta da tutto il Paese (Sciences en marche), in Italia mostreranno in aula all’inizio di ogni lezione i dati catastrofici sullo stato di salute della ricerca raccolti dalla rivista Roars.
Altrove le forme si stanno studiando, ma si annunciano proteste clamorose e l’obiettivo è lo stesso per tutti: “O si inverte la rotta, o si muore”.
Un salasso continuo
Smettere di tagliare sarebbe il primo passo.
In cinque anni, la riduzione di fondi, assegni di ricerca e programmi di reclutamento oscilla dal 41 per cento della Spagna al 50 per cento della Grecia, mentre una brutale revisione dei criteri di valutazione (appaltata ad istituzioni europee) rischia di tagliare fuori dal finanziamento pubblico metà delle unità di ricerca portoghesi.
Allargando lo sguardo non va meglio. In Francia nel 2014 poco meno di un decimo dei progetti presentati all’Agenzia nazionale della ricerca verrà finanziato.
Eppure si tratta della principale forma di sovvenzione dei laboratori, visto che l’80 per cento del finanziamento statale è servito a pagare i salari dei ricercatori (pari a 2 miliardi di euro).
“Per triplicare i fondi per la ricerca basterebbe trovare 600 milioni, il bilancio annuale della squadra di calcio del Paris Saint-Germain”, hanno attaccato i ricercatori in una lettera al quotidiano Liberation. Secondo l’Ocse, nel 2012, fatta eccezione per Germania, Svezia, Danimarca e Finlandia, l’Europa ha fatto registrare una spesa per ricerca e sviluppo inferiore al 3 per cento del Pil fissato come obiettivo dal Trattato di Lisbona (2007).
L’Italia ha destinato solo l’1,3 per cento della ricchezza nazionale ed è 32esima (su 37) nella classifica Ocse nella spesa per università . I tagli imposti dall’austerità fiscale non impattano sulla bravura degli scienziati, semplicemente li costringono a emigrare.
A differenza di cinquant’anni fa, però, non portano con sè valigie di cartone, ma fondi europei per milioni di euro.
Per dare l’Idea, a gennaio sorso l’European research council (Erc) ha assegnato 312 Consolidator Grants, fondi di ricerca attribuiti a scienziati con una discreta esperienza accademica e dagli importi molto alti: si arriva fino a 2,75 milioni di euro (per un totale di 575 milioni). Gli italiani ne hanno vinti 46, due in meno della Germania primatista (Francia e Inghilterra sono molto indietro).
Un risultato straordinario che testimonia l’enorme potenziale della ricerca italiana.
Peccato però che solo 20 arriveranno nel nostro Paese, gli altri voleranno via: 50 milioni (più i circa 500.000 euro a testa che è costata la loro formazione) che regaleremo alle università che hanno accolto i ricercatori italiani a braccia aperte.
Succede così che l’Inghilterra, che ne ha vinti molti meno di noi, grazie all’esodo dal basso realizza il punteggio migliore (62), la Germania tiene botta e la Svizzera raddoppia.
L’Italia? Solo uno dei premi è stato vinto da un ricercatore di stanza all’estero, che (presumibilmente) rientrerà in patria.
La fuga accomuna tutti i Paesi del sud dell’Europa , e si ripete, anche se con minor intensità , nelle altre due categorie di fondi Erc: gli advanced e gli starting.
L’unico fondo in citta’
“Eppure questi sono gli unici fondi con cui si fa ricerca in Italia — spiega Mauro Nisòli, docente del dipartimento di Fisica del Politecnico di Milano — se non ne avessimo vinti tre negli ultimi anni saremmo rimasti fermi.
Così si vive alla giornata: non è possibile fare progetti a lungo raggio, chiamare qualcuno dall’estero o stabilizzare un ricercatore, perchè non c’è alcuna garanzia che ne vincerai altri in futuro”. Il sistema funziona così: fatti cento i fondi per università e ricerca, 90 arrivano dallo Stato e dieci dall’Europa. I primi coprono la gestione ordinaria, i secondi la ricerca avanzata. Sulla carta ci sarebbero anche i fondi per la ricerca di base.
Che fine hanno fatto? Spariti nel nulla. Dal 20009 al 2012 la prima sforbiciata (70 per cento) poi il taglio netto.
Non che prima si navigasse nell’oro: due anni fa tra Firb (ricerca di base) e Prin (Progetti di interesse nazionale) si è arrivati a 69 milioni di euro (erano 196 nel 2009).
Dovevano essere sostituiti dai Sir (Scientific indipendence of young researchers): nuovi fondi e una dotazione di 47 milioni di euro.
L’acronimo è cambiato ma i soldi non sono mai arrivati. Perchè? Il bando pubblicato a gennaio scorso dal Miur prevedeva una commissione con due membri scelti da una rosa di nomi fornita dal Consiglio europeo per la ricerca (Erc), che però non è mai arrivata.
Davanti ai ricercatori inferociti il ministero ha provato a dare la colpa all’ente europeo ma quest’ultimo ha fatto presente alle autorità italiane che non era possibile fornire la rosa di nominativi e diffondere le informazioni dei propri commissari per motivi di privacy.
In pratica, il più importante (e unico) bando per fare ricerca in Italia è stato redatto senza verificare prima la disponibilità dei giurati.
Risultato? Sognando la Apple di Cupertino “A tutt’oggi — spiega Luisa Maria Paternicò, ricercatrice all’Università degli Studi internazionali — è tutto fermo, e probabilmente si slitterà di un anno. Spero non fosse questo l’intento perchè altrimenti ci sarebbe da emigrare all’istante. Oltretutto, a differenza di quelli europei, questi bandi hanno un limite anagrafico, non accademico: a 40 anni e un giorno sei fuori da tutti i giochi”.
All’indomani del primo bando, l’allora ministro Maria Chiara Carrozza ne promise un altro per gli over 40, poi naufragato per la caduta del governo Letta. Ma il vuoto non è stato riempito.
Il nuovo ministro Stefania Giannini si è limitata a promettere l’assunzione di “seimila ricercatori l’anno per almeno quattro anni”. Costo? 864 milioni di euro, che il governo non ha. E se gli uffici di viale Trastevere non si inventano qualcosa, dal 2015 scatterà un ulteriore limatura di 170 milioni del disastroso piano di tagli lineari varato a suo tempo da Giulio Tremonti.
Come ha fatto notare l’economista Mariana Mazzucato, senza gli investimenti pubblici in ricerca non avremmo avuto prodotti come l’Iphone e aziende coma la Apple. Dallo schermo Lcd al multi touch, dal micro disco rigido al programma di assistenza vocale Sirio, il colosso di Cupertino non ha speso un dollaro: ha semplicemente implementato il frutto di progetti di ricerca finanziati con miliardi di dollari dallo Stato americano.
Per questo, nonostante la più bassa percentuale di spesa per ricerca e sviluppo tra i colossi della tecnologia, Apple è diventata un’azienda che oggi fattura 170 miliardi di dollari l’anno.
Carlo Di Foggia
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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