RIFORME, IL SENATO APPROVA, MA VERDINIANI E TOSIANI SONO FONDAMENTALI
SENZA I 17 DI VERDINI, I 3 DI TOSI E 2 EX FORZA ITALIA, IL GOVERNO SI SAREBBE FERMATO A QUOTA 158, TRE IN MENO DEL QUORUM NECESSARIO
Il “motivatore” Matteo Renzi irrompe in Senato poco prima delle 18, ed è lui a rianimare una discussione, quella sulla riforma costituzionale, ormai arrivata al terzo passaggio nell’aula di palazzo Madama e dunque priva di qualsiasi pathos.
Le opposizioni, mentre lo ascoltano parlare di giornata “di cui si occuperà la storia” e ribadire che se perderà il referendum lascerà la politica, sembrano quasi rianimarsi dal torpore.
Poi arriva la doccia fredda dei numeri: 180 sì contro 112 no.
Il Pd è dalla sua parte: un solo no, quello di Walter Tocci, mentre uno degli altri storici dissidenti, Felice Casson, non ha partecipato al voto insieme al senatore Renato Turano, assente per malattia.
Dai 25-30 dissidenti dem, che hanno fatto infuriare il premier nello scorso settembre, solo due voti negativi alla madre di tutte le riforme, quella su cui Renzi ha deciso di giocarsi la carriera politica.
Quota 180 è un ottimo risultato, il record per Renzi da quando è a palazzo Chigi. Ma questo successo non arriva solo dalla sua maggioranza: decisivi sono stati i 17 sì del gruppo di Verdini, insieme ai 3 delle senatrici legate all’ex leghista Flavio Tosi e a due dissidenti di Forza Italia, Riccardo Villari (ex Pd) e Bernabò Bocca.
Senza questi 22 voti la riforma Boschi si sarebbe fermata a quota 158, tre voti in meno del quorum fissato a 161.
Non a caso Renzi si è fermato a parlare, oltre che con Giorgio Napolitano (lodato nel discorso “senza di lui non saremmo qui”), anche con Verdini e il ministro Alfano, protagonisti essenziali del successo della riforma che porta il nome della ministra Boschi (lodata anche lei per la sua “determinazione”).
“I nostri voti sono stati determinanti”, rivendica per i verdiniani Lucio Barani. Annunciando il sì, il gruppo dell’ex braccio destro di Berlusconi ha chiesto modifiche all’Italicum, a partire da un ampliamento del premio di maggioranza alla lista vincente.
Duro il giudizio del bersaniano Miguel Gotor: “Questi risultati aprono la strada a una stagione di trasformismo e annunciano una lunga e profonda palude in cui il Pd non può e non deve smarrire la propria identità riformista di forza di centrosinistra”.
La minoranza Pd, dal canto suo, ha presentato in mattinata una proposta di legge per l’elezione diretta dei senatori, subordinando alla sua approvazione l’impegno dei bersaniani nella campagna per il sì al referendum costituzionale previsto per ottobre. “Noi oggi voteremo sì alla riforma della Costituzione, ma questo non significa un sì automatico e immediato al referendum”, avverte Paolo Corsini.
“Chiediamo un impegno preciso del Pd e del governo nel dare attuazione alla legge ordinaria sulla legge elettorale. Il consenso dovrà essere guadagnato attraverso passaggi politici chiari, coerenti e conseguenti”.
La minoranza chiede che la nuova legge dia attuazione al principio strappato a settembre a un riottoso Renzi, e cioè l’elezione diretta dei senatori, e propone una doppia scheda alle elezioni regionali: i senatori sarebbero scelti attraverso collegi uninominali.
Del resto, fu proprio quella soluzione di compromesso sui senatori eletti dai consigli regionali, “in conformità con le indicazioni dei cittadini”, ad evitare a settembre 2015 lo strappo nel Pd e il naufragio della riforma.
Dopo lo scrutinio, grandi abbracci dei senatori dem con Maria Elena Boschi.
Stavolta però, a differenza dell’agosto 2014, nessun bacio con la berlusconiana Maria Rosaria Rossi, passata sulle barricate insieme all’ex Cavaliere che, ironia della storia, ora grida al “regime”.
(da “Huffingtonpost”)
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