SOLO UN GIOVANE SU DIECI ENTRA IN AZIENDA CON LA GARANZIA DI UN CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO
IL CONTRATTO UNICO PUNTA AD ELIMINARE ALMENO IN PARTE L’ENORME MASSA DEI LAVORATORI PRECARI
È una delle poche idee che siamo riusciti anche ad esportare all’estero.
Da tempo economisti come Pierre Cahuc, Francis Kamarz, Samuel Bentolila e Juan Dolado propongono il «contratto unico» inventato da Tito Boeri e Pietro Garibaldi anche in Francia e Spagna.
Ma da noi il dibattito incontra sin dal 2002, quando è stato proposto dai due economisti del lavoro un totem insormontabile: l’articolo 18.
Il fatto è che da quando quella norma dello Statuto dei Lavoratori è stato al centro di uno scontro al calor bianco tra il governo Berlusconi bis e la Cgil di Sergio Cofferati – con l’epilogo dei tre milioni a Circo Massimo – è complicato parlare di diritto del lavoro senza scivolare sul terreno dello scontro ideologico.
Elsa Fornero, neo ministro del Lavoro ha già detto cosa ne pensa: il contratto unico è «in grado di conciliare la flessibilità in ingresso richiesta dalle imprese con l’aspirazione alla stabilità rivendicata dai lavoratori».
Sarà un tassello importante dell’agenda di governo dell’economista torinese. Ma è anche uno dei motivi per cui la Cgil continua a rimarcare la diffidenza nei confronti del governo Monti.
Il contratto unico tenta di rispondere a un mondo del lavoro che si è fortemente precarizzato e dove si è creato un dualismo crescente tra chi è tutelato dal contratto a tempo indeterminato e le miriadi di atipici che hanno spesso livelli salariali infimi, non sono garantiti da contratti nazionali e sono quasi senza tutele.
Soprattutto, avendo una data scritta sul contratto, gli ormai milioni di lavoratori precari non sanno neanche cos’è, l’articolo 18.
Stiamo parlando del 90 per cento di chi comincia oggi un lavoro: ormai solo un giovane su dieci inizia una professione o un mestiere con un contratto a tempo indeterminato.
Gli altri nove entrano con contratti a termine, interinali, co.co.pro, eccetera.
Fuori dal perimetro dello Statuto dei lavoratori.
E, molto spesso, dall’ombrello dei sindacati.
Anni fa al «contratto unico di ingresso», in breve Cui, se n’è affiancato uno analogo del giuslavorista e senatore Pd Pietro Ichino che ne riprende l’idea di fondo ma differisce su alcuni punti.
Nella versione Boeri-Garibaldi è un contratto a tempo indeterminato e la difesa dal licenziamento senza giusta causa è prevista dal primo giorno.
Solo che per i primi tre anni «il licenziamento può avvenire solo dietro compensazione monetaria», (un’indennità pari a 5 giorni di retribuzione per ogni mese di anzianità ), insomma viene sospeso l’obbligo di reintegro previsto dall’articolo 18.
Diventa una sorta di lungo apprendistato durante il quale anche il datore di lavoro può capire se il dipendente corrisponde alle sue aspettative.
Allo scadere dei tre anni vengono riconosciute tutte le tutele del tempo indeterminato.
Il ricorso a forme di contratti flessibili viene scoraggiato con delle restrizioni. Infine, dettaglio rilevantissimo, il Cui non sostituisce gli attuali contratti nazionali, ma garantisce in più tutele minime a chi non ce l’ha – cosa che quelli flessibili oggi non fanno.
A partire da un salario minimo.
Nella testa di Boeri e Garibaldi, il contratto unico dovrebbe essere affiancato da una seria riforma degli ammortizzatori che garantisca un sussidio di disoccupazione a tutti.
Ma costa circa 15 miliardi di euro ed è difficile che veda la luce nel prossimo anno e mezzo.
Anche nella proposta di Ichino non c’è una data sul contratto ma viene introdotto il licenziamento «per motivi economici e organizzativi» e non ci sono i tre anni di prova. L’articolo 18 viene depotenziato.
Ma dal 20esimo anno di anzianità «l’onere della prova circa il giustificato motivo economico tecnico o organizzativo è a carico del datore di lavoro».
Per chi perde il lavoro viene introdotto un sistema che ricalca a quello danese della «flessicurezza».
Il datore di lavoro si impegna a ricollocare il lavoratore attraverso la riqualificazione professionale.
Tonia Mastrobuoni
(da “La Stampa“)
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