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SIAMO SORDI ALLA BELLEZZA: MEZZ’ORA DI BACH PER 13 EURO E 6 CENTESIMI

UNO DEI MIGLIORI VIOLINISTI D’ITALIA SUONA IN UNA STAZIONE DEL METRO’: SU 1.760 PASSANTI SI FERMANO IN 11

Irrigidito nel gelo del primo mattino, ha sceso passo dopo passo le scale fino al tunnel del metrò sotto via Lepanto.
Portava una barba folta, capelli un po’ lunghi sulla fronte, era senza cappotto anche se il termometro segnava esattamente zero. Tutto ciò che aveva con sè quell’uomo era un grosso pullover grigio, guanti di lana mozzati all’altezza delle dita e un astuccio di pelle ammaccata fra le mani.
Le quattro addette della biglietteria della metropolitana lo hanno visto fermarsi proprio davanti al loro sportello e aprire la sua scatola con cura. Ne ha tirato fuori un violino. Ha poggiato il contenitore sul pavimento di linoleum nero, ha sparso con metodo quattro monete d’incoraggiamento sul velluto rosso della fodera.
Ed è a quel punto che ha iniziato
Se conoscete l’ Adagio e la Fuga della prima Sonata per violino di Johann Sebastian Bach, sapete di che cosa si tratta. Ti lacera il corpo e ti strappa via l’anima con una precisione matematica, te la porta allo scoperto e tu non puoi farci niente.
È anche una delle pagine per violino più difficili mai scritte (1720), così innovativa e sconcertante che Bach morì trent’anni dopo senza che nessun editore si fosse mai arrischiato a pubblicarla.
Un secolo e mezzo più tardi, Johannes Brahms non osò comprare il manoscritto originale che gli veniva offerto perchè dubitava che fosse autentico. Sono meno di dieci minuti di musica ma si portano dietro un’ombra d’incredulità  fin dal primo momento.
Questa è la composizione, e questi il tempo e il luogo: la fermata Lepanto sulla linea A della metro di Roma, lunedì 18 gennaio.
E quest’articolo è un puro e semplice plagio, è bene dirlo subito. Nel 2008 Gene Weingarten del «Washington Post» vinse il primo dei suoi due premi Pulitzer per le feature , le storie più lunghe, con un testo che mise alla prova un migliaio di passanti del metrò della capitale degli Stati Uniti e la dignità  di uno dei grandi maestri di questo secolo.
Joshua Bell, ciò che di più vicino a una rockstar esista nel mondo del violino, aveva accettato d’improvvisarsi musicista di strada nel centro di Washington un mattino presto all’ora di punta.
Per 43 minuti aveva suonato la Ciaccona di Bach e altri 5 pezzi, raccogliendo 32 dollari e spiccioli da 27 persone; quel giorno nessuno lo riconobbe e un solo passante adulto si fermò ad ascoltarlo. Per 9 minuti.
Anche in questo lunedì di gennaio l’uomo che raccoglie qualche moneta agitandosi contro la parete del metrò è famoso, nel resto della sua vita.
È un interprete solido e raffinato, fra i più grandi d’Italia. Carlo Maria Parazzoli, 51 anni, da poco meno di venti primo violino solista dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia.
In carriera si è esibito con i più celebri direttori e nelle migliori sale del mondo. Ha suonato musica da camera con Lang Lang, Martha Argerich, con il mitico direttore e pianista Wolfgang Sawallisch.
Quando c’è lui l’incasso medio di una serata all’Auditorium della capitale è di alcune decine di migliaia di euro, un buon posto ne costa circa 50 e non sarà  mai situato così vicino alla fonte del suono come in questo corridoio a Lepanto.
Ma il pubblico nei teatri conosce un codice non scritto, che detta concentrazione e silenzio in momenti dati. Il mondo di Parazzoli è questo.
E ciò che segue è il risultato della fredda mattinata di gennaio.
Il maestro ha suonato 30 minuti (dalle 8.04 alle 8.34), davanti a lui sono passate 1.760 persone, nessuno l’ha riconosciuto, in 11 hanno offerto qualcosa, in 4 gli hanno rivolto uno sguardo aperto e sostenuto per almeno qualche secondo e quelle 4 persone avevano tutte lo stesso profilo demografico: frequentano invariabilmente la scuola materna o le prime classi delle elementari, hanno fra i 4 e i 6 anni di età .
Dopo la performance, scaldandosi in un bar, Parazzoli prenderà  atto che la distinta dei ricavi presenta 2 monete da 2 euro, 6 da uno, 3 da 50 centesimi, 5 da 20, 3 da 10, 5 da 5 centesimi e una da un cent.
Qualcuno deve averne approfittato per svuotarsi le tasche. In tutto fanno 13 euro e 6 cent.
In uno dei grandi quartieri borghesi di Roma, dove le persone che usano il metrò vengono da case piene di libri e si affrettano verso uffici – spesso pubblici – di un qualche prestigio, lo 0,63% dei passanti ha scelto di fare un’offerta per l’ Adagio e la Fuga di Bach interpretati da Parazzoli.
In un quartiere paragonabile di Washington, Joshua Bell aveva raccolto contributi dal 2,4% di quelli che l’hanno incrociato.
Non è un atto d’accusa. Piuttosto questo è un test su come lavorano i muri che chiudono la nostra mente e quei binari invisibili che ci guidano sempre verso una direzione data, anche quando ai lati appaiono panorami stupefacenti.
È un modo di riflettere sulla bellezza e sulla sottigliezza che ci sfuggono tutti i giorni, semplicemente perchè non pensiamo che debbano essere qui. Non ora, non in questo luogo.
Convinti di essere nel pieno delle nostre facoltà , obbediamo al contesto anzichè ai nostri sensi. Confondiamo il valore con il prezzo, prendiamo il secondo come misura esclusiva del primo.
Alcuni studi mostrano che, alla cieca, spesso tendiamo ad apprezzare vini meno cari ma improvvisamente preferiamo i più costosi non appena qualcuno ci informa su quanto siano stati pagati.
L’aver speso per un prodotto acuisce la nostra mente e ne affina la percezione.
Sapere è tutto.
Ragguagliate di ciò che sta realmente accadendo, le quattro addette della biglietteria si alzano in piedi dietro il vetro dello sportello non appena Parazzoli accenna le prime note.
Non riescono più a lavorare, ascoltano incantate. Ma quando poco dopo arriva un treno e un’ondata di gente si rovescia fuori dai tornelli, nessuno degna quell’uomo in golf grigio di uno sguardo.
Lo fa solo una bambina in una giacca a vento bianca, cercando di mimare i gesti del maestro al violino ma la madre non rallenta e anche la piccola sgambetta via.
È in quel momento che arriva il direttore della stazione Lepanto.
Nervoso, chiede al maestro di mostrargli l’autorizzazione per quella performance. Bastano un pezzo di carta, un timbro. Non ne ha.
«Cerchi almeno di abbassare il volume», fa lui.
Il direttore sparisce per qualche minuto, torna per un nuovo tentativo di cacciare Parazzoli e alla fine si arrende: «Vabbè, dirò che ero in bagno. Ma lei alle 8.30 se ne vada».
Solo le donne si avvicinano per lasciare dei soldi, gli uomini mai. Ma anche quelle sfuggono con gli occhi.
Depositano le monete sulla fodera rossa – non le gettano, per rispetto – e si dileguano senza guardare il musicista.
La loro pietà  viaggia sempre mista al fastidio. «Anche se al mio posto ci fosse stata una tela originale di van Gogh, nessuno si sarebbe fermato. Non ci avrebbero creduto. Abbiamo sempre paura che i nostri piani di giornata siano sconvolti», dirà  Parazzoli più tardi.
Ma non per tutte è così. Alberta Milone, un avvocato di 47 anni, nel tempo libero suona il liuto rinascimentale e quella mattina sente subito qualcosa di speciale in quel suono. Lascia due euro. «Ho capito che non era una persona qualunque, perchè non mi ha ringraziata».
Era il primo violino di Santa Cecilia, avvocato.
«Wow. È stato un momento intenso», razionalizza.
In cima alle scale della metro Elvio Tiburzi, 61 anni, impiegato alla Corte dei conti, aspetta la collega Gigliola Caratelli per avviarsi con lei verso l’ufficio.
Tiburzi da ragazzo ha abbandonato gli studi di musica prima del diploma perchè era diventato padre molto presto. «Poi ho suonato un po’ nei piano bar, ma sono di formazione classica. Mia figlia si è diplomata e ora suona quando la chiamano», dice con un orgoglio controllato.
Quel mattino Tiburzi non resiste, scende le scale della metro per controllare da dove viene quel canto di violino.
Vede Caratelli, la collega della Corte dei conti, che ha appena lasciato una moneta («volevo mostrare che qualcuno capiva cosa stava accadendo»).
Tiburzi si ferma, assorbe ancora un istante di quella musica sublime, poi un dubbio lo blocca. «Suonava troppo bene – ricorda – allora ho pensato: mi sa che è un esperimento».
E i due colleghi si sono affrettati verso la Corte dei conti.

Federico Fubini
(da “il Corriere della Sera”)

This entry was posted on domenica, Marzo 6th, 2016 at 17:12 and is filed under denuncia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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