SE ARRIVA LA CONDANNA SALTA IL GOVERNO
LE GRANDI MANOVRE ALL’INTERNO DEL PDL TRA FALCHI E COLOMBE
All’ultima cena elettorale per Gianni Alemanno, due settimane fa all’Eur, aveva annunciato l’arrivo alla Roma dell’allenatore del Milan Massimiliano Allegri.
Falsa promessa (anche quella), Allegri è rimasto con i rossoneri, ma quel che più conta è che a fine serata, dopo essersi esibito nel solito repertorio di canzoni francesi, Silvio Berlusconi era sfinito, zuppo di sudore.
È seguita una ancor più moscia apparizione dell’ex premier sul palco del comizio finale di Alemanno al Colosseo, poi stop, campagna elettorale finita.
Sarà per i risultati deludenti del primo turno, con il Pdl che arranca a Roma, per il sindaco uscente appena il 30 per cento del 50 per cento dei votanti, una miseria, e a Brescia, Treviso, Imperia, perfino a Viterbo, roccaforte della destra.
Sarà che il 2013 è stato finora un anno faticoso. Ma intanto il Campionissimo di Arcore dopo il primo turno è rimasto negli spogliatoi, lasciando ad altri il compito di giocare il secondo tempo dei ballottaggi. Sì, ma a chi? Nel comitato di Alemanno si è affacciato solo Maurizio Gasparri che vive di campagne elettorali. Gli altri dirigenti? Non pervenuti. Mai visto Angelino Alfano, impegnato nel triplice incarico di segretario del Pdl-vicepremier-ministro dell’Interno.
Per forza: il vice-premier Alfano come uomo di governo si era impegnato a non partecipare ai comizi elettorali e ai dibattiti in tv. E ha impedito all’altro Alfano, il segretario del Pdl, di fare campagna per i suoi candidati.
Nessuno se ne sarebbe accorto, forse, se anche Berlusconi non avesse disertato piazze e tv. Concentrato su altri fronti.
Il 19 giugno la Corte costituzionale si pronuncerà sul ricorso presentato dai legali del Cavaliere contro il Tribunale di Milano che ignorò una richiesta di legittimo impedimento avanzata dall’ex premier nel processo per i diritti Mediaset.
Se il ricorso fosse accolto il processo sarebbe riportato all’indietro.
In caso di rigetto, invece, andrebbe avanti rapidamente fino alla sentenza definitiva della Cassazione, in autunno: in appello Berlusconi è stato condannato a quattro anni e cinque di interdizione dai pubblici uffici.
Se la condanna fosse confermata decadrebbe da senatore e non potrebbe presentarsi alle elezioni politiche nè, tantomeno, per la carica di presidente della Repubblica in caso di un’ipotetica riforma semi-presidenziale della Costituzione.
Il 24 giugno, poi, dovrebbe arrivare la sentenza di primo grado del processo che è stato chiamato con il soprannome della co-protagonista, Ruby, ma che è un processo a Berlusconi per concussione e prostituzione minorile.
Clima di resa, l’avvocato-parlamentare Niccolò Ghedini ha paragonato il suo cliente al re francese Luigi XVI, ghigliottinato dai rivoluzionari, il Cavaliere si sente vittima di una sentenza già scritta.
E se le richieste del pm Ilda Boccassini fossero accolte, sia pure in primo grado, scatterebbe una condanna ancor più pesante: sei anni e interdizione perpetua.
Il calendario politico-giudiziario assorbe interamente l’attenzione di Berlusconi, fino a fargli perdere di vista l’esito di un turno elettorale importante come quello del 9-10 giugno.
E preoccupa moltissimo Giorgio Napolitano, coinvolto suo malgrado in prima linea, data l’assoluta certezza del Cavaliere, ribadita in mille occasioni pubbliche e private, che la Consulta sia una longa manus del Quirinale, un organo docile alle indicazioni presidenziali. Un’ossessione.
Nel settembre 2003, rivelano i diari dell’ex presidente Carlo Azeglio Ciampi (appena pubblicati in “Contro scettici e disfattisti”, a cura di Umberto Gentiloni Silveri, Laterza), l’allora premier arrivò a minacciare di non controfirmare il decreto di nomina di tre giudici costituzionali (Tesauro, Cassese, Saulle), «sostenendo», scrive Ciampi, «che le mie nomine dovessero bilanciare un — da lui asserito — squilibrio politico della Corte a sinistra».
Uno scontro istituzionale replicato nel 2009, quando la Consulta a grande maggioranza dichiarò incostituzionale il lodo Alfano, lo scudo salva-processi per le alte cariche dello Stato. Berlusconi la prese malissimo: «I giudici sono stati eletti da tre capi dello Stato di sinistra. E Napolitano si sa da che parte sta».
Da palazzo Grazioli uscirono voci su patti non mantenuti, promesse tradite e altri veleni sul Quirinale. Quel voto sul lodo Alfano segnò tutta la precedente legislatura: lo scontro con Fini, la scissione del Pdl, il collasso.
Oggi lo scenario potrebbe ripetersi.
E un no della Corte a Berlusconi, seguito da una condanna al processo Ruby, potrebbe far deragliare il governo Letta. Anche perchè nel cerchio magico berlusconiano c’è chi lavora per lo show-down.
Il titolo del “Giornale” del 5 giugno suona come una chiamata alle armi: “Pdl a un passo dalla rivolta”.
«Noi non ci staremo a vedere annientata per via giudiziaria in modo baro e barbaro la nostra rappresentanza politica», ha scritto il direttore Alessandro Sallusti: «Mi auguro che nel Pdl la pensino così: meglio un giorno da leoni che mille da servi della sinistra». Nel mirino c’è il ministro-segretario Alfano.
I falchi, l’ala movimentista guidata da Denis Verdini e da Daniela Santanchè, lo accusano di non interessarsi del Pdl da quando ha trovato riparo alla destra di Letta (Enrico).
E non vedono l’ora di scaricare addosso ad Angelino la responsabilità dell’annunciato insuccesso elettorale ai ballottaggi, con la richiesta di dimissioni dalla segreteria.
Ma anche la corrente del Pdl più convinta che il governo Letta vada sostenuto ritiene un errore l’appiattimento del partito su Palazzo Chigi e si prepara a chiedere un cambio: il candidato numero uno alla segreteria al posto di Alfano sarebbe l’ex ministro Raffaele Fitto, defilata Maristella Gelmini, con obiettivi più ambiziosi Mara Carfagna.
Più che il destino di Alfano contano le scelte del Cavaliere.
Lo scorso weekend Verdini, Santanchè e Daniele Capezzone sono stati ospiti di Berlusconi in Sardegna e sono tornati galvanizzati.
Circola di nuovo la parola d’ordine di dodici mesi fa: azzerare il Pdl.
«Sì, perchè è vero che Alfano ha bisogno di tempo e spera che il governo duri per preparare la successione a Berlusconi», spiega un deputato della vecchia guardia: «Ma anche Verdini e la Santanchè che in pubblico si presentano come i berlusconiani duri e puri pensano al dopo-B. : se il governo va troppo avanti saranno tagliati fuori, per difendere il loro potere hanno bisogno che il presidente li guidi in un’altra campagna elettorale, l’ultima. Da anni Berlusconi è la loro maschera».
Al riparo della maschera di Silvio i falchi si stanno organizzando.
L’ultima idea è l’Esercito di Silvio, un gruppo di giovani volontari messi su dall’imprenditore Simone Furlan, uno che di sè dice: «Per Berlusconi sarei pronto a farmi sparare. Il Pdl, invece, non lo ha mai difeso dai processi».
Il gruppo vanta 17 mila iscritti on line, con tanto di regole di arruolamento, reggimenti («Diventa comandante di un reggimento territoriale…»), prepara una manifestazione pro-Cav. per fine giugno, conta sull’appoggio di Michaela Biancofiore che ha spedito sul fronte il suo pupillo, il commissario del Pdl altoatesino Alessandro Bertoldi: «Siamo i termopiliani di Silvio».
Peccato che la Biancofiore sia anche sottosegretaria di quel governo che secondo i pasdaran sta per consegnare Berlusconi ai suoi nemici.
Il sogno è quello di sempre: chiudere il Pdl e rifondare Forza Italia. Un partito leggero dominato dalla coppia Verdini- Santanchè.
«Nelle prossime settimane ci sarà una grande sorpresa», annuncia Daniela: una rivolta fiscale contro uno Stato «che vuole la fucilazione giudiziaria del suo leader».
Per nulla turbata alla prospettiva che il Pdl possa perdere le elezioni amministrative e che il suo leader possa essere condannato all’interdizione. Anzi, quale notizia migliore, per chi vuole chiudere il Pdl, di una catastrofica sconfitta?
Ma anche una sberla ai ballottaggi non basterebbe a convincere Berlusconi che il governo Letta-Alfano va buttato giù e che bisogna tornare al voto.
Serve qualcosa di più forte. Qualcosa che davvero spinga Silvio a combattere l’ultima battaglia.
Una sentenza negativa della Consulta, per esempio. O una condanna per prostituzione.
È così: nel cuore del Pdl c’è chi spera nei giudici di Milano, per dichiarare la guerra totale.
Marco Damilano
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