SONDAGGI ELEZIONI GERMANIA: CDU IN TESTA E CON TANTA VOGLIA DI AUSTERITY
NEL PROGRAMMA SANZIONI ECONOMICHE E RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI PER PAESI COME L’ITALIA
“Occorre ripristinare rapidamente le regole fiscali del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact e svilupparle ulteriormente senza indebolirle”. Non solo: “Vogliamo sviluppare ancora il Mes. Per far fronte a Paesi colpiti da una crisi economica e/o finanziaria, abbiamo bisogno di processi ordinati fino alla procedura di insolvenza per gli Stati”.
Ancora: “Il Next Generation Eu è una tantum e temporaneo, non ci sarà mai una unione dei debiti in Europa”.
Il programma elettorale della Cdu-Csu è un concentrato di tutti quei princìpi comunemente ricondotti sotto la denominazione di austerità fiscale che molti in Europa, forse con troppa fretta, pensavano di essersi lasciati alle spalle per sempre, anche dopo la pandemia. Non è così.
Martedì il partito della cancelliera oggi guidato da Armin Laschet ha aperto ufficialmente la sua campagna per le elezioni del Bundestag. Il testo del suo programma elenca temi classici del partito come la sicurezza e la stabilità economica, uniti a impegni politici più moderni e attuali, come la lotta al cambiamento climatico presentata come una grande opportunità per l’economia e per il lavoro.
Ma è sul fronte dei rapporti con l’Unione Europea che il partito favorito alle urne del 26 settembre sembra invece ripiombato nel passato, con slogan e affermazioni di principio che ricordano il rigido orientamento dei falchi tedeschi ai tempi della crisi del debito della Grecia.
Si parla apertamente di ristrutturazione dei debiti per i Paesi più gravati come quelli del Sud Europa, di un rapido ritorno al consolidamento fiscale da parte di tutti gli Stati Ue, di netto rifiuto verso qualsiasi logica di condivisione dei rischi, di sanzioni certe per chi non rispetta le regole. Un messaggio chiaro: appena sarà passata l’emergenza Covid – e a detta dei tedeschi avverrà presto – ci sarà il ritorno all’austerità e non sarà un pranzo di gala.
Dopo un avvio di campagna elettorale controverso, ora i sondaggi danno l’Unione Cdu-Csu costantemente in testa col 30% dei consensi mentre segnano un graduale calo dei suoi avversari più temuti, i Verdi guidati da Annalena Baerbock al 19%.
Uno scarto di ben undici punti, eppure appena un mese fa alcune rilevazioni avevano indicato un clamoroso sorpasso della formazione ambientalista, sull’onda della candidatura di Baerbock, adesso in declino.
La leader ambientalista è stata travolta dalle polemiche a causa di presunti plagi che sarebbero contenuti in un suo libro e dalle critiche per la mancata segnalazione di alcuni introiti extra agli uffici amministrativi del Bundestag.
I Verdi sembrano aver dissipato in poche settimane quel prestigio elettorale che aveva fatto pensare a un possibile stravolgimento del collaudato assetto politico, caratterizzato da anni di alleanza di Governo tra l’Unione e i socialdemocratici dell’Spd, una volta uscita di scena la cancelliera Angela Merkel dopo 16 anni di potere.
Allo stato attuale resta ancora improbabile che le trattative politiche per formare la futura maggioranza al Bundestag possano escludere i Verdi.
Ma molto del potere contrattuale del partito ambientalista dipenderà dall’evoluzione della campagna elettorale, oggi caratterizzata da toni politici e mediatici molto accesi, soprattutto nei confronti della leader Baerbock.
Da giorni il tabloid Bild l’attacca a tutto spiano con una serie di articoli sui presunti plagi, lo Spiegel ha scritto di “chiodi sulla bara della candidatura alla cancelleria”, mentre il quotidiano Die Tageszeitung ne ha chiesto a chiare lettere un passo indietro: “Annalena, è finita!”, ha scritto il giornale di sinistra, affermando che la quarantenne è stata vittima delle sue stesse ambizioni. E la Zeit parla di partito “nel panico”.
Il clima in Germania è così incandescente da aver indotto il presidente della Repubblica Federale a esprimere la preoccupazione che queste elezioni possano trasformarsi in “una lotta nel fango”.
Nel corso di un’intervista rilasciata all’emittente televisiva “Zdf”, Frank-Walter Steinmeier ha invitato i partiti ad applicare “misure e ragione” nella competizione. Il ministro delle Finanze Olaf Scholz e candidato alla cancelleria per i socialdemocratici – dati al 15%, quattro punti in meno rispetto ai Verdi nei sondaggi – ha difeso la sua avversaria, affermando che nel modo in cui viene trattata diverse cose non sono né giuste, né corrette”. Anche il ministro dell’Interno conservatore Horst Seehofer ha espresso vicinanza a Bearbock.
Il declino dei Verdi fotografato dai sondaggi non è una buona notizia per i Paesi del Sud Europa e per l’Italia in particolare. Come nota su twitter l’economista ed ex consigliere di Emmanuel Macron, Shahin Vallée, “i Verdi potrebbero essere abbastanza deboli da rendere necessaria una coalizione a semaforo e dare al partito liberale Fdp un’influenza smisurata sull’accordo di coalizione”.
Il “semaforo” attualmente appare poco probabile ma in vista del voto i liberali hanno già posto un veto su un ministro delle Finanze dei Verdi.
Da quando si sono affermati sulla scena politica, d’altronde, i Grünen hanno espresso posizioni in ambito economico diametralmente opposte a quelle conservatrici e liberali sia a livello nazionale che europeo.
In patria, vogliono riformare il freno all’indebitamento che vige per le casse pubbliche federali e inserito in Costituzione, introducendo una golden rule per la spesa in investimenti. In generale, contestano apertamente l’ossessione dei Conservatori per una politica fiscale rigida e contraria a priori verso ogni idea di indebitamento, causa secondo gli ambientalisti di anni di sottofinanziamento di infrastrutture e ricerca. E in Europa sono promotori di una riforma profonda delle norme che spazzi via alcuni totem, considerati ormai dal mondo accademico vetusti e superati dall’esperienza, come il tetto al debito e alla spesa in deficit.
È l’esatto contrario di quanto scrivono i conservatori nel loro programma. Nel capitolo dedicato all’Europa si legge infatti l’intenzione di “voler ripristinare rapidamente le regole del Patto di stabilità e crescita e del Fiscal Compact dopo la pandemia del Covid e svilupparle ulteriormente senza indebolirle. Vogliamo limitare il margine di discrezionalità nella procedura per i disavanzi eccessivi e rafforzare il principio di condizionalità. Le violazioni dei criteri di stabilità devono essere sanzionate in modo coerente”.
I Trattati europei, d’altronde, “parlano chiaro: ogni Stato membro è responsabile dei propri debiti. Continuiamo a rifiutare l’idea di mettere in comune i debiti o i rischi degli Stati membri. Perché vogliamo una vera unione di stabilità e non un’unione di debiti e oneri”.
Secondo i Conservatori, le raccomandazioni specifiche per Paese, che per l’Italia prevedono tra le altre cose aggiustamenti strutturali annuali – cioè tagli di spesa e/o aumenti delle entrate – “dovrebbero riguardare settori chiave, in particolare le riforme strutturali e il consolidamento fiscale”.
Ancora: nel passaggio dedicato al Meccanismo Europeo di Stabilità, il fondo Salva-Stati che interviene in caso di crisi finanziarie con aiuti in cambio di pesanti condizionalità macroeconomiche, si legge che per affrontare le crisi degli Stati membri “abbiamo bisogno di procedure ordinate fino alla procedura di insolvenza per gli Stati”. Tradotto: il default del debito pubblico. È proprio quanto prescrive la riforma del Mes, al momento approvata a livello politico dai Paesi dell’area euro e ormai entrata nella sua ultima fase, con l’avvio dei procedimenti di ratifica da parte dei Parlamenti nazionali. La riforma interviene nell’ampliare i poteri del Fondo di diritto lussemburghese guidato dall’economista tedesco Klaus Regling quando un Paese entra in crisi, anche nella valutazione della sostenibilità del suo debito, e rende più semplici e rapidi le decisioni in materia di ristrutturazione attraverso una modifica delle Clausole di azione collettiva (le cosiddette Cacs a maggioranza unica).
Quando si parla di debito, l’Italia è osservata speciale.
Secondo la Commissione Europea, il debito pubblico italiano continuerà a salire nel 2021 “a causa del protrarsi del sostegno pubblico” all’economia, toccando la quota monstre del 160% del Pil.
Ad aprile ha segnato il nuovo record a 2.680,5 miliardi di euro registrando un aumento di 29,3 miliardi rispetto al mese di marzo. ”È molto probabile che, per diverse ragioni, questa fase di crescita del debito, pubblico e privato, non sia ancora terminata”, ha detto qualche giorno fa il premier Mario Draghi. “Dobbiamo fronteggiare l’emergere di nuove e pericolose varianti del virus. Rimaniamo pronti a intervenire con convinzione nel caso ci fosse un aggravarsi della pandemia tale da provocare danni all’economia del Paese”.
Attualmente le rigide norme fiscali sono sospese a causa dell’emergenza Covid e c’è un accordo politico in Europa sul fatto che non verranno riattivate prima della fine del 2022. Dopo, però, c’è il buio.
Per i rigidi Paesi del Nord Europa che sembrano aver ritrovato in Berlino la loro guida, non c’è spazio per modifiche che le rendano più morbide, mentre per quelli del Sud, rappresentati da Parigi e indirettamente supportati nell’esecutivo Ue dal Commissario agli affari economici Paolo Gentiloni, c’è da intervenire con l’accetta sull’impianto normativo per evitare che gli errori del passato commessi in Grecia possano ripetersi: “Dobbiamo essere cauti sulla politica fiscale e riformare le regole”, ha ripetuto Gentiloni nel suo intervento al Brussels Economic Forum pochi giorni fa. “Non sarà facile perché dobbiamo costruire un consenso ma ci servono regole comuni utili alla nostra transizione. Dobbiamo lavorare a questo per evitare altre crisi”.
Un primo segnale arriverà dalla Banca Centrale Europea. I falchi dell’Eurotower, capeggiati dal governatore tedesco Jens Weidmann, quello austriaco Robert Holzmann e quello olandese Klaas Knot, spingono affinché il programma pandemico di acquisto titoli da 1850 miliardi lanciato a marzo 2020 da Christine Lagarde dopo l’avvento del Covid scada a marzo 2022 per non essere più prorogato. In assenza di altri aiuti da Bruxelles per tutta la durata della pandemia (i primi soldi del Recovery Fund sono attesi solo nelle prossime settimane), solo il soccorso monetario del Pepp ha evitato che la crisi economica del Covid sfociasse in una nuova crisi finanziaria, con spread fuori controllo e attacchi speculativi sui titoli di stato dei Paesi più a rischio. Un ruolo “interventista” della Bce che i falchi tedeschi non hanno mai digerito. Non a caso nel programma della Cdu c’è un richiamo al rispetto del ruolo statuario dell’Eurotower e il netto rifiuto di ogni forma di finanziamento statale.
Il dibattito su come cambiare il Patto di Stabilità entrerà nel vivo nelle prossime settimane con la proposta di riforma della Commissione attesa alla fine dell’anno, ma già in questi giorni se ne inizierà a discutere al Parlamento Ue. I Popolari, primo gruppo dell’Eurocamera, spingono per una modifica delle regole che le renda più comprensibili e meno flessibili: “Il Patto di stabilità si regge su esenzioni e persino chi mastica bene i numeri fatica a capirne le procedure. Dobbiamo arrivare a un quadro più semplice e comprensibile, con regole chiare e meno esenzioni”, ha dichiarato il tedesco Markus Ferber, portavoce del gruppo Ppe nella Commissione per i problemi economici e monetari.
“A livello europeo dobbiamo ragionare su come permettere a tutti gli stati membri di emettere debito sicuro per stabilizzare le economie in caso di recessione. La discussione sulla riforma del patto di stabilità, per ora sospeso fino alla fine del 2022, è l’occasione ideale per farlo”, ha detto di recente il premier Draghi, consapevole che le attuali norme del Psc, unite alle condizionalità introdotte con il Recovery Fund, rischiano di tramutarsi nel giro di un paio d’anni in una ipoteca sul debito pubblico italiano e una zavorra sui progetti di crescita economica. Ma dovrà superare le resistenze del Nord Europa e non sarà un compito semplice. All’Eurosummit di giugno, il premier dei Paesi Bassi Mark Rutte ha detto alla Commissione Europea di aspettarsi una proposta “forte”, e che “la stabilità delle finanze pubbliche sarà molto importante perché in questo momento abbiamo un debito elevato rispetto al Pil”. Il Patto ”è lì per garantire e assicurare che l’euro sia sostenuto da forti politiche fiscali e da una forte disciplina fiscale”, ha aggiunto Rutte, e per questo “incoraggiamo la Commissione a presentare proposte” che vadano in questa direzione.
Prima dell’Eurogruppo di metà giugno era stata l’Austria a mettere in guardia la Commissione: l’Ue non deve diventare “un’unione del debito: Paesi come l’Italia e la Francia vorrebbero abolire i parametri di Maastricht, ma questo è allarmante sia da un punto di vista economico che morale”, ha avvertito il ministro delle Finanze Gernot Blumel. Vienna nelle scorse settimane ha avviato colloqui con altri Paesi per cercare sponde nella ferma opposizione all’allentamento delle rigide norme. Un dibattito già diventato incandescente, ma la Commissione Europea al momento si limita a professare calma e gesso: ”È normale che gli Stati membri comincino le discussioni ed è importante trovare un consenso tra Stati, su dove vogliamo andare con le regole, e come questo si rifletta sia sulla necessità di sostenere la ripresa che su quella di assicurare la sostenibilità dei conti”, ha dichiarato il vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis. È chiaro quindi che, presto o tardi, il problema di come modificare le regole fiscali che in passato hanno penalizzato gli Stati meridionali, con cavilli e parametri difficilmente osservabili (ad esempio l’output gap) si porrà. E allora saranno dolori.
(da Huffingtonpost)
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