NEL VENTRE DELLA MINIERA: “MEGLIO UN POSTO QUI CHE LA VALIGIA IN MANO”
LA RABBIA DEI MINATORI BARRICATI DA CINQUE GIORNI: “DEVONO CAPIRE CHE LE NOSTRE FAMIGLIE NON VIVONO D’ARIA”
Questa gabbia di ferro impolverata, che ondeggia e scivola lenta, quasi tre minuti per arrivare in fondo ai 373 metri, la chiamano ascensore.
Cigola, si sentono rumori d’acqua, il ronzio dell’aria compressa che aumenta.
La lampada sul casco illumina la faccia di Ivo, 56 anni, uno che da 32 anni vive quaggiù. Ha un sorriso calmo. Anche se è al terzo giorno di occupazione della miniera. Anche se non sa come andrà a finire. Anche se nelle gallerie ci sono 1221 detonatori e 690 chili di Premex 300, esplosivo tre i più potenti.
«Il minatore di per sè è uno tranquillo – dice Ivo Porcu – Per me, per noi, non c’è lavoro più bello di questo».
L’ascensore si ferma con un cigolio e un sobbalzo. Arrivati a quota -373.
La polvere di carbone, la luce ballerina dei caschi gialli, il caldo: «Ventisette gradi, e non è che d’inverno cali di molto».
Sullo sfondo s’intravede un tavolaccio polveroso, le pagine dei quotidiani come tovaglia, le bottiglie d’acqua minerale, un cesto di pesche bianche.
Vestito da minatore c’è anche Mauro Pili, deputato Pdl, qui da tre giorni, con una certa voglia d’inventarsi portavoce della protesta.
Ma c’è, Ivo e gli altri 475 apprezzano. Due Toyota sono pronte a scendere ai -400, dove scavano. Meno di 4 km, ci metteranno un’ora.
Il Nuraghe dei Fichi, un bel nome per un brutto posto.
Che per i minatori di Nuraxi Figus resta bellissimo. E per Stefano Meletti, 48 anni, la metà con addosso questa tuta bianca, gli scarponi, i parastinchi, il casco, la pila, la bombola d’emergenza agganciata al cinturone, bellissimo dovrà restare. È la loro vita. Come dicono da queste parti, e da sempre, «meglio in miniera che con la valigia in mano».
Aspettano venerdi, quando a Roma il Governo farà sapere che intenzioni ha, se questa miniera di Carbosulcis avrà ancora un futuro. «Il nostro limite è il mare – dice Meletti – non ci fosse saremmo ogni giorno a Roma».
Loro, i minatori. E gli operai dell’Alcoa e dell’Allumina di Portovesme. E il Movimento dei Pastori di Felice Floris.
Tutta la Sardegna che lavora e non può più aspettare. Cinquemila, solo in questo fazzoletto della provincia Carbonia-Iglesias.
«Vogliono cancellare i nostri posti di lavoro favorendo le lobby, le mafie dell’energia – dice sulla tovaglia di giornali il sindacalista Meletti – Ci sono politici con la canottiera sponsorizzata dall’Enel, ma nessuno può ipotecare la nostra vita, e siamo in grado di far capire che le nostre famiglie non possono campare d’aria». Ai -373 la tensione spazza via anche la polvere.
«Adesso bisogna mettere la bombola d’emergenza». Efisio aspetta il segnale da Ivo e apre la «portina di ventilazione».
Ecco la galleria, la prima di chissà quante, ne usano per 29 chilometri, ne avrebbero per un totale di 50. Si gira a destra e si risale, «e attenzione a dove si mettono i piedi». È alta 4,90 metri, la galleria.
Sul soffitto due file di cassoni piedi d’acqua: «La polvere di carbone si può incendiare con facilità con il grisou, il gas, e viaggia a 500 metri al secondo. L’acqua serve a spezzare il fuoco, è l’unica salvezza».
Ancora venti metri e accanto ad un telefono d’emergenza rosso e incrostato ecco la «Riservetta».
Un cancello di ferro chiuso da una catena. A sinistra si vede la porta di legno che nasconde il Prenex 300, di fronte quella con i detonatori. «Abbiamo messo i lucchetti per evitare che a qualcuno di noi vengano strane idee», dice Meletti.
E si capisce che lo dice perchè debbono mostrarsi più decisi dui quel che sono, minacciosi anche. «Non ci fosse stato l’esplosivo quanta attenzione avrebbe ricevuto la nostra occupazione della miniera?». Ai -373 non smentiscono la voce che fa il paio con i toni minacciosi: che l’esplosivo non sia tutto nella «Riservetta», e una parte sia stata messa al sicuro in una delle tante galleria.
Efisio si allontana dal cancello di ferro. «Ho passato più ore qua dentro che con la mia famiglia».
Ha 52 anni, è qui da 28. E pure lui, se deve trovare un colpevole, dice che è l’Enel. «Noi produciamo carbone per alimentare la centrale Enel che sta qui accanto, 300 mila tonnellate all’anno. Ma dal 31 dicembre basta, chiuso, non ne vogliono più, forse sarà il nostro ultimo stipendio».
Perchè una tonnellata di carbone cinese costa meno della metà degli 84 euro di Nuraxi Figus. E perchè, spiegano Efisio, Ivo e Stefano, il governo non vuole dare il via libera nè alla privatizzazione nè alle nuove produzioni «ecocompatibili».
Quando la gabbia impolverata riprende i tre minuti di cigolio e torna su, ad aspettare c’è Sandro Mereu con il pick up bianco. «Andiamo a vedere il “Carbonile”».
Un viaggio nel labirinto nero di colline, carbone gresso, carbone lavorato, scarti di carbone.
«Saranno 200 mila tonnellate. Cosa ne facciamo?». 53 anni, a Nuraxi Figus da quando ne aveva 25, Mereu ha la risposta che danno tutti: «Noi possiamo ricavare energia rinnovabile, la particolarità del nostro carbone è che libera anidride carbonica e trattiene metano. Costerebbe 200 milioni contro i 13 miliardi del fotovoltaico. Come mai si vuol sprecare questa risorsa?».
Adesso Mereu inchioda il pick up.
«Ecco – dice – questa è la fotografia della Sardegna». In mezzo alle colline nere di carbone si vede uno spicchio di mare di Portovesme, e nel mezzo due enormi pale a vento di un impianto fotovoltaico.
«Ecco, questo è il casino della Sardegna, fotovoltaico, carbone, e non si capisce più un cavolo di niente!».
Si sente odor di gas, le montagnole di carbone mandano fumo, «lunedì qui c’erano le fiamme», meglio tornare all’ingresso della miniera.
Chiuso, anche ieri, da tre montagnole di carbone e un cartello: «Non fateci perdere la ragione e la ragione di vivere».
La miniera del Nuraghe dei Fichi.
Giovanni Cerruti
(da “La Stampa“)
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