TRENTACINQUE ANNI PER L’UDIENZA… E LA PENSIONE GLI ARRIVA DA MORTO
NEL 1971 CHIESE LA PENSIONE DI GUERRA ALLA CORTE DEI CONTI… LA PRIMA UDIENZA AVVENNE NEL 2006… MA LUI ERA ORMAI MORTO NEL 1978 … ALTRI TEMPI PER SISTEMARE I PORTABORSE… E ORA LO STATO CONDANNATO A PAGARE 28.000 EURO ALLA FIGLIA… MA LA VERGOGNA RIMANE
Nel 1971 chiese la pensione di guerra alla Corte dei Conti: ne aveva sicuramente titolo.
Nato nel 1899, reduce della campagna d’Africa, passato per El Alamein e i durissimi combattimenti in Tunisia contro l’armata anglo-americana.
La sua tempra di combattente era sopravvissuta ai campi di battaglia, ma non è riuscito a vincere all’attesa e ai tempi della giustizia italiana.
L’ex soldato di Gela muore dopo sette anni dalla richiesta di pensione, nel 1978, senza aver saputo mai nulla della sua pratica.
Eh sì, perchè la Giustizia ha fissato la prima udienza per discuterla l’8 novembre del 2006, ben 35 anni dopo la presentazione della richiesta.
E solamente dopo che la figlia, per onorare la memoria del padre, ha riassunto la pratica.
A questo punto il giudizio nel merito si conclude in un giorno, data la semplicità del procedimento, e il tribunale di Palermo rigetta la richiesta di pensione per “carenza documentale”.
La figlia dell’ex combattente non demorde e decide di presentare ricorso alla Corte d’Appello, chiedendo il risarcimento danni per la lunghezza spropositata del processo.
Tre giorni fa l’erede ha vinto la causa e sarà rimborsata: è “l’equa riparazione per la durata non ragionevole del processo”, come previsto dalla legge Pinto del 2001.
Ora quindi il ministero dell’Economia deve alla donna 28mila euro. Altro che quei miseri 170 euro che sarebbero toccati come pensione al padre.
L’ammontare del risarcimento viene stabilito conteggiando ogni anno di processo lumaca di troppo.: mille euro ogni anno trascorso oltre la ragionevole attesa.
Il caso dell’ex soldato di Gela, ovvero la richiesta di una pensione di guerra, secondo quanto stabilito dalla Cassazione a sezioni riunite dovrebbe prevedere un processo lungo tre anni al massimo.
Il procedimento in questione è durato invece 35 anni “molto probabilmente solo perchè i fascicoli sono stati dimenticati, congelati, abbandonati su una scrivania.
Secondo il legale della figlia “i tempi sono sorprendenti, soprattutto perchè si tratta di un processo in cui l’attività è minima: viene depositato il ricorso, si fissa un’udienza e nel giro di un giorno si sentenzia”.
Tempi questi che, se pur utopici, valgono sempre.
Nel caso specifico la richiesta è stata rigettata ” perchè la documentazione presentata era incompleta, mancando alcuni certificati medici e altro”. Del resto sono pratiche che generalmente vengono affrontate senza l’ausilio di un avvocato.
Ma l’infondatezza della richiesta non ha nulla a che vedere coi 35 anni di attesa. La famiglia non è stata risarcita per una sentenza sbagliata, ma per una sentenza che è arrivata troppo tardi.
Quando il soldato, se non fosse passato nel frattempo a miglior vita, avrebbe avuto 107 anni. A questo punto sarebbe opportuno che esistesse nella macchina burocratica della Giustizia italiana, un responsabile ufficiale con tanto di nome e cognome per ogni pratica che viene presentata. Il quale risponde personalmente dell’iter della pratica e, ogni volta che avviene un passaggio, subentri un altro responsabile con relative generalità .
Il giorno che avvenisse un ritardo immotivato si saprebbe chi andare a interpellare e punire. Non che delle pratiche non risponde mai nessuno.
Ogni passaggio deve avvenire nei tempi stabiliti, chi sgarra paga, non deve sempre essere il cittadino a prendersela in saccoccia.
E’ così che si stanano i fannulloni, non sparando nel mucchio. Ci vogliono tiratori scelti, non fucili a salve.
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