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“SONO UN TRAFFICANTE DI UOMINI, I PROFUGHI SONO LA MIA MERCE”: LA TESTIMONIANZA DI UNO SCAFISTA RIVELA LA COLLUSIONE CON LA GUARDIA COSTIERA LIBICA CHE L’ITALIA FINANZIA

“GLI ACCORDI CON L’EUROPA PER FERMARE I NIOSTRI BARCONI? QUI TUTTO E’ RIMASTO COME PRIMA E IO STO DIVENTANDO RICCO”

“La metà  della gente qui vive di questo business, non è cambiato niente». Ibrahim ha trentadue anni, è laureato in ingegneria civile e vive a Garabulli, città  costiera sessanta chilometri a est di Tripoli. È alto, snello, ha il volto sbarbato.
Indossa una felpa alla moda, le scarpe firmate, ci tiene a mostrare l’ultimo modello di tablet che ha in macchina. Ostenta le sue possibilità  economiche. Vuole comprare una casa in Tunisia, dice. E una anche in Turchia.
Ibrahim è ricco. Ibrahim è un trafficante di uomini. «Ho iniziato solo per soldi. Questa è la sola ragione. All’inizio svolgevo le mansioni minori, procuravo i motori per i gommoni oppure trasportavo i migranti dalle campagne alle spiagge di notte e il capo mi pagava. Poi ho capito tutti i meccanismi e ho creato il mio giro. Ci sono dalle cinque alle dieci persone che lavorano per me, dipende dal flusso di gente che parte, dalle condizioni del mare. Da tante cose».
Ibrahim parla seduto a terra, all’interno di una costruzione di cemento nella campagna di Garabulli. Ce ne sono decine così. «Le più piccole servono per chi è del giro, per chi deve organizzare le partenze, le più grandi – i capannoni – servono per tenere i migranti prima del viaggio». Nella sua stanza ci sono dei cuscini, un televisore, una tanica d’acqua mezza vuota. Ibrahim spiega che è qui che aspetta i suoi ragazzi di notte quando arrivano per trasportare i migranti dal capannone di fronte a noi alle spiagge. Il capannone ha le grate alle finestre. I lucchetti alla porta.
«In questa parte della Libia non ci sono stati cambiamenti, degli accordi con l’Europa abbiamo solo sentito parlare ma gli effetti qui non sono arrivati, per fortuna. Continuano ad arrivare uomini e donne dal Sud, si fermano a Beni Walid, i ragazzi da Beni Walid li trasportano qui e tutto prosegue come sempre. I capannoni di Garabulli sono pieni oggi come lo erano due mesi fa».
Ibrahim ha il suo listino prezzi, come tutti.
Un “biglietto” per la traversata organizzata da lui costa «almeno cinquecento dollari». Poi – precisa – «il prezzo aumenta se vuoi scegliere il posto più sicuro sui barconi di legno. Il posto sul gommone invece è uguale per tutti, e si riempiono finchè si può, ottanta, cento persone. Quando il mare è piatto anche centoventi».
I gommoni costano ai trafficanti circa 20 mila dinari libici, che al cambio attuale del mercato nero (un euro vale undici dinari) corrisponde a circa 2 mila euro. Senza motore. I motori si “procurano”, al porto o dai pescatori.
Spesso sotto gli occhi inermi della guardia costiera di zona.
Dalle coste di Garabulli dieci giorni fa è partito un barcone, sovraffollato. È affondato a poche miglia dalla costa, centoquaranta persone sono state portate indietro dalla guardia costiera arrivata ore dopo da Tripoli, i corpi di quelli che non ce l’hanno fatta – almeno trenta – sono stati chiusi in buste bianche e trasportati nella capitale. Trenta buste senza nome. Trenta morti senza identità . «È un rischio, certo, a volte vengono catturati, a volte annegano, ma ne sono consapevoli. Io organizzo solo i gommoni, non ho altre responsabilità ».
Ibrahim ci conduce con un 4×4 verso le spiagge delle partenze, attraversa le dune seguendo sentieri già  tracciati da centinaia di viaggi sempre uguali, dai capannoni al mare «di notte li portiamo qui e li lasciamo ad aspettare nel bosco mentre prepariamo i gommoni» dice, indicando alberi e cespugli. I sentieri portano alle anse vicino al grande faro di Garabulli.
Dalla destra del faro partono i migranti, sulla sabbia ci sono resti di scarpe, ciabatte, borse. Le ultime cose lasciate prima di partire o quelle arrivate sulla sabbia dopo l’ultimo naufragio. Alla sinistra del faro c’è la sede della guardia costiera di zona. Che però non ha mezzi. Nemmeno un gommone per controllare le coste.
L’unico che c’era giace, distrutto, nel cortile antistante. Dalle spiagge da cui partono i gommoni si vede la piccola sede della guardia costiera. Alle spalle dell’edificio sono sepolti decine di corpi di chi non ce l’ha fatta. «Hanno fatto una buca con una ruspa e li hanno buttati lì dentro, non sapevano dove metterli», dice Ibrahim, senza emozione. Non una targa, non un nome. Nulla a indicare che quel tratto di terra ospiti i corpi di uomini, donne e bambini morti in mare
Intorno alla sede della guardia costiera si muovono tutte le jeep dei trafficanti, senza targhe, Ibrahim le indica una per una.
Sa a quali gruppi appartengano, sa chi sta organizzando i prossimi viaggi. Uno degli autisti di Ibrahim ha ventinove anni, una moglie e due figli piccoli.
Fino a un anno e mezzo fa era un insegnante, lavorava a Tajoura, sobborgo della capitale. Poi il governo ha cominciato a non pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici, il contante è diventato merce rara e il giovane, Khaled, non potendo lasciare il paese, ha deciso di accettare la proposta di Ibrahim: 300 dinari libici per ogni viaggio da Beni Walid a Garabulli. Tre, quattro migranti a viaggio. Così Khaled, giovane insegnante di matematica senza stipendio e senza prospettive, è diventato parte dell’unico ingranaggio che in Libia continua a garantire un flusso ininterrotto di denaro contante: il traffico di uomini.
«I ragazzi mi costano poco», spiega Ibrahim, «e ce ne sono tanti che mi chiedono di lavorare. Qui in Libia non c’è lavoro, non ci sono progetti, non ci sono investimenti, i giovani come me non sanno cosa fare, organizzare i viaggi degli africani è la cosa più semplice». Li chiama “africani” Ibrahim, i migranti per cui organizza i gommoni, come se lui e quei coetanei in fuga da fame e da guerre, quei coetanei con la pelle di un altro colore appartenessero a due continenti diversi.
Per i migranti in fuga la Libia oggi è un inferno eppure il paese nordafricano per decenni ha rappresentato la meta di un’altra migrazione, quella lavorativa.
Prima del 2011 i migranti impiegati ufficialmente nell’economia libica, ricca e in espansione, erano quasi un milione su una popolazione complessiva di poco più di sei milioni. Secondo Foreign Policy se a quella cifra si uniscono quelli privi di documenti, i migranti lavoratori in Libia prima della rivoluzione del 2011 raggiungevano i due milioni e mezzo, cioè un terzo degli abitanti del paese
Oggi sulle cifre dei migranti presenti in Libia è difficile fare chiarezza. Il presidente della Commissione africana, il ciadiano Mahamat Moussa Faki, al termine del vertice tra Unione africana e Ue ad Abijan la settimana scorsa, ha dichiarato che nei centri di detenzione libici ci sarebbero tra i 400 mila e i 700 mila migranti.
È proprio sul supporto e la ridefinizione dei centri di detenzione che si giocano parte delle relazioni diplomatiche tra Europa (Italia in particolare) e il governo libico di Fayez al Sarraj. Negli ultimi mesi il dipartimento anti-immigrazione clandestina del Ministero dell’Interno libico ha chiuso alcuni centri di detenzione per aprirne di nuovi, apparentemente più vivibili. In quello di Tajoura, periferia est di Tripoli – che contiene più di mille persone – c’è l’aria condizionata e sono state ridipinte le pareti. Ma le porte restano chiuse da lucchetti, i migranti dormono su materassi buttati a terra e il centro resta comunque una prigione controllata dalle milizie armate. È il problema principale che Sarraj sa di dover affrontare.
A Tajoura comanda la potente milizia del giovane signore della guerra Haytem Tajouri: la milizia è fedele al governo Sarraj ma sarebbe più corretto sostenere che il governo Sarraj è vincolato dalla protezione di questi gruppi che dispongono dello strumento di potere più pericoloso e ricattatorio: le armi. Sono le stesse milizie a poter decidere arbitrariamente se il personale delle organizzazioni locali possa entrare e uscire dai centri di detenzione e in quali centri possano operare volontari e personale medico.
Il centro di detenzione di Gharian, ottanta chilometri a Sud di Tripoli, conterrebbe a oggi più di diecimila persone. La maggior parte delle quali trasportate lì dopo la guerra di Sabratha di inizio settembre che ha portato alla luce decine di centri di detenzione illegali in cui il clan Dabashi nascondeva i migranti in attesa delle partenze con la complicità  di parte della guardia costiera di zona.
Per le organizzazioni locali ottenere l’accesso ai centri è un percorso a ostacoli nella corruzione dilagante degli uffici libici, nelle connivenze tra milizie e istituzioni. «Non sappiamo come fare », dice Ahmed, ventisettenne di Tripoli che lavora per una Ong locale, «dobbiamo entrare nei centri di detenzione per valutare le condizioni in cui vivono i migranti, portare loro dei questionari, fare dei censimenti e tutto questo al momento non ci è possibile. Siamo in attesa dell’autorizzazione del Ministero dell’Interno che però al momento sembra garantire l’accesso solo a organizzazioni amiche».
Ahmed racconta come dopo il servizio della Cnn che ha mostrato un’asta di migranti provocando un’ondata di indignazione in tutto il mondo, il controllo sull’accesso ai centri di detenzione sia diventato capillare al punto che pochi giorni fa al personale locale di Iom è stato impedito l’accesso ai tre centri di Tripoli.
«Ci è impossibile censire la presenza dei migranti», continua Ahmed,«e la nostra sensazione è che negli spostamenti da un centro a un altro si stiano perdendo le tracce di decine di persone, cedute, vendute, rapite. Nessuno può dirlo. Ci sono dei funzionari del ministero dell’Interno che gestiscono parte del business delle partenze a Ovest di Tripoli. È loro interesse non perdere controllo sulla “merce”». I migranti che vivono in Libia nelle baraccopoli nascoste nelle periferie delle città  sono migliaia, vivono in stanze di cemento, dormono in cinque, dieci in una stanza, non escono mai se non per lavorare. Sfruttati dai libici.
John ha ventiquattro anni, è arrivato dal Ghana un anno e otto mesi fa. Voleva attraversare il mare e raggiungere l’Europa. È stato catturato dalla guardia costiera libica e da allora è iniziato il suo inferno.
«Sono stato spostato in tre prigioni, diverse. Dopo che mi hanno catturato mi hanno portato in una prigione a Tripoli. Poi una notte è entrato un gruppo di ragazzi armati. Hanno preso me e altre cinquanta persone con la forza e ci hanno portato in un capannone dove siamo rimasti per settimane. Ci picchiavano ogni giorno, non avevamo acqua a sufficienza, nè cibo. Se avessi visto il mio corpo non mi avresti riconosciuto, ero scheletrico. I libici non pensano a noi come delle persone, pensano a noi come a degli oggetti. Non conta la nostra vita, noi neri contiamo solo quando devono venderci o ricattarci. Ora siamo qui e può entrare chiunque, portarci via e chiedere soldi alle nostre famiglie per liberarci. Gli uomini valgono duemila dinari, le donne tremila. Le donne incinte fino a quattromila».
John ha subito violenze finchè la sua famiglia non è riuscita a mandare del denaro alla milizia che lo aveva rapito, 1.500 dollari. Da allora, da quando i suoi familiari hanno pagato il riscatto, vive in una baraccopoli a est di Tripoli.
John avrebbe voluto arrivare in Europa. Oggi invece vorrebbe solo tornare a casa. «Non ho smesso di desiderare una vita migliore per me. Ma la Libia è un inferno, da qui voglio solo scappare ma non so come fare».
Durante il vertice di Abijan il premier Paolo Gentiloni ha espresso soddisfazione per quello che ha definito un «risultato straordinario»: il crollo, in cinque mesi, del numero dei migranti irregolari verso l’Italia e per l’aumento siginificativo dei rimpatri volontari. Eppure in Libia si continua a partire e morire annegati, e molti di quelli che scelgono di tornare a casa lo fanno dopo aver subito mesi di ricatti, abusi e violenze.
Lo fanno perchè dopo aver vissuto in Libia preferiscono tornare ad affrontare la fame da cui scappavano. John si addormenta e si sveglia impaurito ogni giorno. «Ci dobbiamo difendere dalla polizia, dagli Asma boys, dalle guardie delle prigioni. Chiunque può catturarti e venderti. Stare qui è una scommessa, come attraversare il mare. Puoi vivere o morire. Io sono scappato dalla povertà  ma è meglio la povertà  di questo inferno».

(da “l’Espresso”)

This entry was posted on martedì, Dicembre 19th, 2017 at 16:31 and is filed under denuncia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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