Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
DAL CLUB DI FORZA ITALIA A PIOPPO, GUIDATO DALLA FAMIGLIA PUPELLA AL COMIZIO A MONREALE OMAGGIATO DAI BOSS… LE DICHIARAZIONI DEL COMMERCIALISTA DI TOTO’ RIINA
Alla vicinanza alla sinistra extraparlamentare, nella giovinezza, seguirono gli studi, la conoscenza di Marcello Dell’Utri, l’ingresso in Publitalia, il ruolo di coordinatore di Forza Italia nella Sicilia Occidentale ai tempi della discesa in campo del Cavaliere (annata ’93-’94).
Quella di Gianfranco Miccichè, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega al CIPE, è la storia di uno degli uomini più vicini a Silvio Berlusconi.
E come Berlusconi, col quale ha condiviso solo una fetta del percorso professionale e politico, è stato anch’egli raggiunto dall’accusa di essere vicino alla criminalità organizzata.
PAROLE PESANTI
“Metterò un mafia detector“, dice oggi quando gli chiedono come farà il partito che ha appena fondato a difendersi dalle infiltrazioni della criminalità .
Un rischio da evitare a tutti i costi, proprio perchè contro di lui, sui legami con la mafia, sono state già pronunciate parole pesanti.
Lo ha fatto Lorenzo Rossano, un industriale siciliano interessato alla politica e poi entrato nel mirino della mafia.
Dopo il crollo della DC Rossano aveva sposato le idee di Berlusconi, e fondato insieme al fratello ed an un “notabile della sua zona“, un club di Forza Italia, a Pioppo, vicino Monreale.
PUNTO DI RIFERIMENTO MAFIOSO
A Pioppo, raccontava Rossano, il club di Forza Italia, era guidato dalla famiglia Pupella. L’imprenditore tirava in ballo pure l’onorevole oggi fuoriuscito dal PdL berlusconiano: “I Pupella sono legati ad un personaggio mafioso come Giuseppe Balsamo… Il Coordinatore di Forza Italia Gianfranco Miccichè ha come punto di riferimento a Monreale Geppino Pupella”. “L’onorevole Miccichè aveva preso, con personaggi mafiosi di Brancacio, impegni a favore di un candidato, ottenendone in cambio supporto economico ed elettorale per tutto il partito da lui rappresentato in Sicilia, cioè Forza Italia“.
MOLTO RISPETTO
Che Miccichè fosse un personaggio potente l’imprenditore, uno che si vide negare la candidatura alle provinciali proprio dal coordinatore del partito berlusconiano, non ha dubbi. Rossano diceva di essersi reso conto del livello di inserimento politico-mafioso di Miccichè in occasione di un comizio a Monreale.
“Personaggi che io consideravo molto influenti a Monreale, come Onofrio Greco, Geppino Pupella, Ciccio Mortillaro, Bino Catania, Franco Madonia e lo stesso Mandalari… accolsero Miccichè con grandi onori e molta reverenza“.
Una “reverenza” — che scrivono Leo Sisti e Peter Gomez ne L’Intoccabile – non era stata riservata agli altri più conosciuti personaggi politici della zona come l’onorevole Silvio Liotta e il senatore Michele Fierotti, ovvero gli esponenti forzisti che sarebbero poi stati eletti in quel collegio.
PERSONAGGI IMPORTANTI
Rossano, davanti ai giudici, raccontava delle confidenze fattegli da Pino Mandalari, commercialista di Riina. “E’ stato voluto da personaggi importanti“, gli avrebbe rivelato, intendendo per ” personaggi importanti” “personaggi di spessore mafioso“.
Raccontava, poi, di un suggerimento di un’amica della segreteria politica di Miccichè: “Silvana Tedeschini mi disse che per i miei interessi nel mondo imprenditoriale non mi conveniva mettermi contro Miccichè, portato da personagi di grossissimo spessore politico, e, mi fece capire, anche mafioso. Aggiunse che da lì a poco sarebbe diventato l’uomo politico più potente della Sicilia, mettendosi a mia disposizione per mediare il mio eventuale avvicinamento politico a Miccichè. Non lo feci per orgoglio personale“.
(da “skywalkerboh.blogspot.com“)
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Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
PAROLE DURE SUI PM DI PALERMO, DI PIETRO E BERLUSCONI… PER INGROIA “GLI UNICI RICATTATORI SONO QUELLI CHE PUBBLICANO QUESTE COSE”… LA MACCHINA DEL FANGO IN AZIONE
E alla fine le parole di Napolitano al telefono con Mancino saltano fuori: le pubblica
(o, meglio, pubblica una ricostruzione condita da condizionali sotto il singolare titolo “Ricatto a Napolitano”) Panorama , la stessa testata che rivelò l’esistenza delle due telefonate intercettate dalla Procura di Palermo, nel giorno in cui il presidente della Repubblica finisce sotto botta anche per un presunto intervento sulla Procura di Caltanissetta per promuovere l’applicazione alle indagini sulle stragi di Ilda Boccassini.
Che cosa avrebbe detto Napolitano a Mancino?
Il Presidente della Repubblica avrebbe espresso “forti riserve sull’operato della Procura di Palermo, critiche ad Antonio Di Pietro e parole molto poco benevole nei confronti di Berlusconi”.
Uno scoop clamoroso?
“Il fatto che sia Panorama a pubblicare queste notizie esclude che possano essere uscite dalla Procura di Palermo — dice il procuratore di Palermo Francesco Messineo — dato che comunque escludo a prescindere”.
E visto che, come conferma Messineo, quelle bobine sono chiuse in una cassaforte e ad ascoltarle sono stati in pochissimi, tutti magistrati e solo il funzionario della Dia nella sala ascolto della procura, Panorama è costretto a citare “diverse fonti”, rigorosamente anonime, che hanno confermato come il contenuto delle conversazioni sia stato in qualche modo anticipato sui giornali da tre giornalisti, Ezio Mauro, Marco Travaglio e Adriano Sofri che evidentemente, secondo la singolare ricostruzione di Panorama , ne conoscevano il contenuto, rivelato adesso dal settimanale berlusconiano per porre fine al gioco al massacro dell’ipocrisia.
Lasciando alla valutazione dell’Ordine dei giornalisti, se ne avrà voglia, l’attribuzione a fonti anonime delle parole intercettate del presidente della Repubblica che ci rimanda alle peggiori veline dei servizi degli anni Settanta, apparechiaro che la copertina di Panorama, dopo giorni di ovvi interrogativi e altrettanto normali “ipotesi di scuola”, con il titolo “Ricatto a Napolitano” apre la partita dei veleni.
Nel mirino del settimanale berlusconiano c’è, oltre a Napolitano, anche la questione delle intercettazioni, vero e proprio spauracchio del centro destra, che oggi è pronto a cavalcarlo nella difesa (finta) di Napolitano.
Per comprendere bene l’operazione è necessaria una breve esegesi del pezzo di Panorama scritto da Giovanni Fasanella, che racconta, esordisce, “una grande ipocrisia”: quella di commentatori su fronti contrapposti che “lanciano messaggi trasversali a Napolitano”, essendo consapevoli del contenuto delle conversazioni. L’autore fa tre nomi, Ezio Mauro, Marco Travaglio e Adriano Sofri che si sono limitati a ipotizzare ciò che potevano aver detto i due interlocutori istituzionali. Secondo Fasanella sono tutti in malafede e, con il vezzo siciliano del dire e non dire, come scrive il direttore Giorgio Mulè, tengono sulla corda Napolitano.
Arriva Panorama e svela l’arcano: “Basta giochetti. Le ipocrisie e le allusioni fanno solo il gioco dei ricattatori” scrive Mulè.
Peccato che fin qui l’unico ad ipotizzare un ricatto e a titolare conseguentemente sia proprio Panorama , a meno di non voler ipotizzare una complicità di Mauro, Travaglio e Sofri nel Grande Ricatto al Quirinale.
Questa è solo la prima parte del pezzo: nella seconda Fasanella ipotizza che le telefonate intercettate tra Mancino e Napolitano possano essere più delle due conosciute, che il loro contenuto travisato porrebbe le parole di Napolitano, “con i filtri dell’aplomb istituzionale azzerati per via dell’antica amicizia” fuor i contesto, arroventando ancora di più il clima “con effetti destabilizzanti”.
Un pistolotto contro l’uso politico delle intercettazioni che svela il vero obbiettivo del pezzo che conclude, così com’era iniziato, disegnando scenari ipotizzabili in un prossimo futuro, quando la corte costituzionale, al più tardi tra febbraio e marzo 2013 sarà chiamata a valutare il conflitto di attribuzione quando Napolitano avrà ormai lasciato il Quirinale al suo successore.
Ma se tra scenari ipotizzabili e fonti ben informate ma anonime i fatti stanno, come si vede, a zero, quegli imprudenti giudizi attribuiti a Napolitano e trasformati in un anonimo karaoke servono paradossalmente ad avvelenare ancora di più il clima nei confronti del presidente della Repubblica, e suonano come un efficace avvertimento all’intero Parlamento chiamato ad affrontare ancora una volta la spinosa questione delle intercettazioni.
C’è da registrare, infine, una singolare, questa sì, coincidenza: nella stessa giornata del titolo di copertina di Panorama, “Ricatto a Napolitano”, il quotidiano web Lettera 43 pubblica in esclusiva la notizia di un intervento di Napolitano compiuto tre anni fa sui pm di Caltanissetta che indagano sulle stragi del ’92 per promuovere l’applicazione del pm milanese Ilda Boccassini. Un’altra, discutibile, ingerenza del presidente della Repubblica sul lavoro dei magistrati che cercano la verità sulle stragi, smentita, però, dal procuratore aggiunto Nico Gozzo che ha diffuso una nota: “Nessun intervento vi è mai stato da parte del Presidente sulle indagini della Procura di Caltanissetta. Nessuna telefonata. Unico intervento fu, proprio all’inizio delle indagini, un pubblico intervento nel corso delle commemorazioni per l’anniversario della strage di Capaci, quando il Presidente Napolitano perorò un incremento delle unità investigative impiegate per le indagini sulle stragi, proprio sul presupposto della loro importanza. Incremento poi effettivamente avvenuto’”.
Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
L’INTERVISTA ALL’EX AMBASCIATORE AMERICANO IN ITALIA REGINALD BARTHOLOMEW: “LA VIOLAZIONE DEI DIRITTI DI DIFESA UN PERICOLO PER LA DEMOCRAZIA”… L’ASSE CON D’ALEMA E BERLUSCONI
Il mese scorso ho incontrato a New York l’ex ambasciatore Reginald Bartholomew che, dopo avermi detto di aver visto il mio libro «Governo Ombra», sull’Italia del 1978 descritta dai documenti del Dipartimento di Stato, mi ha chiesto se avevo voglia di parlare con lui dei suoi anni alla guida dell’ambasciata di Roma, cosa che non aveva mai fatto.
«Non ho diari, ho solo la mia mente per ricordare» osservò.
Ci vedemmo a cena da «Felidia» a Manhattan e Bartholomew incominciò subito a raccontarmi di Tangentopoli e del terremoto politico-giudiziario che trovò al suo arrivo in Italia.
Era già molto malato, anche se non ne fece parola, e aveva urgenza di lasciare una testimonianza.
Raccolsi il suo racconto – che lui ha avuto modo di rivedere trascritto- con l’intenzione di usarlo come base per una nuova inchiesta sul rapporto tra Italia e Stati Uniti e sull’approccio americano al team «Mani Pulite».
Da quel momento ho cominciato a cercare i documenti dell’epoca e i protagonisti ancora in vita.
Primo tra tutti l’ex Console generale Usa a Milano Peter Semler, a cui Bartholomew attribuiva un ruolo chiave nell’iniziale sostegno americano all’inchiesta di Antonio Di Pietro.
Quando ho saputo dell’improvvisa morte del 76enne Bartholomew, avvenuta domenica all’ospedale Sloan-Kettering di New York a causa di un tumore, ho pensato che fosse giusto pubblicare quanto finora raccolto.
A cominciare da questa prima puntata che contiene appunto la testimonianza di Bartholomew, un diplomatico raffinato e colto, convinto che il passaggio alla Seconda Repubblica dovesse essere opera di una nuova classe politica – a cui aprì le porte dell’Ambasciata – e non solo opera dei magistrati.
Ecco il suo racconto.
Completo blu, camicia bianca e cravatta rossa, Reginald Bartholomew arriva puntuale all’appuntamento nell’Upper East Side fissato per ricordare il periodo, dal 1993 al 1997, che lo vide guidare l’ambasciata americana a Roma.
«L’Italia politica era in fase di disfacimento, il sistema stava implodendo a causa di Tangentopoli iniziata l’anno precedente ed io mi trovai catapultato dentro tutto questo quasi per caso», esordisce.
In effetti Bartholomew, ex sottosegretario di Stato agli Armamenti, ex ambasciatore a Beirut e a Madrid, era ambasciatore presso la Nato.
«Lo aveva deciso Bush padre prima di lasciare la Casa Bianca, poi quando arrivò Bill Clinton decise di farmi inviato in Bosnia e stava pensando di nominarmi ambasciatore in Israele». Ma in una delle prime riunioni sulla politica estera tenute da Bill Clinton nello Studio Ovale, con solo sette stretti consiglieri presenti, l’Italia spunta nell’agenda. Siamo all’inizio del 1993, Clinton sta incominciando la presidenza, l’Italia appare in decomposizione e «uno dei sette fece il mio nome al presidente», osservando che in una fase di tale delicatezza a Roma sarebbe servito un veterano del Foreign Service.
Clinton assentì, rompendo con la tradizione di mandare in Via Veneto un ambasciatore politico scelto fra i maggiori finanziatori elettorali, e Bartholomew venne così catapultato nell’Italia del precario governo di Giuliano Amato sostenuto dagli esangui Dc, Psi, Psdi e Pli, con Oscar Luigi Scalfaro arrivato al Quirinale sulla scia della strage di Capaci, il Pds di Achille Occhetto in ascesa e Silvio Berlusconi impegnato a progettare la discesa in campo.
«Ma soprattutto quella era la stagione di Mani Pulite – dice Bartholomew -, un pool di magistrati di Milano che nell’intento di combattere la corruzione politica dilagante era andato ben oltre, violando sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia come l’Italia, a cui ogni americano si sente legato».
Indagini giudiziarie, arresti di politici «presero subito il sopravvento sul resto del lavoro, perchè la classe politica si stava sgretolando ponendo rischi per la stabilità di un alleato strategico nel bel mezzo del Mediterraneo», ed è in questa cornice che Bartholomew si accorge che qualcosa nel Consolato a Milano «non quadrava».
Se fino a quel momento il predecessore Peter Secchia aveva consentito al Consolato di Milano di gestire un legame diretto con il pool di Mani Pulite, «d’ora in avanti tutto ciò con me cessò», riportando le decisioni in Via Veneto.
Fra le iniziative che Bartholomew prese ci fu «quella di far venire a Villa Taverna il giudice della Corte Suprema Antonino Scalia, sfruttando una sua visita in Italia, per fargli incontrare sette importanti giudici italiani e spingerli a confrontarsi con la violazione dei diritti di difesa da parte di Mani Pulite».
Bartholomew non fa i nomi dei giudici italiani presenti a quell’incontro nella residenza romana, ma ricorda bene che «nessuno obiettò quando Scalia disse che il comportamento di Mani Pulite con la detenzione preventiva violava i diritti basilari degli imputati», andando contro «i principi cardine del diritto anglosassone».
Pochi mesi più tardi, nel luglio del 1994, il presidente Clinton arriva in Italia per partecipare al summit del G7 che il governo del neopremier Silvio Berlusconi ospita a Napoli. In coincidenza con i lavori, Mani Pulite recapita al presidente del Consiglio un avviso di garanzia e la reazione di Bartholomew è molto aspra.
«Si trattò di un’offesa al presidente degli Stati Uniti, perchè era al vertice e il pool di Mani Pulite aveva deciso di sfruttarlo per aumentare l’impatto della sua iniziativa giudiziaria contro Berlusconi», sottolinea l’ex ambasciatore, aggiungendo: «gliela feci pagare a Mani Pulite».
Nulla da sorprendersi se in tale clima l’ambasciatore Usa all’epoca non ebbe incontri con i giudici del pool, «neanche con Antonio Di Pietro», mentre si dedicò a fondo a tessere i rapporti con le forze politiche emergenti.
«I leader della Dc un giorno mi vennero a trovare, fu un incontro molto triste, sembrava quasi un funerale, era la conferma che bisognava guardare in avanti».
Con il Pds, attraverso Massimo D’Alema, si sviluppò «un rapporto che sarebbe durato nel tempo».
«D’Alema mi chiamò al telefono, gli dissi di venirmi a trovare e lui, dopo una certa sorpresa, accettò – rammenta Bartholomew -; quando lo vidi gli dissi con franchezza che il Muro di Berlino era crollato, quanto avevano fatto e pensato i comunisti in passato non mi interessava, mentre ciò che contava era la futura direzione di marcia, se cioè volevano essere nostri alleati così come noi volevamo continuare a esserlo dell’Italia».
Ne nacque «un rapporto solido, continuato in futuro» con il Pds, «mentre con Romano Prodi fu tutto complicato dal fatto che, quando diventò premier nel 1996 del primo governo di centrosinistra della Repubblica, voleva a tutti i costi andare al più presto da Clinton, ma la Casa Bianca in quel momento aveva un altro calendario, e Prodi se la prese con me».
Per tentare di riconquistare il rapporto personale con il premier «dovetti andare una domenica a Bologna, farmi trovare nel suo ristorante preferito e allora finalmente mi parlò, ci spiegammo».
L’apertura al Pds coincise con quella a Gianfranco Fini, che guidava l’Msi precedente alla svolta di Fiuggi.
«Con entrambi l’approccio fu il medesimo, si trattava di aprire una nuova stagione – dice Bartholomew -, ed ebbi lo stesso approccio, guardando avanti e non indietro, anche se devo ammettere che nei salotti romani il mio dialogo con Fini piaceva assai meno di quello con D’Alema».
L’altro leader che Bartholomew ricorda è Berlusconi.
«La prima volta che ci vedemmo lo aspettavo all’ambasciata da solo, ma si presentò assieme a Gianni Letta, voleva il mio imprimatur per la sua entrata in politica e gli risposi che toccava a lui decidere se essere “King” o “Kingmaker”», ma l’osservazione colse in contropiede Berlusconi, «che diede l’impressione di non sapere cosa significasse “Kingmaker” e dopo essersi consultato con Letta mi rispose “Kingmaker? Noooo”».
Dall’incontro, avvenuto poco prima dell’entrata in politica di Berlusconi nel 1994, Bartholomew trasse comunque l’impressione che si trattava di una candidatura molto seria «e nei mesi seguenti, girando l’Italia, mi accorsi che aveva largo seguito, sebbene personaggi come Eugenio Scalfari, direttore di Repubblica, mi obiettavano che non potevo capire molto di politica italiana essendo arrivato solo da pochi mesi».
A conti fatti, guardando indietro a quella fase storica, Bartholomew rivendica il merito di aver rimesso sui binari della politica il rapporto fra Washington e l’Italia, dirottato dal legame troppo stretto fra il Consolato di Milano e Mani Pulite, identificando in D’Alema e Berlusconi due leader che negli anni seguenti si sarebbero rivelati in più occasioni molto importanti per la tutela degli interessi americani nello scacchiere del Mediterraneo.
Maurizio Molinari
(da “La Stampa“)
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Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
“CI PREOCCUPA L’ONDATA DEI POPULISMI”… FARI PUNTATI SULL’OLANDA CHE VOTERA’ IL 12 SETTEMBRE… MONTI E’ DIVENTATO L’ALLEATO-CARDINE PER LA NUOVA EUROPA
“Siamo molto preoccupati per quello che potrà accadere con le elezioni in Italia”.
Angela Merkel l’ha ripetuto a Mario Monti nella colazione di lavoro al primo piano della bianca “Bundeskanzleramt”, davanti alla porta di Brandeburgo.
Ma per una volta non è il fantasma del ritorno di Berlusconi quello che agita la Cancelliera, a cui piacerebbe comunque una permanenza del Professore a palazzo Chigi.
Al momento sembra abbiano fatto breccia le rassicurazioni che lo stesso premier ha fornito ai tedeschi riguardo al “principio di responsabilità ” che, a suo avviso, avrebbe ormai contagiato irreversibilmente i tre partiti che lo sostengono in Parlamento.
“Sono molto fiducioso sul fatto che c’è una maturazione dei partiti politici”, ha confermato ieri Monti in conferenza stampa, “inoltre ormai ci sono vincoli europei da rispettare per tutti”.
No, la principale preoccupazione che si avverte da Berlino a Bruxelles è quella per la crescita impetuosa dei “populismi” di destra e di sinistra che spuntano in Europa come funghi. In Italia e altrove.
Ne hanno discusso due sere fa a Bruxelles anche Josè Barroso e Mario Monti, dopo che il presidente della Commissione aveva analizzato la questione con vari parlamentari europei.
E Monti ha riportato le sue valutazioni alla Merkel.
Il faro è acceso oggi sull’Olanda, che andrà al voto anticipato proprio il 12 settembre, lo stesso giorno in cui la corte di Karlsruhe farà conoscere il suo verdetto sulla compatibilità del fondo Salva-Stati con la costituzione tedesca.
Si avvicina dunque un giorno fatidico, in cui l’intera costruzione elaborata in questi mesi potrebbe vacillare sotto il maglio dei giudici tedeschi, gelosi della sovranità tedesca, e degli elettori olandesi arrabbiati con l’Europa.
I sondaggi, valutati ieri a Berlino, danno infatti in testa i due principali partiti anti-Ue: i populisti di destra di Geert Wilders e il partito socialista di Emile Roemer, la versione arancione della Syriza greca.
Qualunque sarà il risultato sarà un guaio per il futuro dell’euro.
E la prospettiva in Italia, anche se probabilmente spostata nel tempo, vede comunque una avanzata delle forze che giudicano Bruxelles come una matrigna da cui fuggire, dal Movimento 5 stelle di Grillo fino alla Lega.
Per questo Merkel e Monti hanno valutato che non c’è un minuto da perdere, occorre erigere un cordone difensivo intorno all’euro e al processo di integrazione politica.
E in queste ultime settimane è stato intenso il lavorio diplomatico dietro le quinte portato avanti dal ministro Moavero con il suo collega tedesco Meyer-Landrut, incentrato anche sul rafforzamento del mercato unico.
Un’azione, quella portata avanti dal premier e dal ministro in Germania ed Europa, che ha consentito ieri di incassare comunque la “promozione” dell’Italia da parte della Merkel: l’Italia può farcela da sola.
Nonostante i timori per un futuro politico incerto.
La Cancelliera, come prima cosa, ieri ha messo a tacere i falchi di casa sua con un messaggio molto forte in chiave interna: giù le mani da Draghi, via libera alle “misure non convenzionali” per difendere la moneta unica.
“La Bce prepara le sue decisioni, la Bce è indipendente”, ha scandito durante la conferenza stampa con Monti.
E’ un altolà indiretto al presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, contrario a “drogare” i paesi in difficoltà con l’aiuto della banca centrale.
L’altro fronte su cui accelerare è quello dell’integrazione europea: unione bancaria, supervisione europea dei bilanci nazionali, maggiore potere alla Bce e alla Commissione.
Il commissario Barnier ha lavorato tutto agosto su una bozza di unione bancaria da presentare a metà settembre.
Il progetto prevede la centralizzazione in capo all’Eurotower della sorveglianza sulle banche. Barroso ha anticipato il piano martedì sera a Monti, chiedendogli una mano a convincere la Merkel.
La Germania infatti vorrebbe che la Bce controllasse soltanto i 25 istituti bancari più grandi del Continente, senza arrivare alle potenti casse di risparmio regionali. “Si sono fatti passi avanti su tutto”, riferiscono fonti della delegazione italiana.
L’altra questione su cui si sarebbe trovato un compromesso è quella della revisione dei trattati europei.
Secondo la Merkel è necessario un nuovo trattato per fissare la futura costituzione di quella che sembrerà sempre più simile a una vera federazione.
Monti, anche per formazione, è più pragmatico, conosce bene i rischi legati alla riscrittura dei trattati, sa che in alcuni paesi un referendum potrebbe far saltare tutto. “Ci siamo accordati – riferisce uno sherpa presente a Berlino – che dobbiamo intanto portare a casa la sostanza dell’integrazione e soltanto in un secondo momento preoccuparci della questione di un eventuale nuovo trattato”.
Fare in fretta, perchè la casa brucia.
Anche con la questione più difficile, quella della Grecia, l’intesa tra Monti e Merkel ha il sapore del compromesso dettato dal realismo politico.
“I greci – spiega un diplomatico – non parlano più di proroga di due anni, hanno capito che è controproducente. Intanto facciano anche loro i compiti a casa e poi valuteremo sulla base del rapporto della Troika ai primi di ottobre”.
Si dà insomma per scontato un approccio più soft con Atene, ma senza dirlo.
L’importante è spegnere l’incendio in fretta.
Francesco Bei
(da “La Repubblica“)
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Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
VENNE GIU’ IL DILUVIO, FU UN FLOP, MA GRILLO PRETESE L’INTERA CIFRA… I MILITANTI PER PAGARLO FURONO COSTRETTI AD ACCENDERE UN MUTUO VENTENNALE
C’è voluto un mutuo ventennale, per pagare una serata di Beppe Grillo alla Festa dell’Unità .
Sembra una battuta di Benigni e invece è una storia vera, tra le tante che il leader del Movimento Cinque Stelle preferisce non raccontare.
Poco accorto, il leader del Movimento Cinque Stelle: ha attaccato il collega, pur senza nominarlo, chiedendo polemicamente chi gli ha pagato il cachet per lo spettacolo che ha messo in scena alla Festa Democratica, ora si chiama così, di Reggio Emilia.
Meglio rivangare subito quanto accadde agli inizi degli anni Ottanta a Dicomano, un piccolo paese della provincia di Firenze.
C’era ancora il Pci e si cercava un ospite d’onore importante per la Festa dell’Unità : Roberto Benigni, guarda la combinazione, aveva già riscosso applausi (e cachet) un paio di edizioni prima.
La scelta cade su Beppe Grillo, comico già affermato e per nulla interessato, come oggi, a sapere chi sovvenziona «gli incontri annuali sul futuro della nazione, se il finanziamento pubblico o amici generosi e interessati, tipo Riva per intenderci». All’epoca si limita a chiedere 35 milioni di lire, il costo di un monolocale a Genova. Glieli concedono.
Lui in cambio promette faville, e del resto al servizio dei partiti c’è già stato: in particolare del Pli, campagna elettorale dell’avvocato genovese Gustavo Gamalero. Naturalmente teneva i comizi-show nei salotti, i liberali erano pochini e si ironizzava sul fatto che i congressi si organizzassero al bar: ma questa è un’altra storia.
La storia di Dicomano racconta che la sera dello spettacolo piove a dirotto.
Un nubifragio, siamo a settembre, con tuoni e fulmini e vento a trenta chilometri l’ora. Lo spettacolo è un flop, i biglietti venduti pochissimi.
I compagni cercano di ricontrattare il compenso, ma Grillo ne fa una questione di principio: abbiamo pattuito tot e tot voglio incassare.
Sull’Unità del 21 settembre 2006 ricorderà il dramma il militante Franco Innocenti: «La segreteria della sezione era fatta tutta di giovani. Io avevo ventisei anni ed ero l’unico con una busta paga, perchè ero stato appena assunto come portiere…».
Il papà di Innocenti fa il parrucchiere, la madre è invalida al cento per cento, ma il compagno Franco si sacrifica: va in banca e stipula un mutuo, è l’unico a poterlo fare. Sarà pagato con il contributo di tutta la segreteria, ed estinto esattamente vent’anni dopo.
Se Bersani avesse conosciuto questa storia, e gli sarebbe bastato leggere l’Unità , non sarebbe scivolato su quell’insulto, «fascista del web», che ha tanto arroventato la polemica.
Vero che Grillo aveva cominciato per primo, dandogli del «quasi morto»: ma il segretario del Pd era stato capace di un’analisi brillantissima, spiegando al vate di Sant’Ilario che «noi piccoli uomini siamo tutti quasi morti, e tutti viviamo su quel quasi». Chapeau.
Che bisogno c’era di infierire?
Poi, certo, in soccorso del vincitore (Bersani giocava in casa, a Reggio Emilia) è arrivato Roberto Benigni.
Anche lui un bel tipino, in fatto di soldi, basti pensare che il suo agente è Lucio Presta e la società che ne gestisce i guadagni si chiama Melampo, come il cane tangentaro di Pinocchio.
Per cominciare Benigni ha ricordato a Grillo che non si dice morto ma «diversamente vivo», punzecchiatura.
Poi ha fatto finta di leggere un suo messaggio, che naturalmente mandava «affanculo» tutto il Pd, spiegando che «questo è il suo modo di essere affettuoso».
Infine, e il dettaglio ha scatenato la permalosità del comico & leader, ha buttato lì che «Beppe quando si innervosisce diventa anche volgare».
Grillo pensa di essere spiritosissimo, nel repertorio da caserma.
Così ha sparato a zero sui compensi del collega e rivale, dimenticando la sua performance di qualche anno fa. «Gli artisti invitati sul palco lo fanno per solidarietà con il pdmenoelle», ha tuonato storpiando come sempre la sigla del partito, «oppure dietro ricco cachet?».
Immediata la risposta di Lucio Presta, detto mister dieci per cento: «Noi non prendiamo soldi dai partiti, il compenso deriva dalla vendita dei biglietti e non abbiamo neanche un minimo garantito. Grillo vuole parlare del suo, di cachet? Venga…». Ironia.
E sarcasmo da parte di Lino Paganelli, il responsabile degli eventi pd, che ha precisato come i finanziatori siano «settemila volontari», per poi tirare la stoccata: «Grillo ha calcato i palchi delle feste dell’unità : se qualcosa non gli torna, circa i cachet, può sempre restituirli».
Più seriamente, lo stesso Paganelli ha spiegato il meccanismo delle feste: «La gente viene, ascolta i dibattiti, mangia e compra i gadget. Ci finanziamo così. Gli artisti offrono un evento che viaggia per conto suo, anche con i Subsonica accadrà lo stesso. E comunque, il Pd ha tutti i bilanci pubblicati, mentre non saprei dove controllare quelli del Movimento Cinque Stelle».
La parola a Grillo. Il quale, per restare in tema, chiese pure il condono tombale nel 2002…
Ma anche questa è un’altra storia.
Paolo Crecchi
(da “Il Secolo XIX“)
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Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
UNA VICE DONNA E ICHINO IN SQUADRA: QUESTO NEL PROGRAMMA DEL SINDACO DI FIRENZE… MEZZI NOTEVOLI A DISPOSIZIONE PER COMPETERE ALLE PRIMARIE DELLA SINISTRA
Chiamiamola la tana del lupo. 
In attesa del 13 settembre, giorno in cui partirà la campagna per le primarie di Matteo Renzi, il sindaco di Firenze sceglie VeDrò, la quattro giorni di seminari di Enrico Letta a Drò, per saggiare il terreno nel campo avverso.
Non senza un pizzico di malizia.
Il giorno prima Renzi aveva annunciato che al centro del suo programma ci sarà l’Agenda Monti.
Esattamente quello che sostiene Letta che però è un bersaniano di ferro.
Imbarazzo per il numero 2 del Pd? «Nessuno. Renzi viene a VeDrò ogni anno – attacca Letta -. Io voto in maniera convinta Bersani. È la persona giusta per farci vincere le elezioni. Ha saputo sostenere l’Agenda Monti e ha dato parole di speranza per il futuro. Sono per l’Agenda Monti e per Bersani».
L’accoglienza alla cena trentina è stata buona compresa di abbraccio tra il vicesegretario del Pd e il candidato che sfiderà Pier Luigi Bersani.
Accanto a lui, alla tavola di VeDrò, Roberto Reggi, l’ex sindaco di Piacenza a cui è stata affidata la macchina organizzativa e Giorgio Gori, pronto a scendere in campo: «Sono a sua disposizione, ci divideremo il lavoro. È una sfida molto aperta ma se Matteo ha deciso di giocarla non è per piantare una bandierina, ma per vincerla».
Si muove la macchina di Renzi. Sia con gli uomini sia con i mezzi.
A collaborare con il sindaco di Firenze ci sarà anche il giuslavorista Pietro Ichino, senatore del Pd: «Collaborerò con Renzi, c’è una convergenza piena su temi cruciali. Bersani non mi ha cercato».
Nello staff ci sarà anche Matteo Richetti, presidente del Consiglio regionale dell’Emilia Romagna, che gestirà le relazioni politiche.
La sorpresa arriva invece dalla scelta del possibile vicepremier: con ogni probabilità sarà una donna, anche se sul nome è scesa una cortina di silenzio.
E arriviamo ai mezzi. Il camper. Anzi i due camper che verranno utilizzati per battere le 108 province del territorio italiano.
Due gemelli di nome Therry e modificati per l’occasione.
Via la cucina dentro una sala riunioni per 8 persone. Internet, fax e quant’altro.
Un piccolo Air Force One a quattro ruote.
Ed è proprio il camper a innestare la prima polemica della giornata.
Tocca al Movimento 5 Stelle di Firenze con un post sul blog di Beppe Grillo: «Il sindaco scende in camper… Chi amministrerà Firenze mentre il primo cittadino sarà impegnato a promuovere il suo programma elettorale in giro per la Nazione? Firenze adesso avrà un sindaco a distanza? Il sindaco che manderà un bacione a Firenze».
«Non sarò un sindaco part time o a mezzo servizio – replica Renzi -. Questa è un’amministrazione che fa le cose. I fiorentini sono orgogliosi che il sindaco della loro città abbia questa possibilità ».
Infine, in pieno spirito grillesco, si affida al sarcasmo: «Noi, in tre mesi part time, faremo più cose di quelle che certi parlamentari hanno fatto in tre legislature a Roma con il lauto stipendio e il vitalizio».
Lotta all’esterno, ma (ancora) fair play all’interno.
Anche se il 15 settembre, quando Bersani sarà alla Festa democratica di Firenze, Renzi non lo incontrerà : «Ho un impegno di campagna elettorale, ma è il benvenuto in questa città ».
La linea, per ora, è nessun attacco a Bersani. Il contrario. «Ho molto apprezzato lo stile con cui Bersani ha commentato la possibile candidatura mia, come di altri, con un fair play e un’attenzione ai contenuti che mi convince. Sarà la stessa attenzione che utilizzeremo noi. Ci muoveremo con leggerezza e sobrietà . Dai dirigenti nazionali mi aspetto lo stesso stile che ha avuto Bersani. All’interno del Pd non ci sono avversari politici, ma compagni di strada».
La risposta arriva dallo stesso Letta: «Non siamo in una caserma e ognuno è libero di fare le sue scelte. Chi perderà si metterà a disposizione dell’altro candidato».
Il minuetto continua con la controreplica di Renzi: «Alle primarie ci si confronta, chi è più bravo vince, chi perde dà una mano a chi è stato più bravo. Se noi perdiamo daremo una mano a chi vince, se noi vinciamo cercheremo di fare il cambiamento vero di cui questo Paese ha bisogno».
Atmosfera che però non durerà a lungo.
Ieri a VeDrò molti esponenti del Pd ripetevano: «Ma quale Agenda Monti di Renzi! I suoi amici amministratori sono quelli che hanno disatteso tutti i provvedimenti del governo Monti».
Maurizio Giannattasio
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Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
LA REGIONE E’ VICINA AL DEFAULT E I PARTITI BALLANO SUL PONTE DELLA NAVE CHE AFFONDA… MICCHICHE’ RISPONDE A BERLUSCONI, LOMBARDO SI ACCORDA CON FINI, MA A PAROLE TUTTI SONO CONTRO I “PARTITI NAZIONALI”, SALVO TRATTARE CON LORO
Ci dispiace citare la solita frase: il Titanic affonda e loro continuano a ballare.
In questo caso, a giocare.
E sì, perchè mentre loro giocano, l’assessore al bilancio Armao lancia l’allarme: la Regione sta per affondare, non ha più soldi.
Quindi niente stipendi ai dipendenti a tempo determinato, al precariato, niente finanziamenti per la sanità , per la forestazione, per i dissalatori, per le misure anti incendio e, sicuramente, per i rifiuti.
Il temuto default della Sicilia è servito.
Ci sarebbe da disperarsi davanti a questo dramma, invece cosa accade in prossimità delle elezioni di ottobre?
Partiti e candidati, o presunti tali, più che ballare (sarebbe almeno una cosa allegra), giocano alla roulette sul Titanic Sicilia.
Incuranti di tutto, puntano le loro fiches, sperando di vincere una poltrona che, stando così le cose, non è che valga un gran che. Forse solo per il considerevole gettone e per i loro clienti.
L’assurdo è che davanti a questo fallimento, il presidente della Regione, il dimissionario Raffaele Lombardo, continua a nominare consulenti a suon di migliaia di euro.
L’accusa arriva dagli assessori Vecchio e Venturi, chiamati in giunta proprio dal governatore.
Sono gli ultimi respiri di un potere in affanno? Non crediamo.
Le rissose vicende di questi giorni sulla scelta del candidato governatore fanno sembrare che non sia così.
Il Pds (ex Mpa) si sta dando molto da fare, assieme al Grande Sud, per rimanere a galla.
Lombardo e Miccichè prima candidano Nello Musumeci, con grandi lodi per la sua sicilianità , poi, appena l’altro ieri, fanno marcia indietro e lo stesso Miccichè vara l’ammucchiata di una ipotetica «alleanza siciliana» lontana dagli «inquinanti» partiti nazionali.
Una presa per i fondelli proprio dei siciliani.
Miccichè forse ha dimenticato di aver detto, quando qualche settimana addietro ha annunciato la sua candidatura (poi ritirata a favore di Musumeci), di avere avuto l’imprimatur di Berlusconi.
Che alleanza siciliana è questa?
E Lombardo, che nel passato amoreggiava con i leghisti (Calderoli era di casa), non è forse andato da Fini per fare fuori proprio Nello Musumeci?
Del resto non poteva trovare da Fini che porte aperte dato che l’ex segretario di An era stato l’autore della frase: «Musumeci, chi? ».
Gli fu rimproverato che il Pdl allora perse le elezioni perchè mancarono i 40 mila voti di Musumeci.
Rivangare il passato però serve a poco.
Semmai serve a chiarire che questo centro o centrodestra che sia, non è una cosa seria. Lo disegna bene la constatazione di Musumeci: «C’è un tasso di odio che ritenevo umanamente inimmaginabile».
Tutto ciò che sta accadendo nel centrodestra non ha nulla a che vedere con il cosiddetto progetto regionalista.
Se fosse stato vero avrebbero pensato più alla Sicilia che brucia invece che ai loro affari di bottega.
In questo momento sul campo a lottare come governatori ci sarebbero due di centrodestra, Musumeci e Miccichè, e due di centrosinistra, Crocetta e Fava.
Anche lì i maldipancia non sono mancati.
Il motivo della divisione è l’appoggio che l’Udc ha deciso di dare a Crocetta.
Gli ex democristiani per quelli del Sel sono troppi inquinati per parlare di legalità . Anche se poi a livello nazionale, nonostante le ultime dichiarazioni di Bersani, «preferisco Vendola a Casini», sotto sotto resiste il patto con quest’ultimo che rimane fedele al Pd, nella speranza di ricevere l’attesa ricompensa.
Leoluca Orlando per adesso sta a guardare. Per schierarsi c’è ancora tempo.
Non c’è però più tempo per salvare la Sicilia.
Ciò che ci lascia perplessi, se si dovesse andare con queste divisioni, è la mancanza di una vera maggioranza e quindi di certezze, col rischio che molti elettori, disgustati, disertino le urne.
Sarebbe difficile, così, governare una Regione già ridotta al lumicino.
L’ombra di un commissario resterebbe sempre dietro l’angolo.
E alla fine potremmo anche augurarcelo.
Domenico Tempio
(da “La Sicilia”)
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Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
LA BANCA DI LEGNANO RETRIBUIRA’ I LAVORATORI, MA CHI ACCEDE ALLA LINEA DI CREDITO DEVE APRIRE UN CONTO E IN CASO DI INSOLVENZA SARANNO LORO A DOVER RIPAGARE I FONDI RICEVUTI
Volete gli stipendi? Prendeteli in prestito. 
Ad Alessandria i circa 500 dipendenti delle municipalizzate Atm (trasporti), Amiu (rifiuti) e Aspal (pluri-servizi) sono da questo mese senza retribuzione, ma hanno ricevuto una (discutibile) proposta: ottenere un finanziamento a titolo di anticipo della buste paga, accollandosi il rischio di insolvibilità dell’ente comunale.
Il neo sindaco Rita Rossa (Pd), infatti ha annunciato di aver trovato una soluzione per tamponare la mancanza di liquidità del Comune, il cui fallimento è stato certificato il 12 giugno scorso dalla sezione regionale di controllo della Corte dei Conti.
La Banca di Legnano si è offerta di “finanziare” il 90 per cento della media delle ultime tre mensilità ad ogni lavoratore, per il prossimo bimestre e con possibilità di proroga di ulteriori 30 giorni.
A due condizioni: la prima è che chi accede alla linea di credito apra un conto presso i suoi sportelli (a costo e tasso zero), la seconda è che, nel caso non arrivassero i soldi dal Comune, saranno gli stessi dipendenti a dover ripagare, dopo sei mesi, con tanto di interessi, i fondi ricevuti.
Nel primo semestre, invece, i prestiti saranno a tasso zero.
Contrari alla proposta i dipendenti di Amiu e Aspal che sono in stato di agitazione.
Se le loro richieste di dilazionare i pagamenti, inoltrate questo sabato al presidente del Consiglio Mario Monti, non saranno ascoltate, non sanno come pagare le municipalizzate e queste, i lavoratori.
Dalle casse, hanno spiegato dal Comune, “escono dai 103 ai 105 milioni di euro all’anno (di cui 40 vanno alle municipalizzate) ma ne entrano solo 87. Entro ottobre dovremo presentare un’ipotesi di pareggio di bilancio, tagliando 24 milioni. Così è impossibile andare avanti”.
Fino a ieri l’amministrazione ha potuto contare su un escamotage, con la tesoreria cittadina che ha anticipato 300mila euro ad ognuna delle società controllate.
Ad una in particolare, quella che ha in gestione i rifiuti, pesantemente indebitata con Barclays per 9 milioni di euro, l’amministrazione ha sempre approvato il versamento straordinario per “ragioni di pubblica sicurezza”.
Operazione che ora i giudici contabili hanno espressamente vietato a causa del dissesto finanziario.
Questo è uno dei primi effetti del fallimento del Comune.
Il dissesto è stato imputato a Piercarlo Fabbio (Pdl), ex sindaco rinviato a giudizio con l’accusa di aver “truccato” il bilancio consuntivo 2010 per rispettare il patto di stabilità .
Con lui dovranno rispondere di falso in bilancio, abuso d’ufficio e truffa ai danni dello Stato anche l’ex assessore Luciano Vandone e l’ex ragioniere capo, Carlo Alberto Ravazzano.
Resta da capire perchè la Banca di Legnano abbia accettato di rinunciare agli interessi sui prestiti offerti ai dipendenti delle municipalizzate alessandrine.
Alcuni siti di informazione hanno indicato come possibile “suggeritore” dell’operazione Ezio Guerci, marito del primo cittadino, che oltre ad essere un esperto di dinamiche del lavoro è consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, fusa con la Legnano, e azionista della controllata Bpm.
Nicolò Sapellani
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Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
TERRITORIO E BENI COMUNI… IL “MOSTRO” POLACCO E’ IL PIU’ PERICOLOSO
Alcuni mostri si aggirano per l’Europa. Più che muoversi stanno fermi ma la loro presenza si percepisce anche a centinaia di kilometri di distanza.
Stiamo parlando delle centrali termoelettriche a carbone.
Se la pericolosità delle centrali nucleari si misura nel rapporto tra i benefici di un sistema più o meno efficiente e i costi altissimi di eventuali incidenti agli impianti, l’inquinamento generato dalla combustione di carbone (in tutte le sue forme) è visibile a distanza, è percepibile immediatamente dentro i polmoni, è quantificabile nelle emissioni di anidride carbonica.
È un inquinamento quotidiano, a cui da tempo si sarebbe dovuto porre un argine: le mastodontiche dimensioni degli apparati produttivi, le ingentissime risorse finanziarie che servirebbero per una riconversione ecologica, la volontà degli Stati di mantenere un certo autonomo margine di manovra in campo energetico, vari tipi di interesse delle grandi multinazionali sono solo alcuni fattori che rendono evidente la difficoltà di ammodernare un comparto vitale per il nostro futuro.
Eppure l’Europa si era data obiettivi ambiziosi sulla riduzione del 20% delle emissioni di anidride carbonica entro il 2020.
Traguardo arduo da raggiungere.
Anche perchè la “disunione europea” non si manifesta soltanto nel persistere di interessi nazionali, come dimostra il modo in cui si sta affrontando la crisi dei debiti sovrani, ma anche nella pressochè totale assenza di una politica energetica comune.
Al di là della retorica infatti c’è chi spinge per un rapporto univoco e diretto con la Russia (vedi la Germania), chi sogna l’autosufficienza puntando sulla nuova futuribile tecnologia di fusione dell’idrogeno (vedi Francia), chi non sa che pesci pigliare e raccatta tutto il gas a disposizione (vedi Italia) e chi mantiene un obsoleto settore di produzione di energia non curandosi dell’impatto ambientale (vedi i paesi dell’ex blocco comunista con l’eccezione della Lettonia).
I costi di questa mancata strategia continentale, oltre che economici e strategici, riguardano la salute nostra e del pianeta.
Le cifre fornite dall’Agenzia europea per l’ambiente sono incontrovertibili.
Come riporta il quotidiano La Stampa: “Le emissioni di agenti inquinanti nel 2009 pesavano tra i 102 e i 169 miliardi l’anno, ovvero dai 200 ai 330 euro a persona. Quel che colpisce di più è che ben il 50 per cento dei costi aggiuntivi (tra 51 e 85 miliardi) sono generati da soltanto 191 impianti. è il 2% del totale di quelli censiti, quelli più «sporchi» in assoluto. Il 75% del totale delle emissioni è prodotto da soli 622 siti industriali.
A guidare la classifica – che è calcolata sui dati del 2009 – sono le centrali termoelettriche, in particolare a carbone o a olio combustibile; il discutibile primato di industria più inquinante in assoluto d’Europa se lo aggiudica la famigerata centrale elettrica di Belchatow, in Polonia, una «bestia» alimentata a lignite (un carbone di particolare bassa qualità ) da 5.000 MW nei pressi della città di Lodz.
Tra le prime venti però troviamo anche la centrale termoelettrica Enel Federico II di Brindisi, che da sola genera costi connessi ad inquinamento tra i 536 e i 707 milioni di euro l’anno.
E al 52esimo posto c’è l’acciaieria Ilva di Taranto, che ci costa dai 283 ai 463 milioni l’anno”.
Il mostro polacco è quello più pericoloso.
La storia di Belchatow comincia negli anni ’70: occorreva sfruttare le miniere di carbone limitrofe, ed ecco una centrale a lignite, una delle forme più elementari e grezze (quindi più inquinanti) del carbone.
Persino una brochure auto celebrativa della centrale, ora di proprietà dell’azienda polacca PGE e della multinazionale francese Alstom, descrive la situazione fino agli anni ’90: “Il progetto originario non aveva previsto nessuna misura per limitare le emissioni di ossidi di zolfo perchè a quel tempo le tecnologie di desolforizzazione dei gas erano praticamente sconosciute o soltanto in una fase di sviluppo”.
Le migliorie apportate successivamente non migliorarono l’impatto inquinante delle 12 unità che compongono la centrale, se pensiamo che nel 2008 sono state emesse 31 milioni di tonnellate di CO2 per una produzione di energia di 28 TWh (il 20% dell’intero fabbisogno del paese).
Si è così progettato un piano generale di ammodernamento.
Così descriveva la situazione nel 2009 Greenreport: “Il responsabile della centrale di Belchatow, Jacek Kaczorowski, non si scompone più di tanto e in una intervista alla Reuters ha detto che «Le nostre emissioni nei prossimi anni, nel periodo contabile 2008-2012, resteranno a livelli simili. Così, in breve, alla fine di tutto il periodo, ci vorranno circa 14 – 20 milioni di tonnellate di quote di emissioni di CO2».
Per rientrare nei limiti europei con l’ampliamento la centrale pensa di risolvere la cosa ricorrendo allo stoccaggio sotterraneo delle emissioni di CO2.
Quindi la Polonia non intende rinunciare alle sue super-inquinanti centrali a carbone, ma chiede all’Unione europea di finanziare la ricerca e la tecnologia per la Carbon caputre storage (Ccs) per poter “imprigionare” un terzo dei gas serra prodotti dal nuovo blocco produttivo.
«Ma anche se non avremo i soldi dell’Unione europea, dovremo andare avanti con il progetto a causa della necessità di ridurre le emissioni – ammette Kaczorowski. Dobbiamo andare verso lo sviluppo delle tecnologie Ccs per rimanere competitivi»“.
Belchatow non lascia ma raddoppia costruendo un’altra unità da più di 800 MW, sulla carta molto meno inquinante del complesso della centrale, e chiudendo i camini più vecchi.
Il progetto viene portato a termine nei tempi prestabiliti e proprio in questi giorni vengono inaugurate le strutture.
L’obiettivo di diminuire le emissioni è però ancora lontano.
Mancano soldi e soprattutto volontà politica.
Il carbone resta una materia prima a basso costo e in Europa si sta pensando a nuove centrali.
Una strada che contraddice ogni istanza ambientale.
Pierluigi Cattani
(da “Unimondo.org“)
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