Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
PAROLE DURE CONTRO I MAGISTRATI, ATTACCO ALL’OMOSESSUALITA’ DI CROCETTA, NIENTE CODICE ETICO, COC(C)A CON BERLUSCONI: LE POSIZIONI DI MICCICHE’ SONO INCONCILIABILI CON IL MANIFESTO FUTURISTA DI BASTIA UMBRA
Per chi avesse avuto ancora dei dubbi sulla cazzata planetaria di Fini nel decidere di
“sparigliare” i giochi (per perderli meglio) nelle elezioni regionali siciliane che si terranno a ottobre, appoggiando, con Lombardo, il candidato Miccichè, sono arrivate le prime dichiarazioni dello stesso ex braccio destro di Dell’Utri.
Immaginate se a un leghista venisse comunicato che da via Bellerio è arrivato l’ordine di appoggiare un candidato che vuole il centralismo romano, l’immigrazione libera, il lavoro prima agli stranieri e che le tasse se le tenga tutte Roma.
Come minimo straccerebbero la tessera dopo aver proposto che i vertici siano sottoposti a un trattamento sanitario obbligatorio.
In Fli accade e nessuna presa di distanza avviene tra i deputati ormai in libera uscita, si incazza solo una buona fetta dei militanti sopravvissuti, quelli che in due anni hanno dovuto sopportare tutto e l’incontrario di tutto, compreso i Nan e il defenestramento di Angela Napoli, forse troppo anti-‘ngrangheta per rimanere al suo posto.
In 24 ore in Sicilia avviene il miracolo: si passa dalla difesa a oltranza dei magistrati dell’antimafia alla Ingroia da parte di Fabio Granata alle pesanti critiche ad essi rivolte da Miccichè, dalla richiesta di non presentare candidati con indagini a loro carico in corso di Granata al via libera per gli stessi da parte di Miccichè “perchè non bisogna esagerare, uno non è colpevole fino alla condanna definitiva”.
E ancora da una campagna elettorale su contenuti e programmi auspicata da Granata a battute da caserma di Miccichè sulla omosessualità mai nascosta del candidato Pd-Udc Crocetta.
Le battaglie della Perina e di Raisi contro l’omofobia cancellate in un attimo da un “aspirante” (nel senso che aspira) macho siculo”.
Ma Fini non aveva detto che l’operazione in Sicilia era per far perdere i berlusconiani?
Eccolo servito, Miccichè dichiara che ha sentito il Cavaliere (che gode sempre, ricambiato, della sua stima) e che cercherà di convincerlo a chiedere ai siciliani di votare per lui, in nome dei vecchi e recenti trascorsi forzisti e pidiellini.
Insomma Pdl come il Milan, con una squadra A (quelli di Alfano, Musumeci e gli ex An) e una B (con Miccichè, DellUtri e la vecchia guardia berlusconiana sull’isola).
Passata la commemorazione di Borsellino, insomma, la classe dirigente di Fli puo’ anche allearsi con chi è stato accusato di concorso esterno ad associazione mafiosa e chi di farsi portare cocaina in Parlamento.
Fini ha “consigliato” questa linea e ciò permetterà a qualche deputato siciliano, alle prossime politiche, grazie a questa intesa do ut des, di mantenere la propria poltrona.
Dimenticavo: la giustificazione che fanno intendere è che per far perdere Musumeci bisognava “sparigliare”, che Miccichè è sotto controllo e che se vincesse Crocetta poi ci sarebbe un accordo con lui.
Insomma per far vincere un candidato non si sta con lui, si sta con personaggi dubbi e contro altri ancora, sperando però che vinca il terzo.
Presentarsi da soli? Non sia mai detto che ci si faccia contare e che si rischi di finire sotto il quorum del 5% richiesto.
Alla fine, con un listone unico e il gioco delle preferenze, vedrete Miccichè e Lombardo che mazzo faranno ai candidati di Fli…
In fondo sono stati buttati a mare solo dei principi e dei valori di riferimento, che volete che sia.
Per i creduloni e gli interessati va bene cosi.
In alto i cuori.
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Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
SIAMO FUORI DI TESTA: A RISCHIO L’ECONOMIA DEL TURISMO, LEGITTIME PROTESTE IN PUGLIA
«Apprendo oggi da comunicazione ufficiale che alla vigilia di ferragosto il Ministro
dell’Ambiente ha autorizzato le prospezioni richieste da Petroceltic nei pressi delle isole Tremiti. Riteniamo che si tratti di una offesa alla dignità della nostra Regione e degli altri enti locali che si erano espressi negativamente rispetto alla prospettiva di vedere il nostro mare violentato dalla corsa all’oro nero».
È su tutte furie Lorenzo Nicastro, assessore regionale all’Ambiente, per il via libera alle ricerche di petrolio in mare.
«È una ulteriore conferma – prosegue Nicastro – della sensazione di marginalizzazione della Puglia. Speravamo che questo atteggiamento, in considerazione dell’attenzione e della collaborazione avviate sulla vicenda Taranto, fosse ormai consegnato al passato. Ma evidentemente non è così».
IL NO E’ CORALE
Secondo Nicastro la popolazione pugliese ha già dato parere negativo a tale iniziativa. Anche con manifestazioni e con la consapevolezza che vuole continuare a investire nel turismo e nella sostenibilità .
«La nostra regione – prosegue l’assessore regionale all’Ambiente – la cui economia è fortemente legata al mare, al turismo ed ai prodotti enogastronomici, subisce oggi una minaccia che speravamo scongiurata: nonostante il corale “no” gridato a gran voce lo scorso 21 gennaio a Monopoli da istituzioni e cittadini pugliesi, il rischio di un embargo sulle nostre coste ad opera delle multinazionali del petrolio prende sempre più corpo».
L’INSIDIA CONTINUA
«Ci sono numerose altre richieste di prospezioni geosismiche – conclude Nicastro – che giacciono in attesa di essere autorizzate dal Ministero. Se fino ad ora nutrivamo qualche speranza di ravvedimento nelle scelte di politica energetica nazionale che servisse a scongiurare la corsa al petrolio nel basso Adriatico, adesso abbiamo l’amara certezza che anche le altre richieste di prospezione, verosimilmente, saranno autorizzate. In prospettiva si concretizza uno scenario allarmante per il nostro mare e per la vocazione turistica della nostra regione. Invito i pugliesi tutti, oltre che i rappresentanti delle istituzioni e coloro che siedono in parlamento eletti nella nostra regione, ad aiutarci a sostenere questa battaglia».
(da “il Corriere del Mezzogiorno“)
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Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
LA RABBIA DEI MINATORI BARRICATI DA CINQUE GIORNI: “DEVONO CAPIRE CHE LE NOSTRE FAMIGLIE NON VIVONO D’ARIA”
Questa gabbia di ferro impolverata, che ondeggia e scivola lenta, quasi tre minuti per arrivare in fondo ai 373 metri, la chiamano ascensore.
Cigola, si sentono rumori d’acqua, il ronzio dell’aria compressa che aumenta.
La lampada sul casco illumina la faccia di Ivo, 56 anni, uno che da 32 anni vive quaggiù. Ha un sorriso calmo. Anche se è al terzo giorno di occupazione della miniera. Anche se non sa come andrà a finire. Anche se nelle gallerie ci sono 1221 detonatori e 690 chili di Premex 300, esplosivo tre i più potenti.
«Il minatore di per sè è uno tranquillo – dice Ivo Porcu – Per me, per noi, non c’è lavoro più bello di questo».
L’ascensore si ferma con un cigolio e un sobbalzo. Arrivati a quota -373.
La polvere di carbone, la luce ballerina dei caschi gialli, il caldo: «Ventisette gradi, e non è che d’inverno cali di molto».
Sullo sfondo s’intravede un tavolaccio polveroso, le pagine dei quotidiani come tovaglia, le bottiglie d’acqua minerale, un cesto di pesche bianche.
Vestito da minatore c’è anche Mauro Pili, deputato Pdl, qui da tre giorni, con una certa voglia d’inventarsi portavoce della protesta.
Ma c’è, Ivo e gli altri 475 apprezzano. Due Toyota sono pronte a scendere ai -400, dove scavano. Meno di 4 km, ci metteranno un’ora.
Il Nuraghe dei Fichi, un bel nome per un brutto posto.
Che per i minatori di Nuraxi Figus resta bellissimo. E per Stefano Meletti, 48 anni, la metà con addosso questa tuta bianca, gli scarponi, i parastinchi, il casco, la pila, la bombola d’emergenza agganciata al cinturone, bellissimo dovrà restare. È la loro vita. Come dicono da queste parti, e da sempre, «meglio in miniera che con la valigia in mano».
Aspettano venerdi, quando a Roma il Governo farà sapere che intenzioni ha, se questa miniera di Carbosulcis avrà ancora un futuro. «Il nostro limite è il mare – dice Meletti – non ci fosse saremmo ogni giorno a Roma».
Loro, i minatori. E gli operai dell’Alcoa e dell’Allumina di Portovesme. E il Movimento dei Pastori di Felice Floris.
Tutta la Sardegna che lavora e non può più aspettare. Cinquemila, solo in questo fazzoletto della provincia Carbonia-Iglesias.
«Vogliono cancellare i nostri posti di lavoro favorendo le lobby, le mafie dell’energia – dice sulla tovaglia di giornali il sindacalista Meletti – Ci sono politici con la canottiera sponsorizzata dall’Enel, ma nessuno può ipotecare la nostra vita, e siamo in grado di far capire che le nostre famiglie non possono campare d’aria». Ai -373 la tensione spazza via anche la polvere.
«Adesso bisogna mettere la bombola d’emergenza». Efisio aspetta il segnale da Ivo e apre la «portina di ventilazione».
Ecco la galleria, la prima di chissà quante, ne usano per 29 chilometri, ne avrebbero per un totale di 50. Si gira a destra e si risale, «e attenzione a dove si mettono i piedi». È alta 4,90 metri, la galleria.
Sul soffitto due file di cassoni piedi d’acqua: «La polvere di carbone si può incendiare con facilità con il grisou, il gas, e viaggia a 500 metri al secondo. L’acqua serve a spezzare il fuoco, è l’unica salvezza».
Ancora venti metri e accanto ad un telefono d’emergenza rosso e incrostato ecco la «Riservetta».
Un cancello di ferro chiuso da una catena. A sinistra si vede la porta di legno che nasconde il Prenex 300, di fronte quella con i detonatori. «Abbiamo messo i lucchetti per evitare che a qualcuno di noi vengano strane idee», dice Meletti.
E si capisce che lo dice perchè debbono mostrarsi più decisi dui quel che sono, minacciosi anche. «Non ci fosse stato l’esplosivo quanta attenzione avrebbe ricevuto la nostra occupazione della miniera?». Ai -373 non smentiscono la voce che fa il paio con i toni minacciosi: che l’esplosivo non sia tutto nella «Riservetta», e una parte sia stata messa al sicuro in una delle tante galleria.
Efisio si allontana dal cancello di ferro. «Ho passato più ore qua dentro che con la mia famiglia».
Ha 52 anni, è qui da 28. E pure lui, se deve trovare un colpevole, dice che è l’Enel. «Noi produciamo carbone per alimentare la centrale Enel che sta qui accanto, 300 mila tonnellate all’anno. Ma dal 31 dicembre basta, chiuso, non ne vogliono più, forse sarà il nostro ultimo stipendio».
Perchè una tonnellata di carbone cinese costa meno della metà degli 84 euro di Nuraxi Figus. E perchè, spiegano Efisio, Ivo e Stefano, il governo non vuole dare il via libera nè alla privatizzazione nè alle nuove produzioni «ecocompatibili».
Quando la gabbia impolverata riprende i tre minuti di cigolio e torna su, ad aspettare c’è Sandro Mereu con il pick up bianco. «Andiamo a vedere il “Carbonile”».
Un viaggio nel labirinto nero di colline, carbone gresso, carbone lavorato, scarti di carbone.
«Saranno 200 mila tonnellate. Cosa ne facciamo?». 53 anni, a Nuraxi Figus da quando ne aveva 25, Mereu ha la risposta che danno tutti: «Noi possiamo ricavare energia rinnovabile, la particolarità del nostro carbone è che libera anidride carbonica e trattiene metano. Costerebbe 200 milioni contro i 13 miliardi del fotovoltaico. Come mai si vuol sprecare questa risorsa?».
Adesso Mereu inchioda il pick up.
«Ecco – dice – questa è la fotografia della Sardegna». In mezzo alle colline nere di carbone si vede uno spicchio di mare di Portovesme, e nel mezzo due enormi pale a vento di un impianto fotovoltaico.
«Ecco, questo è il casino della Sardegna, fotovoltaico, carbone, e non si capisce più un cavolo di niente!».
Si sente odor di gas, le montagnole di carbone mandano fumo, «lunedì qui c’erano le fiamme», meglio tornare all’ingresso della miniera.
Chiuso, anche ieri, da tre montagnole di carbone e un cartello: «Non fateci perdere la ragione e la ragione di vivere».
La miniera del Nuraghe dei Fichi.
Giovanni Cerruti
(da “La Stampa“)
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Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
AVEVA DENUNCIATO PUBBLICAMENTE L’USO DELL’AUTO BLU DA PARTE DEL POLITICO IRPINO E GLI AVEVA IMPEDITO DI PARCHEGGIARE IN PROSSIMITA’ DELLA SAGRA DELLA PORCHETTA
Chi tocca i fili muore. 
Ma anche chi tocca i De Mita, la dinasty che ha imperato e impera in Irpinia, deve stare molto attento.
La poliziotta municipale di Pratola Serra (Avellino) che nei giorni scorsi ha scritto a Repubblica chiedendo perchè Ciriaco De Mita ha ancora la scorta e quali rischi corre questo “anziano professionista” della politica è finita sotto procedimento disciplinare. Così impara.
La sua colpa? La vigilessa sapeva della scorta perchè aveva osato di impedire il parcheggio dell’autovettura di servizio di De Mita in prossimità della Sagra della Polpetta.
Imperdibile evento al quale l’ex premier si era recato insieme al nipote, il vice presidente della Campania con delega al Turismo, l’Udc Giuseppe De Mita.
E’ tutto nero su bianco in una ‘contestazione di addebito’ che il sindaco Antonio Aufiero ha notificato alla dipendente dei Vigili Urbani Carmelina Pace Parella. L’autrice della lettera a Repubblica.
I toni dell’addebito disciplinare sono di sapore vagamente kafkiano.
Il sindaco asserisce di aver ricevuto una segnalazione “verbale” da colui che si è qualificato come “agente della pubblica sicurezza addetto alla sicurezza dell’onorevole Ciriaco De Mita”.
Secondo quanto riferito (evidentemente senza traccia scritta), all’agente con il divieto di sosta e l’invito a circolare altrove sarebbe stato impedito “di svolgere le proprie mansioni di tutela e sicurezza dello stesso Onorevole non potendo abbandonare l’autovettura di servizio”.
Aufiero poi afferma che la vigilessa avrebbe invece consentito il parcheggio “nel medesimo luogo” negato alla scorta di De Mita al segretario generale dell’Ugl.
Il sindaco infine cita un post pubblicato dalla signora Pace Parrella su facebook: “Minacce da un’agente di scorta di un politico irpino! Considerato dove mi trovo, non fa una piega…”.
La vigile di Pratola Serra è stata convocata per un’audizione difensiva il 30 agosto alle ore 11 presso l’ufficio del sindaco.
La ricostruzione dei fatti peraltro sarebbe leggermente diversa da come appare nella lettera del sindaco.
Ciriaco De Mita, secondo fonti vicine alla difesa della poliziotta municipale, era a bordo dell’auto blu del nipote.
E così la polemica si amplia.
E’ fresca di stampa sul Bollettino ufficiale della Regione Campania (Burc) una legge che abolisce le auto blu in Regione, riservandola solo al governatore Stefano Caldoro. E allora a che titolo il vice presidente Giuseppe De Mita circolava su un’auto di servizio?
E perchè con a bordo lo zio europarlamentare dell’Udc?
Sono le domande che il capogruppo regionale di Idv Eduardo Giordano intende rivolgere al Governatore.
“Sarebbe un comportamento di una gravità estrema — afferma Giordano — nei prossimi giorni presenteremo un’apposita interrogazione al presidente Caldoro per far luce su quanto accaduto e per sapere se la legge “Campania zero” è rispettata da tutti i componente dell’esecutivo.”
Vincenzo Iurillo
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Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
DAL CLUB DI FORZA ITALIA A PIOPPO, GUIDATO DALLA FAMIGLIA PUPELLA AL COMIZIO A MONREALE OMAGGIATO DAI BOSS… LE DICHIARAZIONI DEL COMMERCIALISTA DI TOTO’ RIINA
Alla vicinanza alla sinistra extraparlamentare, nella giovinezza, seguirono gli studi, la conoscenza di Marcello Dell’Utri, l’ingresso in Publitalia, il ruolo di coordinatore di Forza Italia nella Sicilia Occidentale ai tempi della discesa in campo del Cavaliere (annata ’93-’94).
Quella di Gianfranco Miccichè, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega al CIPE, è la storia di uno degli uomini più vicini a Silvio Berlusconi.
E come Berlusconi, col quale ha condiviso solo una fetta del percorso professionale e politico, è stato anch’egli raggiunto dall’accusa di essere vicino alla criminalità organizzata.
PAROLE PESANTI
“Metterò un mafia detector“, dice oggi quando gli chiedono come farà il partito che ha appena fondato a difendersi dalle infiltrazioni della criminalità .
Un rischio da evitare a tutti i costi, proprio perchè contro di lui, sui legami con la mafia, sono state già pronunciate parole pesanti.
Lo ha fatto Lorenzo Rossano, un industriale siciliano interessato alla politica e poi entrato nel mirino della mafia.
Dopo il crollo della DC Rossano aveva sposato le idee di Berlusconi, e fondato insieme al fratello ed an un “notabile della sua zona“, un club di Forza Italia, a Pioppo, vicino Monreale.
PUNTO DI RIFERIMENTO MAFIOSO
A Pioppo, raccontava Rossano, il club di Forza Italia, era guidato dalla famiglia Pupella. L’imprenditore tirava in ballo pure l’onorevole oggi fuoriuscito dal PdL berlusconiano: “I Pupella sono legati ad un personaggio mafioso come Giuseppe Balsamo… Il Coordinatore di Forza Italia Gianfranco Miccichè ha come punto di riferimento a Monreale Geppino Pupella”. “L’onorevole Miccichè aveva preso, con personaggi mafiosi di Brancacio, impegni a favore di un candidato, ottenendone in cambio supporto economico ed elettorale per tutto il partito da lui rappresentato in Sicilia, cioè Forza Italia“.
MOLTO RISPETTO
Che Miccichè fosse un personaggio potente l’imprenditore, uno che si vide negare la candidatura alle provinciali proprio dal coordinatore del partito berlusconiano, non ha dubbi. Rossano diceva di essersi reso conto del livello di inserimento politico-mafioso di Miccichè in occasione di un comizio a Monreale.
“Personaggi che io consideravo molto influenti a Monreale, come Onofrio Greco, Geppino Pupella, Ciccio Mortillaro, Bino Catania, Franco Madonia e lo stesso Mandalari… accolsero Miccichè con grandi onori e molta reverenza“.
Una “reverenza” — che scrivono Leo Sisti e Peter Gomez ne L’Intoccabile – non era stata riservata agli altri più conosciuti personaggi politici della zona come l’onorevole Silvio Liotta e il senatore Michele Fierotti, ovvero gli esponenti forzisti che sarebbero poi stati eletti in quel collegio.
PERSONAGGI IMPORTANTI
Rossano, davanti ai giudici, raccontava delle confidenze fattegli da Pino Mandalari, commercialista di Riina. “E’ stato voluto da personaggi importanti“, gli avrebbe rivelato, intendendo per ” personaggi importanti” “personaggi di spessore mafioso“.
Raccontava, poi, di un suggerimento di un’amica della segreteria politica di Miccichè: “Silvana Tedeschini mi disse che per i miei interessi nel mondo imprenditoriale non mi conveniva mettermi contro Miccichè, portato da personagi di grossissimo spessore politico, e, mi fece capire, anche mafioso. Aggiunse che da lì a poco sarebbe diventato l’uomo politico più potente della Sicilia, mettendosi a mia disposizione per mediare il mio eventuale avvicinamento politico a Miccichè. Non lo feci per orgoglio personale“.
(da “skywalkerboh.blogspot.com“)
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Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
PAROLE DURE SUI PM DI PALERMO, DI PIETRO E BERLUSCONI… PER INGROIA “GLI UNICI RICATTATORI SONO QUELLI CHE PUBBLICANO QUESTE COSE”… LA MACCHINA DEL FANGO IN AZIONE
E alla fine le parole di Napolitano al telefono con Mancino saltano fuori: le pubblica
(o, meglio, pubblica una ricostruzione condita da condizionali sotto il singolare titolo “Ricatto a Napolitano”) Panorama , la stessa testata che rivelò l’esistenza delle due telefonate intercettate dalla Procura di Palermo, nel giorno in cui il presidente della Repubblica finisce sotto botta anche per un presunto intervento sulla Procura di Caltanissetta per promuovere l’applicazione alle indagini sulle stragi di Ilda Boccassini.
Che cosa avrebbe detto Napolitano a Mancino?
Il Presidente della Repubblica avrebbe espresso “forti riserve sull’operato della Procura di Palermo, critiche ad Antonio Di Pietro e parole molto poco benevole nei confronti di Berlusconi”.
Uno scoop clamoroso?
“Il fatto che sia Panorama a pubblicare queste notizie esclude che possano essere uscite dalla Procura di Palermo — dice il procuratore di Palermo Francesco Messineo — dato che comunque escludo a prescindere”.
E visto che, come conferma Messineo, quelle bobine sono chiuse in una cassaforte e ad ascoltarle sono stati in pochissimi, tutti magistrati e solo il funzionario della Dia nella sala ascolto della procura, Panorama è costretto a citare “diverse fonti”, rigorosamente anonime, che hanno confermato come il contenuto delle conversazioni sia stato in qualche modo anticipato sui giornali da tre giornalisti, Ezio Mauro, Marco Travaglio e Adriano Sofri che evidentemente, secondo la singolare ricostruzione di Panorama , ne conoscevano il contenuto, rivelato adesso dal settimanale berlusconiano per porre fine al gioco al massacro dell’ipocrisia.
Lasciando alla valutazione dell’Ordine dei giornalisti, se ne avrà voglia, l’attribuzione a fonti anonime delle parole intercettate del presidente della Repubblica che ci rimanda alle peggiori veline dei servizi degli anni Settanta, apparechiaro che la copertina di Panorama, dopo giorni di ovvi interrogativi e altrettanto normali “ipotesi di scuola”, con il titolo “Ricatto a Napolitano” apre la partita dei veleni.
Nel mirino del settimanale berlusconiano c’è, oltre a Napolitano, anche la questione delle intercettazioni, vero e proprio spauracchio del centro destra, che oggi è pronto a cavalcarlo nella difesa (finta) di Napolitano.
Per comprendere bene l’operazione è necessaria una breve esegesi del pezzo di Panorama scritto da Giovanni Fasanella, che racconta, esordisce, “una grande ipocrisia”: quella di commentatori su fronti contrapposti che “lanciano messaggi trasversali a Napolitano”, essendo consapevoli del contenuto delle conversazioni. L’autore fa tre nomi, Ezio Mauro, Marco Travaglio e Adriano Sofri che si sono limitati a ipotizzare ciò che potevano aver detto i due interlocutori istituzionali. Secondo Fasanella sono tutti in malafede e, con il vezzo siciliano del dire e non dire, come scrive il direttore Giorgio Mulè, tengono sulla corda Napolitano.
Arriva Panorama e svela l’arcano: “Basta giochetti. Le ipocrisie e le allusioni fanno solo il gioco dei ricattatori” scrive Mulè.
Peccato che fin qui l’unico ad ipotizzare un ricatto e a titolare conseguentemente sia proprio Panorama , a meno di non voler ipotizzare una complicità di Mauro, Travaglio e Sofri nel Grande Ricatto al Quirinale.
Questa è solo la prima parte del pezzo: nella seconda Fasanella ipotizza che le telefonate intercettate tra Mancino e Napolitano possano essere più delle due conosciute, che il loro contenuto travisato porrebbe le parole di Napolitano, “con i filtri dell’aplomb istituzionale azzerati per via dell’antica amicizia” fuor i contesto, arroventando ancora di più il clima “con effetti destabilizzanti”.
Un pistolotto contro l’uso politico delle intercettazioni che svela il vero obbiettivo del pezzo che conclude, così com’era iniziato, disegnando scenari ipotizzabili in un prossimo futuro, quando la corte costituzionale, al più tardi tra febbraio e marzo 2013 sarà chiamata a valutare il conflitto di attribuzione quando Napolitano avrà ormai lasciato il Quirinale al suo successore.
Ma se tra scenari ipotizzabili e fonti ben informate ma anonime i fatti stanno, come si vede, a zero, quegli imprudenti giudizi attribuiti a Napolitano e trasformati in un anonimo karaoke servono paradossalmente ad avvelenare ancora di più il clima nei confronti del presidente della Repubblica, e suonano come un efficace avvertimento all’intero Parlamento chiamato ad affrontare ancora una volta la spinosa questione delle intercettazioni.
C’è da registrare, infine, una singolare, questa sì, coincidenza: nella stessa giornata del titolo di copertina di Panorama, “Ricatto a Napolitano”, il quotidiano web Lettera 43 pubblica in esclusiva la notizia di un intervento di Napolitano compiuto tre anni fa sui pm di Caltanissetta che indagano sulle stragi del ’92 per promuovere l’applicazione del pm milanese Ilda Boccassini. Un’altra, discutibile, ingerenza del presidente della Repubblica sul lavoro dei magistrati che cercano la verità sulle stragi, smentita, però, dal procuratore aggiunto Nico Gozzo che ha diffuso una nota: “Nessun intervento vi è mai stato da parte del Presidente sulle indagini della Procura di Caltanissetta. Nessuna telefonata. Unico intervento fu, proprio all’inizio delle indagini, un pubblico intervento nel corso delle commemorazioni per l’anniversario della strage di Capaci, quando il Presidente Napolitano perorò un incremento delle unità investigative impiegate per le indagini sulle stragi, proprio sul presupposto della loro importanza. Incremento poi effettivamente avvenuto’”.
Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
L’INTERVISTA ALL’EX AMBASCIATORE AMERICANO IN ITALIA REGINALD BARTHOLOMEW: “LA VIOLAZIONE DEI DIRITTI DI DIFESA UN PERICOLO PER LA DEMOCRAZIA”… L’ASSE CON D’ALEMA E BERLUSCONI
Il mese scorso ho incontrato a New York l’ex ambasciatore Reginald Bartholomew che, dopo avermi detto di aver visto il mio libro «Governo Ombra», sull’Italia del 1978 descritta dai documenti del Dipartimento di Stato, mi ha chiesto se avevo voglia di parlare con lui dei suoi anni alla guida dell’ambasciata di Roma, cosa che non aveva mai fatto.
«Non ho diari, ho solo la mia mente per ricordare» osservò.
Ci vedemmo a cena da «Felidia» a Manhattan e Bartholomew incominciò subito a raccontarmi di Tangentopoli e del terremoto politico-giudiziario che trovò al suo arrivo in Italia.
Era già molto malato, anche se non ne fece parola, e aveva urgenza di lasciare una testimonianza.
Raccolsi il suo racconto – che lui ha avuto modo di rivedere trascritto- con l’intenzione di usarlo come base per una nuova inchiesta sul rapporto tra Italia e Stati Uniti e sull’approccio americano al team «Mani Pulite».
Da quel momento ho cominciato a cercare i documenti dell’epoca e i protagonisti ancora in vita.
Primo tra tutti l’ex Console generale Usa a Milano Peter Semler, a cui Bartholomew attribuiva un ruolo chiave nell’iniziale sostegno americano all’inchiesta di Antonio Di Pietro.
Quando ho saputo dell’improvvisa morte del 76enne Bartholomew, avvenuta domenica all’ospedale Sloan-Kettering di New York a causa di un tumore, ho pensato che fosse giusto pubblicare quanto finora raccolto.
A cominciare da questa prima puntata che contiene appunto la testimonianza di Bartholomew, un diplomatico raffinato e colto, convinto che il passaggio alla Seconda Repubblica dovesse essere opera di una nuova classe politica – a cui aprì le porte dell’Ambasciata – e non solo opera dei magistrati.
Ecco il suo racconto.
Completo blu, camicia bianca e cravatta rossa, Reginald Bartholomew arriva puntuale all’appuntamento nell’Upper East Side fissato per ricordare il periodo, dal 1993 al 1997, che lo vide guidare l’ambasciata americana a Roma.
«L’Italia politica era in fase di disfacimento, il sistema stava implodendo a causa di Tangentopoli iniziata l’anno precedente ed io mi trovai catapultato dentro tutto questo quasi per caso», esordisce.
In effetti Bartholomew, ex sottosegretario di Stato agli Armamenti, ex ambasciatore a Beirut e a Madrid, era ambasciatore presso la Nato.
«Lo aveva deciso Bush padre prima di lasciare la Casa Bianca, poi quando arrivò Bill Clinton decise di farmi inviato in Bosnia e stava pensando di nominarmi ambasciatore in Israele». Ma in una delle prime riunioni sulla politica estera tenute da Bill Clinton nello Studio Ovale, con solo sette stretti consiglieri presenti, l’Italia spunta nell’agenda. Siamo all’inizio del 1993, Clinton sta incominciando la presidenza, l’Italia appare in decomposizione e «uno dei sette fece il mio nome al presidente», osservando che in una fase di tale delicatezza a Roma sarebbe servito un veterano del Foreign Service.
Clinton assentì, rompendo con la tradizione di mandare in Via Veneto un ambasciatore politico scelto fra i maggiori finanziatori elettorali, e Bartholomew venne così catapultato nell’Italia del precario governo di Giuliano Amato sostenuto dagli esangui Dc, Psi, Psdi e Pli, con Oscar Luigi Scalfaro arrivato al Quirinale sulla scia della strage di Capaci, il Pds di Achille Occhetto in ascesa e Silvio Berlusconi impegnato a progettare la discesa in campo.
«Ma soprattutto quella era la stagione di Mani Pulite – dice Bartholomew -, un pool di magistrati di Milano che nell’intento di combattere la corruzione politica dilagante era andato ben oltre, violando sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia come l’Italia, a cui ogni americano si sente legato».
Indagini giudiziarie, arresti di politici «presero subito il sopravvento sul resto del lavoro, perchè la classe politica si stava sgretolando ponendo rischi per la stabilità di un alleato strategico nel bel mezzo del Mediterraneo», ed è in questa cornice che Bartholomew si accorge che qualcosa nel Consolato a Milano «non quadrava».
Se fino a quel momento il predecessore Peter Secchia aveva consentito al Consolato di Milano di gestire un legame diretto con il pool di Mani Pulite, «d’ora in avanti tutto ciò con me cessò», riportando le decisioni in Via Veneto.
Fra le iniziative che Bartholomew prese ci fu «quella di far venire a Villa Taverna il giudice della Corte Suprema Antonino Scalia, sfruttando una sua visita in Italia, per fargli incontrare sette importanti giudici italiani e spingerli a confrontarsi con la violazione dei diritti di difesa da parte di Mani Pulite».
Bartholomew non fa i nomi dei giudici italiani presenti a quell’incontro nella residenza romana, ma ricorda bene che «nessuno obiettò quando Scalia disse che il comportamento di Mani Pulite con la detenzione preventiva violava i diritti basilari degli imputati», andando contro «i principi cardine del diritto anglosassone».
Pochi mesi più tardi, nel luglio del 1994, il presidente Clinton arriva in Italia per partecipare al summit del G7 che il governo del neopremier Silvio Berlusconi ospita a Napoli. In coincidenza con i lavori, Mani Pulite recapita al presidente del Consiglio un avviso di garanzia e la reazione di Bartholomew è molto aspra.
«Si trattò di un’offesa al presidente degli Stati Uniti, perchè era al vertice e il pool di Mani Pulite aveva deciso di sfruttarlo per aumentare l’impatto della sua iniziativa giudiziaria contro Berlusconi», sottolinea l’ex ambasciatore, aggiungendo: «gliela feci pagare a Mani Pulite».
Nulla da sorprendersi se in tale clima l’ambasciatore Usa all’epoca non ebbe incontri con i giudici del pool, «neanche con Antonio Di Pietro», mentre si dedicò a fondo a tessere i rapporti con le forze politiche emergenti.
«I leader della Dc un giorno mi vennero a trovare, fu un incontro molto triste, sembrava quasi un funerale, era la conferma che bisognava guardare in avanti».
Con il Pds, attraverso Massimo D’Alema, si sviluppò «un rapporto che sarebbe durato nel tempo».
«D’Alema mi chiamò al telefono, gli dissi di venirmi a trovare e lui, dopo una certa sorpresa, accettò – rammenta Bartholomew -; quando lo vidi gli dissi con franchezza che il Muro di Berlino era crollato, quanto avevano fatto e pensato i comunisti in passato non mi interessava, mentre ciò che contava era la futura direzione di marcia, se cioè volevano essere nostri alleati così come noi volevamo continuare a esserlo dell’Italia».
Ne nacque «un rapporto solido, continuato in futuro» con il Pds, «mentre con Romano Prodi fu tutto complicato dal fatto che, quando diventò premier nel 1996 del primo governo di centrosinistra della Repubblica, voleva a tutti i costi andare al più presto da Clinton, ma la Casa Bianca in quel momento aveva un altro calendario, e Prodi se la prese con me».
Per tentare di riconquistare il rapporto personale con il premier «dovetti andare una domenica a Bologna, farmi trovare nel suo ristorante preferito e allora finalmente mi parlò, ci spiegammo».
L’apertura al Pds coincise con quella a Gianfranco Fini, che guidava l’Msi precedente alla svolta di Fiuggi.
«Con entrambi l’approccio fu il medesimo, si trattava di aprire una nuova stagione – dice Bartholomew -, ed ebbi lo stesso approccio, guardando avanti e non indietro, anche se devo ammettere che nei salotti romani il mio dialogo con Fini piaceva assai meno di quello con D’Alema».
L’altro leader che Bartholomew ricorda è Berlusconi.
«La prima volta che ci vedemmo lo aspettavo all’ambasciata da solo, ma si presentò assieme a Gianni Letta, voleva il mio imprimatur per la sua entrata in politica e gli risposi che toccava a lui decidere se essere “King” o “Kingmaker”», ma l’osservazione colse in contropiede Berlusconi, «che diede l’impressione di non sapere cosa significasse “Kingmaker” e dopo essersi consultato con Letta mi rispose “Kingmaker? Noooo”».
Dall’incontro, avvenuto poco prima dell’entrata in politica di Berlusconi nel 1994, Bartholomew trasse comunque l’impressione che si trattava di una candidatura molto seria «e nei mesi seguenti, girando l’Italia, mi accorsi che aveva largo seguito, sebbene personaggi come Eugenio Scalfari, direttore di Repubblica, mi obiettavano che non potevo capire molto di politica italiana essendo arrivato solo da pochi mesi».
A conti fatti, guardando indietro a quella fase storica, Bartholomew rivendica il merito di aver rimesso sui binari della politica il rapporto fra Washington e l’Italia, dirottato dal legame troppo stretto fra il Consolato di Milano e Mani Pulite, identificando in D’Alema e Berlusconi due leader che negli anni seguenti si sarebbero rivelati in più occasioni molto importanti per la tutela degli interessi americani nello scacchiere del Mediterraneo.
Maurizio Molinari
(da “La Stampa“)
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Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
“CI PREOCCUPA L’ONDATA DEI POPULISMI”… FARI PUNTATI SULL’OLANDA CHE VOTERA’ IL 12 SETTEMBRE… MONTI E’ DIVENTATO L’ALLEATO-CARDINE PER LA NUOVA EUROPA
“Siamo molto preoccupati per quello che potrà accadere con le elezioni in Italia”.
Angela Merkel l’ha ripetuto a Mario Monti nella colazione di lavoro al primo piano della bianca “Bundeskanzleramt”, davanti alla porta di Brandeburgo.
Ma per una volta non è il fantasma del ritorno di Berlusconi quello che agita la Cancelliera, a cui piacerebbe comunque una permanenza del Professore a palazzo Chigi.
Al momento sembra abbiano fatto breccia le rassicurazioni che lo stesso premier ha fornito ai tedeschi riguardo al “principio di responsabilità ” che, a suo avviso, avrebbe ormai contagiato irreversibilmente i tre partiti che lo sostengono in Parlamento.
“Sono molto fiducioso sul fatto che c’è una maturazione dei partiti politici”, ha confermato ieri Monti in conferenza stampa, “inoltre ormai ci sono vincoli europei da rispettare per tutti”.
No, la principale preoccupazione che si avverte da Berlino a Bruxelles è quella per la crescita impetuosa dei “populismi” di destra e di sinistra che spuntano in Europa come funghi. In Italia e altrove.
Ne hanno discusso due sere fa a Bruxelles anche Josè Barroso e Mario Monti, dopo che il presidente della Commissione aveva analizzato la questione con vari parlamentari europei.
E Monti ha riportato le sue valutazioni alla Merkel.
Il faro è acceso oggi sull’Olanda, che andrà al voto anticipato proprio il 12 settembre, lo stesso giorno in cui la corte di Karlsruhe farà conoscere il suo verdetto sulla compatibilità del fondo Salva-Stati con la costituzione tedesca.
Si avvicina dunque un giorno fatidico, in cui l’intera costruzione elaborata in questi mesi potrebbe vacillare sotto il maglio dei giudici tedeschi, gelosi della sovranità tedesca, e degli elettori olandesi arrabbiati con l’Europa.
I sondaggi, valutati ieri a Berlino, danno infatti in testa i due principali partiti anti-Ue: i populisti di destra di Geert Wilders e il partito socialista di Emile Roemer, la versione arancione della Syriza greca.
Qualunque sarà il risultato sarà un guaio per il futuro dell’euro.
E la prospettiva in Italia, anche se probabilmente spostata nel tempo, vede comunque una avanzata delle forze che giudicano Bruxelles come una matrigna da cui fuggire, dal Movimento 5 stelle di Grillo fino alla Lega.
Per questo Merkel e Monti hanno valutato che non c’è un minuto da perdere, occorre erigere un cordone difensivo intorno all’euro e al processo di integrazione politica.
E in queste ultime settimane è stato intenso il lavorio diplomatico dietro le quinte portato avanti dal ministro Moavero con il suo collega tedesco Meyer-Landrut, incentrato anche sul rafforzamento del mercato unico.
Un’azione, quella portata avanti dal premier e dal ministro in Germania ed Europa, che ha consentito ieri di incassare comunque la “promozione” dell’Italia da parte della Merkel: l’Italia può farcela da sola.
Nonostante i timori per un futuro politico incerto.
La Cancelliera, come prima cosa, ieri ha messo a tacere i falchi di casa sua con un messaggio molto forte in chiave interna: giù le mani da Draghi, via libera alle “misure non convenzionali” per difendere la moneta unica.
“La Bce prepara le sue decisioni, la Bce è indipendente”, ha scandito durante la conferenza stampa con Monti.
E’ un altolà indiretto al presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, contrario a “drogare” i paesi in difficoltà con l’aiuto della banca centrale.
L’altro fronte su cui accelerare è quello dell’integrazione europea: unione bancaria, supervisione europea dei bilanci nazionali, maggiore potere alla Bce e alla Commissione.
Il commissario Barnier ha lavorato tutto agosto su una bozza di unione bancaria da presentare a metà settembre.
Il progetto prevede la centralizzazione in capo all’Eurotower della sorveglianza sulle banche. Barroso ha anticipato il piano martedì sera a Monti, chiedendogli una mano a convincere la Merkel.
La Germania infatti vorrebbe che la Bce controllasse soltanto i 25 istituti bancari più grandi del Continente, senza arrivare alle potenti casse di risparmio regionali. “Si sono fatti passi avanti su tutto”, riferiscono fonti della delegazione italiana.
L’altra questione su cui si sarebbe trovato un compromesso è quella della revisione dei trattati europei.
Secondo la Merkel è necessario un nuovo trattato per fissare la futura costituzione di quella che sembrerà sempre più simile a una vera federazione.
Monti, anche per formazione, è più pragmatico, conosce bene i rischi legati alla riscrittura dei trattati, sa che in alcuni paesi un referendum potrebbe far saltare tutto. “Ci siamo accordati – riferisce uno sherpa presente a Berlino – che dobbiamo intanto portare a casa la sostanza dell’integrazione e soltanto in un secondo momento preoccuparci della questione di un eventuale nuovo trattato”.
Fare in fretta, perchè la casa brucia.
Anche con la questione più difficile, quella della Grecia, l’intesa tra Monti e Merkel ha il sapore del compromesso dettato dal realismo politico.
“I greci – spiega un diplomatico – non parlano più di proroga di due anni, hanno capito che è controproducente. Intanto facciano anche loro i compiti a casa e poi valuteremo sulla base del rapporto della Troika ai primi di ottobre”.
Si dà insomma per scontato un approccio più soft con Atene, ma senza dirlo.
L’importante è spegnere l’incendio in fretta.
Francesco Bei
(da “La Repubblica“)
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Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
VENNE GIU’ IL DILUVIO, FU UN FLOP, MA GRILLO PRETESE L’INTERA CIFRA… I MILITANTI PER PAGARLO FURONO COSTRETTI AD ACCENDERE UN MUTUO VENTENNALE
C’è voluto un mutuo ventennale, per pagare una serata di Beppe Grillo alla Festa dell’Unità .
Sembra una battuta di Benigni e invece è una storia vera, tra le tante che il leader del Movimento Cinque Stelle preferisce non raccontare.
Poco accorto, il leader del Movimento Cinque Stelle: ha attaccato il collega, pur senza nominarlo, chiedendo polemicamente chi gli ha pagato il cachet per lo spettacolo che ha messo in scena alla Festa Democratica, ora si chiama così, di Reggio Emilia.
Meglio rivangare subito quanto accadde agli inizi degli anni Ottanta a Dicomano, un piccolo paese della provincia di Firenze.
C’era ancora il Pci e si cercava un ospite d’onore importante per la Festa dell’Unità : Roberto Benigni, guarda la combinazione, aveva già riscosso applausi (e cachet) un paio di edizioni prima.
La scelta cade su Beppe Grillo, comico già affermato e per nulla interessato, come oggi, a sapere chi sovvenziona «gli incontri annuali sul futuro della nazione, se il finanziamento pubblico o amici generosi e interessati, tipo Riva per intenderci». All’epoca si limita a chiedere 35 milioni di lire, il costo di un monolocale a Genova. Glieli concedono.
Lui in cambio promette faville, e del resto al servizio dei partiti c’è già stato: in particolare del Pli, campagna elettorale dell’avvocato genovese Gustavo Gamalero. Naturalmente teneva i comizi-show nei salotti, i liberali erano pochini e si ironizzava sul fatto che i congressi si organizzassero al bar: ma questa è un’altra storia.
La storia di Dicomano racconta che la sera dello spettacolo piove a dirotto.
Un nubifragio, siamo a settembre, con tuoni e fulmini e vento a trenta chilometri l’ora. Lo spettacolo è un flop, i biglietti venduti pochissimi.
I compagni cercano di ricontrattare il compenso, ma Grillo ne fa una questione di principio: abbiamo pattuito tot e tot voglio incassare.
Sull’Unità del 21 settembre 2006 ricorderà il dramma il militante Franco Innocenti: «La segreteria della sezione era fatta tutta di giovani. Io avevo ventisei anni ed ero l’unico con una busta paga, perchè ero stato appena assunto come portiere…».
Il papà di Innocenti fa il parrucchiere, la madre è invalida al cento per cento, ma il compagno Franco si sacrifica: va in banca e stipula un mutuo, è l’unico a poterlo fare. Sarà pagato con il contributo di tutta la segreteria, ed estinto esattamente vent’anni dopo.
Se Bersani avesse conosciuto questa storia, e gli sarebbe bastato leggere l’Unità , non sarebbe scivolato su quell’insulto, «fascista del web», che ha tanto arroventato la polemica.
Vero che Grillo aveva cominciato per primo, dandogli del «quasi morto»: ma il segretario del Pd era stato capace di un’analisi brillantissima, spiegando al vate di Sant’Ilario che «noi piccoli uomini siamo tutti quasi morti, e tutti viviamo su quel quasi». Chapeau.
Che bisogno c’era di infierire?
Poi, certo, in soccorso del vincitore (Bersani giocava in casa, a Reggio Emilia) è arrivato Roberto Benigni.
Anche lui un bel tipino, in fatto di soldi, basti pensare che il suo agente è Lucio Presta e la società che ne gestisce i guadagni si chiama Melampo, come il cane tangentaro di Pinocchio.
Per cominciare Benigni ha ricordato a Grillo che non si dice morto ma «diversamente vivo», punzecchiatura.
Poi ha fatto finta di leggere un suo messaggio, che naturalmente mandava «affanculo» tutto il Pd, spiegando che «questo è il suo modo di essere affettuoso».
Infine, e il dettaglio ha scatenato la permalosità del comico & leader, ha buttato lì che «Beppe quando si innervosisce diventa anche volgare».
Grillo pensa di essere spiritosissimo, nel repertorio da caserma.
Così ha sparato a zero sui compensi del collega e rivale, dimenticando la sua performance di qualche anno fa. «Gli artisti invitati sul palco lo fanno per solidarietà con il pdmenoelle», ha tuonato storpiando come sempre la sigla del partito, «oppure dietro ricco cachet?».
Immediata la risposta di Lucio Presta, detto mister dieci per cento: «Noi non prendiamo soldi dai partiti, il compenso deriva dalla vendita dei biglietti e non abbiamo neanche un minimo garantito. Grillo vuole parlare del suo, di cachet? Venga…». Ironia.
E sarcasmo da parte di Lino Paganelli, il responsabile degli eventi pd, che ha precisato come i finanziatori siano «settemila volontari», per poi tirare la stoccata: «Grillo ha calcato i palchi delle feste dell’unità : se qualcosa non gli torna, circa i cachet, può sempre restituirli».
Più seriamente, lo stesso Paganelli ha spiegato il meccanismo delle feste: «La gente viene, ascolta i dibattiti, mangia e compra i gadget. Ci finanziamo così. Gli artisti offrono un evento che viaggia per conto suo, anche con i Subsonica accadrà lo stesso. E comunque, il Pd ha tutti i bilanci pubblicati, mentre non saprei dove controllare quelli del Movimento Cinque Stelle».
La parola a Grillo. Il quale, per restare in tema, chiese pure il condono tombale nel 2002…
Ma anche questa è un’altra storia.
Paolo Crecchi
(da “Il Secolo XIX“)
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