TORTURE E LEGGI BAVAGLIO: COSI’ IL KAZAKHSTAN PUNISCE I DISSIDENTI
UN GULAG SENZA GARANZIE: ISOLAMENTO E VIOLENZA NELLE CARCERI, REPRESSIONE DEL DISSENSO FUORI
La terra dei Cosacchi, degli spiriti indipendenti, dei leggendari cavalieri liberi e selvaggi, è in realtà un luogo di abusi e di impunità , grande più dell’Europa occidentale ma molto meno popolato, dove le carceri sono incubi e la repressione ancora quella dei tempi di Stalin, che proprio qui aveva voluto i suoi campi di concentramento per dissidenti.
Il regime di Nursultan Nazarbaev, l’ultimo ad abbandonare riluttante l’Urss in disfacimento, ha garantito una continuità di metodo: le organizzazioni per la difesa dei diritti umani raccontano di un gulag senza garanzie e senza speranze, con violenza e isolamento dentro le prigioni, repressione e paura fuori.
L’unica rottura con il passato è in economia, con il via libera allo sfruttamento dei lavoratori, in nome del capitalismo petrolifero.
Il regime è considerato “tollerante” in tema di religione, e la storia delle deportazioni volute dal “piccolo padre” georgiano ha imposto una tradizione di convivenza fra diverse etnie.
Ma forse nazionalismi e religioni sono considerati sovrastrutture, ciò che conta sono i giacimenti, su cui si svela il pugno di ferro dell’ex leader sovietico, eletto presidente per la terza volta con oltre il 95 per cento dei voti.
Il “caso” più eclatante, lo sciopero degli operai represso brutalmente a Zhanaozen, è rimasto un simbolo dell’incapacità di uscire dalla logica dittatoriale, tanto che le autorità kazake stanno valutando persino se proporre alla popolazione locale un referendum per dimenticare il vecchio nome sporco di sangue e ribattezzare la cittadina Beket-Ata, con il nome di un filosofo Sufi nato da quelle parti.
Era il 2011 quando gli operai del campo di Ozenmunaigas incrociarono le braccia, per sentirsi dire che lo sciopero era illegale e decidere di occupare la piazza del paese.
Nei disordini che seguirono, almeno 15 persone rimasero uccise.
Chi sopravvisse alle pallottole della polizia, finì poi davanti ai giudici, decisi a non ascoltare le denunce di tortura e abusi.
Nè il presidente Nazarbaev ha mai ascoltato il cantante Bavyrjan, che ai fatti di Zhanaozen ha dedicato una canzone: era così critica che il regime ha preferito vietarla.
Ufficialmente la repressione era dovuta al sospetto che lo sciopero degli operai fosse stato strumentalizzato da un vecchio nemico di Nazarbaev, l’oligarca Mukhtar Ablyazov, per cercare di rovesciare il presidente.
Ma nessun riferimento a cospirazioni internazionali può cancellare le denunce di Amnesty International, di Human Rights Watch, della Fondazione Open Dialog, sulla gestione dei processi, sul trattamento dei detenuti, sui limiti alla libertà di stampa e al diritto di espressione.
Alla fine, dietro le sbarre sono finiti 37 fra operai e attivisti, ma nessun agente.
La certezza dell’impunità favorisce poi il trattamento disumano di arrestati e detenuti. E i racconti che filtrano sono raggelanti: l’attivista sindacale Roza Tuletaeva, che organizzava i lavoratori di Zhanaozen, ha rifiutato di fornire durante il processo i dettagli degli abusi sessuali subiti, perchè in aula c’erano i suoi parenti e amici. Pestaggi, esposizione al freddo, minacce, persino soffocamenti provocati da buste di plastica: la lista delle sevizie è lunga.
Ma nemmeno i richiami dell’Onu e quelli dell’Europa hanno smosso qualcosa.
Oltre alle vicende italiane, anche la recente visita del premier britannico David Cameron, che ha posto con linguaggio molto prudente il problema dei diritti umani, ne è la prova: Nazarbaev ha risposto che nessuno stato straniero deve dire cosa fare al Kazakhstan.
In altre parole, finchè il presidente-padrone controlla i rubinetti del petrolio, nessuno potrà impedirgli di fare del suo popolo quello che vuole.
Giampaolo Cadalanu
(da “La Repubblica“)
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