Aprile 25th, 2013 Riccardo Fucile
DIBATTITO POST-DILUVIO, MILITANTI IN RIVOLTA IN UNA SEDE STORICA DELLA SINISTRA
La Bolognina che pianse non c’è più, la passione di quel 12 novembre 1989, quando il Partito comunista diventò Pds, è stata sostituita con la rabbia per una cosa che oggi stentano a riconoscere anche quelli che la domenica mattina arrivavano in sezione e sentivano parlare di Ungheria, Berlinguer, Unione sovietica.
“Qui eravamo stalinisti, oggi siamo tornati democristiani”, dice Graziella, quella che conta più del segretario perchè ha le chiavi e alle 17 apre il cancello.
Nelle stanze dove Achille Occhetto strappò col passato ora c’è un negozio di parrucchieri gestito da cinesi.
È lo stesso quartiere, lo stesso circolo.
La stessa città , Bologna, grassa e fu comunista, diventata con gli anni di un arancione sbiadito, a luci intermittenti.
Già tanto è stato oltrepassare la stagione di Sergio Cofferati, il sindaco che viveva a Genova, e poi quella di Flavio Delbono, il professore bruciato dalle gite d’amore con l’amante, pagate con i soldi pubblici.
Già tanto sopravvivere a questo.
Per l’appuntamento che probabilmente verrà ricordato come la Bolognina due, con un mezzo passato e un futuro che presenta nebbia e ostacoli, incertezze ricatti, arrivano centinaia di persone.
Giovani, vecchi, ragazze e uomini, operai e impiegati.
Accomunati da quella paura di diventare ex di un qualcosa che forse “è morto il 24 e 25 febbraio” o che nella peggiore delle ipotesi non è mai nato.
“Questa dirigenza se ne deve andare”, dice Matteo Lepore, che in Comune a Bologna è assessore delegato al coordinamento della giunta.
È stato bersaniano e oggi è in quella comune molto ampia che si chiama Reset, parola che si rincorre durante tutto il giorno.
Reset con l’attuale dirigenza del partito, reset con Bersani, Bindi, Franceschini e Letta.
“Siamo per mandare a casa quelli che hanno portato il partito a questo disastro”. Arriva anche Giorgio Prodi, figlio di Romano che in questi giorni, a chi lo incontra per strada, dice di essere “l’ex presidente”.
Giorgio, invece, l’ha presa con meno filosofia.
“Il Pd che si riunisce qui oggi è diverso da quello che ha pugnalato mio padre”, spiega raggiungendo l’incontro.
I giornalisti incalzano: il professore conosce i nomi dei 101 traditori.
“A me non ha detto nulla, però mi sembra molto chiaro il sistema nel quale questo è maturato. Mi auguro che qui dentro si parli di quello che accadrà e non di quello che è accaduto. Altrimenti il partito è morto. Il paese è morto”
Le facce rabbiose disegnano comunque un malato sul lettino di ospedale in prognosi riservata.
Questo è il Pd della Bolognina.
Non ci sono altre declinazioni possibili. È tenuto in vita dalle macchine. E dalla passione.
Dietro l’angolo nessuno sa cosa ci sia.
A Bologna almeno una definizione cercano di darsela. E non sono niente di quello che succede oggi. Sono ex bersaniani, renziani, ex giovani turchi, ma tutti accomunati da una speranza che arriverà solo dopo averci dormito sopra.
“Partiamo dall’azzerare tutti, poi vediamo”, dice Lepore.
Più duro Benedetto Zacchiroli, renziano ed ex-candidato alle primarie per il sindaco di Bologna senza successo: “La generazione che ha guidato il partito si è autorottamata. Siamo stati sconfitti dai dirigenti ai quali ci eravamo affidati. A noi servirebbe un governo che risolva i problemi degli esodati e non che fa le leggine per Berlusconi. Questo chiedeva il Paese. Ma non siamo stati sconfitti dalla candidatura di Marini al Quirinale e dalla trappola per Prodi: abbiamo perso alle elezioni. È questa la presa di coscienza che serve oggi per cercare uno spiraglio”.
“Ma chi pensava di venir qui a illuminarci coi falò delle tessere ha sbagliato. Noi ci siamo, ma per riprenderci il partito e aprire una nuova stagione”. È quello che dicono durante gli interventi aperti.
E poi parlano di Marini, dell’omicidio Prodi, di Letta.
Inizio alle sei del pomeriggio e poi avanti fino a notte fonda.
Lo spirito è quello di chi ha perso un appuntamento con la storia e cerca di non alzare le mani e farsi impallinare.
Sicuramente c’è tanta gente. Manca l’odore del fumo di sigarette, mancano le bandiere rosse. Ma non c’è nessuna voglia di rimanere sospesi a metà .
Riprendiamoci tutto, soprattutto il futuro. “Non vogliamo morire arancioni o sbiaditi. Non vogliamo morire democristiani”.
Emiliano Liuzzi
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 25th, 2013 Riccardo Fucile
CASO MEDIASET: RIMANDATO IL VERDETTO SUL LEGITTIMO IMPEDIMENTO
In un periodo di larghe intese agognate e ottenute dal presidente Giorgio Napolitano, la Corte
costituzionale si fa dettare i tempi dalla politica.
O per ritardare, come ha fatto ieri per il conflitto Berlusconi-giudici di Milano, o per accelerare, come ha fatto negli ultimi mesi per i conflitti Quirinale-Procura di Palermo; giudici di Taranto-governo Monti e Parlamento.
La Consulta, in ossequio all’esecutivo nascente, ieri ha deciso di non decidere su un conflitto che Silvio Berlusconi aveva sollevato nel 2011, come presidente del Consiglio-imputato, per un legittimo impedimento negato al processo Mediaset di Milano.
Ci si aspettava la sentenza già la sera di martedì, dopo l’udienza, o ieri.
Invece, per “opportunità politica”, i giudici hanno rinviato a data da destinarsi una decisione sul leader del Pdl “democristianizzato”: ha definito il discorso di Napolitano in Parlamento “il migliore degli ultimi 20 anni”.
Dunque camera di consiglio della Corte aggiornata e, per alcuni dei giudici, appuntamento alla presentazione del libro “La Repubblica del Presidente”, Napolitano, naturalmente.
D’altronde, il capo dello Stato, il 12 aprile, nel salone Belvedere della Consulta, è stato omaggiato dal presidente Franco Gallo, papabile prossimo ministro.
Al centro del conflitto lasciato ieri in sospeso, un legittimo impedimento che i giudici milanesi, il primo marzo 2010, non riconobbero a Berlusconi: si era appellato a un Consiglio dei ministri inizialmente previsto per venerdì 26 febbraio e quel giorno stesso rinviato al lunedì successivo, proprio in coincidenza con l’udienza Mediaset fissata oltre un mese prima insieme alla difesa.
Ad aprire l’udienza pubblica della Consulta, martedì, il giudice relatore Sabino Cassese, grande amico di Napolitano presidente e professore di Napolitano figlio, Giulio, ora docente a Roma 3.
L’illustre esperto di diritto amministrativo ha preso con sè a lavorare Napolitano junior che con il giudice costituzionale ha firmato alcune pubblicazioni.
Cassese, all’udienza pubblica ha ricordato che agli atti della Corte c’è anche l’istanza di legittimo impedimento di Berlusconi “presentata con tempestività ”, ha voluto sottolineare, “con allegata dichiarazione del segretario generale della Presidenza del Consiglio”.
Se la Consulta dovesse dare ragione a Berlusconi, o viene annullata solo l’ordinanza del Tribunale “incriminata” o, addirittura, la Corte d’appello di Milano, che sta processando in secondo grado l’ex premier, potrebbe essere investita di una valutazione sull’azzeramento di tutti gli atti seguenti, quindi anche della sentenza di condanna emessa in primo grado, per frode fiscale, a ottobre.
Il principio dell’opportunità politica, che sta dietro il rinvio di questa decisione, è lo stesso che, invece, ha messo le ali alla Consulta quando Napolitano, per impedire che diventassero pubbliche le conversazioni con l’ex ministro Mancino, finite nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, ha sollevato conflitto contro la Procura di Palermo.
Nel giro di 5 mesi, compresa la pausa estiva, la Corte ha deciso (a favore del presidente).
Stesso tempo accelerato per respingere, il 9 aprile, le eccezioni di incostituzionalità presentate dai magistrati tarantini contro il decreto del governo Monti, convertito in legge, che a fine 2012 ha scavalcato un provvedimento giudiziario sull’Ilva.
Antonella Mascali
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 25th, 2013 Riccardo Fucile
IL MINISTRO DELLE FINANZE TEDESCO SCHAEUBLE: “IL PROBLEMA IN ITALIA E’ STATA L’IRRITAZIONE DELL’ECONOMIA PER I RITARDI NEL FORMARE IL GOVERNO”
«Il problema in Italia è stata l’irritazione dell’economia per i ritardi nel formare il governo. Scaricare sugli altri i propri problemi è comprensibile umanamente, e per alcuni la Germania è appropriata nel ruolo, ma è una sciocchezza».
Così Schaeuble commenta le parole di Enrico Letta secondo cui occorre rinegoziare il rigore in Ue.
Intervistato dalla radio Deutschlandfunk, dopo che gli erano state fatte ascoltare le dichiarazioni del premier incaricato Enrico Letta sulla necessità di rinegoziare il rigore in Europa, il ministro delle Finanze tedesco ha spiegato che così «si disconoscono le vere cause dei problemi. E chi non riconosce le cause, fa analisi sbagliate e non arriva alla giusta terapia. Per questo occorre tenere fede a quello che abbiamo già concordato insieme» in termini di risparmio e risanamento: «Abbiamo bisogno di stabilità e crescita sostenibile».
Non si può risolvere il problema della diversa solidità dei Paesi dell’Europa «rendendo la Germania debole come gli altri», ha poi aggiunto Schaeuble.
«Sono gli altri che devono arrivare a risolvere i problemi alla radice», ha concluso.
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Aprile 25th, 2013 Riccardo Fucile
L’IMPRENDITORE COMASCO BRENNA: “LE ULTIME USCITE DI GRILLO SONO STATE PENOSE”
«Dario Fo? Gino Strada? Stefano Rodotà ? Ma per l’amor di Dio!!!». 
Graziano Brenna, imprenditore, vicepresidente di Confindustria Como, una vita a votare a destra, due mesi fa s’era fatto sedurre da Beppe Grillo e l’aveva votato.
Oggi dice che non lo rifarà più e invoca l’amore dell’Altissimo quasi a chiedere perdono per essersi lasciato ingannare da un diavolo: «Quello non è il mio mondo. Troppo di sinistra».
Come Graziano Brenna, nel Nord già leghista e berlusconiano ce ne sono molti.
«Quando ho detto che avrei votato Grillo, io che per vent’anni ho votato il Cavaliere, nel mio mondo mi sono attirato qualche simpatia e soprattutto molte antipatie. Però le garantisco», mi dice Brenna, «che sono tanti i miei colleghi che hanno lasciato la Lega e il Pdl per votare il MoVimento Cinque Stelle. Oggi non lo rivoterebbero più. Sa che cosa diciamo, noi che nel giro di soli due mesi siamo passati da neogrillini a ex grillini? Che quel movimento lì ha un’anima da sinistra antagonista, radicale. Altro che trasversali…».
Forse il dimezzamento dei voti del M5S in Friuli dipende soprattutto da questo.
Grillo, due mesi fa, era stato abile ad attrarre a sè universi opposti.
I No Tav, la sinistra delusa, gli ambientalisti anti-inceneritori e i teorici della «decrescita felice» da una parte; ma anche, dall’altra, tutto un popolo di piccoli imprenditori, di partite Iva, di commercianti vessati da fisco e burocrazia.
Grillo tuonava contro Equitalia, urlava che le piccole imprese sono la nostra prima ricchezza e vanno aiutate, scomunicava perfino i sindacati: e tutto questo a un elettorato deluso dalle promesse mancate di Berlusconi e della Lega piaceva, e molto.
Invano «il Giornale» avvertiva: attenti, la vera radice di Grillo è quella della sinistra dei centri sociali, con il consueto pizzico di radical chic a dare «spessore» intellettuale, perchè in Italia, si sa, gli intellettuali possono essere solo di sinistra. Invano, perchè in cabina elettorale molti di centrodestra hanno commesso adulterio.
Ma sono bastati due mesi per convincere questi «grillini di destra» di aver sbagliato indirizzo.
Il risultato del Friuli — dal 27 al 14 per cento — non può essere spiegato solo con la fisiologica discrepanza tra voto per le politiche e voto amministrativo.
«La croce sul simbolo delle cinque stelle è servita», dice ancora Brenna, «a mandare a casa buona parte dei vecchi politici. Ma Grillo non lo voterò più. Le sue ultime uscite sono state penose. Il colpo di Stato, la marcia su Roma… Ma per favore».
Una che ha il polso della rabbia dei piccoli imprenditori del Nord contro Equitalia e le banche (due dei bersagli preferiti di Grillo) è Wally Bonvicini, che a Parma ha messo in piedi un’associazione, Federitalia, che assiste appunto «i tartassati».
«Sento centinaia di piccoli imprenditori», mi racconta, «che due mesi fa hanno abbandonato Lega e Pdl per votare Grillo. Tutti mi dicono che oggi col piffero che lo rivoterebbero».
Perchè troppo di sinistra? Anche, ma non solo: «Hanno capito che il MoVimento Cinque Stelle non ha fatto nulla per loro. Sa perchè? Perchè non hanno la cultura della piccola impresa. Sono bravi ragazzi, simpatici, ma — come posso dire? — privi di robustezza psicologica. Sono quasi tutti ex lavoratori dipendenti e per carità , non c’è niente di male: ma voglio dire che non hanno la consuetudine alla trattativa, al cercare di cavarsela da sè. E questa, nei contenziosi con Equitalia e con le banche, è una lacuna che pesa».
In più, per una di Parma, pesa anche l’esperienza della giunta grillina: «Non hanno fatto niente. Provi a girare in città : le strade sono piene di buche», è la sentenza impietosa di Wally Bonvicini.
Ma poi. Perfino da sinistra dicono che quelli di Grillo sono troppo di sinistra. Nel senso di estremisti.
Racconta Patrizia Maestri, deputata Pd di Parma: «L’altro ieri ho fatto un appello al sindaco Federico Pizzarotti, che è una persona moderata, affinchè Grillo prendesse le distanze dalla caccia all’uomo per le vie di Roma seguita all’elezione di Napolitano. Pensi che lui ha risposto dicendo di trovare “gravi” le mie “insinuazioni”, e il consigliere comunale grillino Mauro Nuzzo mi ha intimato di “non oltrepassare il limite del ridicolo”. Mah».
Torneranno, i delusi da Grillo, ai vecchi amori? «Per quanto mi riguarda no», dice Graziano Brenna: «Non ne possiamo più nè di Berlusconi nè di Bersani o Franceschini. Spero nei giovani, da Renzi alla Meloni».
Il boom grillino appena cominciato è già finito?
Troppo presto, comunque, per dirlo: i partiti sono ancora capaci di rianimarlo, suicidandosi. Dipende da loro.
Michele Brambilla
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Aprile 25th, 2013 Riccardo Fucile
DALLE CASSE DELLA FONDAZIONE MONTEPASCHI SONO USCITI UN MARE DI SOLDI NELL’ERA MUSSARI-MANCINI REGALI MILIONARI A ESPONENTI DI DESTRA E SINISTRA
Dalla fondazione Ravello, oggi presieduta dall’attuale capogruppo del Pdl, Renato Brunetta, alla Giuseppe Di Vittorio della Cgil.
Dai circoli Arci alla fondazione Craxi, fondata e presieduta da Stefania.
Fino ai bonifici per l’ex senatore del Pdl, ora candidato sindaco a Pisa e storico braccio destro dell’ex ministro Altero Matteoli, Franco Mugnai (legale nel caso Ampugnano).
Poi fondi a tutte le amministrazioni a guida Pd della Toscana. A partire dalla Regione fino a numerosi Comuni. Tranne uno: Gagliole, l’unico con un’amministrazione di centrodestra.
A scorrere le 400 pagine di estratto conto della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, degli anni compresi tra il 2007 e il 2009, si ricostruisce la fitta rete di sovvenzioni ed erogazioni distribuite ad amici e non.
Per lo più si tratta di fondazioni, enti, amministrazioni targate centrosinistra.
Ma Giuseppe Mussari, già passato alla guida di Rocca Salimbeni, guardava a Roma. All’Abi, dove approda nel 2010, ma anche al Palazzo nel quale sa di poter confidare in rapporti trasversali, da Giuliano Amato a Giulio Tremonti.
Siena doveva essere solo un trampolino di lancio, come spiegano negli atti i pm titolari dell’inchiesta sull’acquisto Antonveneta, Aldo Natalini, Antonino Nastasi e Giuseppe Grosso.
Banca e fondazione un utile portafoglio. Si sponsorizza tutto.
Dai circoli ricreativi alle associazioni politiche, come la Karl Popper che, di matrice socialista, appoggia, negli anni, i due sindaci Maurizio Cenni e Franco Ceccuzzi. Quest’ultimo costretto a rinunciare a ricandidarsi perchè avrebbe raggiunto un accordo di spartizione con Denis Verdini.
L’indagine è ancora in corso.
Da Siena i soldi vanno anche a Lecce: arcidiocesi (120 mila euro), varie onlus e 50 mila euro alla provincia. Guidata da Antonio Maria Gabellone, ex Dc oggi Pdl, legato a Vincenzo De Bustis e, in particolare a Lorenzo Gorgoni, membro del Cda di Mps. Ma è anche terra politica di Massimo D’Alema e della Banca 121 acquistata da Rocca Salimbeni.
I versamenti sono compresi tra i diecimila euro e i due milioni, che vanno alla fondazione Ravello, per un importo complessivo che sfiora il miliardo e che si perde nel totale delle uscite della Fondazione: 17.983.686.939 euro complessivi di movimentazione in 36 mesi.
Per lo più dovuta alle operazioni di compravendita sui mercati in vista dell’aumento di capitale per l’acquisto di Antonveneta.
Alimentata dai fondi versati all’Università cittadina, alle società del Comune e di sviluppo, alla diocesi, alle contrade del Palio.
Fino ad assottigliarsi e perdersi in mille rivoli con bonifici da 50 mila euro anche a singoli preti.
Meglio assicurarsi la buona parola di tutti.
Tra i 3 miliardi versati per l’aumento di capitale per l’acquisto di Antonveneta ai piccoli bonifici ci sono, ad esempio, uscite per dieci milioni alla Cressidra Sgr Spa, un gestore di fondi chiusi riservati nonchè azionista di Anima Sgr insieme a Banca Popolare di Milano, Credito Valtellinese e la stessa Banca Monte dei Paschi.
Rocca Salimbeni condivide con Anima il presidente dei sindaci: Tommaso Di Tanno, oggi indagato.
Tra i più noti tributaristi italiani, legato ai Ds, in particolar modo a D’Alema e Vincenzo Visco, di cui è stato consigliere economico in via XX Settembre, Di Tanno non si è accorto della voragine che Mussari, Gianluca Baldassarri e Antonio Vigni, hanno creato in Mps.
E’ stato anche revisore dei bilanci dei partiti per Montecitorio.
L’elenco delle uscite è infinito.
L’estratto conto è negli atti del processo per l’aeroporto Ampugnano che vede Mussari rinviato a giudizio per falso ideologico in concorso e turbativa d’asta.
Parte della documentazione raccolta durante le indagini, in particolare quella relativa alla Fondazione e a Mps, è confluita nell’inchiesta sull’acquisto di Antonveneta. Nulla, al momento, sarebbe stato rilevato di anomalo nelle operazioni partite dal conto corrente della Fondazione.
A subire il contraccolpo maggiore è stata la città , dal Comune all’Università , dall’azienda ospedaliera alle contrade del Palio, che si sono ritrovate private, da un anno all’altro, delle laute erogazioni.
Il Comune, da un anno
Se ne sarà fatta ormai una ragione, invece, Brunetta. La fondazione Ravello, che stava a cuore a Mussari anche per la presenza di Filippo Patroni Griffi nel consiglio generale di indirizzo, non riceve più nulla.
Così come la fondazione Craxi: ultimo bonifico ricevuto 15 mila euro nel marzo 2009.
L’anno successivo le erogazioni concesse si sono fermate a complessivi 109 milioni e su un totale di 2657 domande presentate solamente 779 sono state soddisfatte.
Nel 2012 sono state ulteriormente ridotte a 21 milioni e per il 2013 è previsto lo stanziamento di appena cinque milioni di euro.
Da Mps, del resto, non arrivano più i dividendi frutto del “maquillage bilancistico” di Mussari e la banda del 5 per cento.
Davide Vecchi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 25th, 2013 Riccardo Fucile
IL LORO RIFERIMENTO E’ CIVATI, ARRIVA LA DIFFIDA DEL PARTITO A USARE IL SIMBOLO… LA RIBELLIONE: “IO NON POSSO USARE IL SIMBOLO E VOI POTETE USARE IL MIO VOTO PER UN GOVERNO CONTRARIO A QUELLO PER CUI VI HO VOTATO?
Non ci stavano, e non ci stanno. 
La rivolta dei Giovani Democratici contro il governissimo, ormai nota come #occupypd, continua, con sedi occupate in decine di città e una valanga di invettive (“bruciamo le tessere”), appelli e idee a riempire il web.
Una febbre che ha contagiato iscritti e simpatizzanti di ogni età e luogo.
Il nume tutelare di tanti ‘insorti’ pare Giuseppe Civati, parlamentare giovane (37 anni) e informatizzato.
I suoi tweet contro l’accordo con il Pdl ieri sono rimbalzati su centinaia di profili web. Ma la rete brulica di proposte.
Daniele Viotti, 39 anni, militante democratico a Torino, ha diffuso su Facebook un appello ai parlamentari del suo collegio: “Non votate il governissimo, ve lo chiedo, vi scongiuro, per noi e per l’Italia”.
E un “alto dirigente” del partito torinese gli ha subito telefonato: “Mi ha detto che non posso usare il simbolo del Pd sull’appello, perchè serviva l’autorizzazione del partito. E dire che per mesi avevo cercato di parlargli, inutilmente. La verità è che questi dirigenti si sentono accerchiati: ma io non voglio accerchiare nessuno, voglio confrontarmi”.
Intanto l’appello è rimasto sul web, assieme alla risposta di Viotti: “Io non posso usare il simbolo, e voi potete usare il mio voto per un governo contrario a quello per cui vi ho votato?”.
Il giornalista Daniele Bianchessi propone una manifestazione nazionale a Roma di tutti gli elettori del Pd, “con — tro il governo delle larghe intese”.
Mentre su Twitter semina consensi l’hashtag #lettanonèilmiopresidente.
Ma a dominare la scena sono sempre i Gd, che vogliono cambiare la rotta del partito. Come i ragazzi di Palermo, che da cinque giorni occupano la sede provinciale.
“Siamo contrari a questo governo e a questi dirigenti, che non rappresentano più il mandato per cui sono stati eletti” spiegavano ieri ad Agorà , su Rai3.
Alternative? “Volevamo un governo di scopo”.
Occupazioni in serie in Abruzzo, con i Gd de L’Aquila che esortano: “Non bruciate le tessere, rifondiamo assieme il partito”.
Niente occupazione ma un’affollata direzione provinciale ieri sera a Milano, aperta a tutti.
Perchè c’è tanta voglia di ritrovarsi, nonostante tutto.
Luca De Carolis
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 25th, 2013 Riccardo Fucile
IL PDL CHIEDE GLI INTERNI E LA GIUSTIZIA… L’ALTERNATIVA: IN CAMPO SOLO LE SECONDE FILE
Il nuovo inciucio nasce sotto il segno di Letta nipote e dello schifo. Parola del parlamentare prodiano del Pd Sandro Gozi, che dice: “A me un governissimo iperpolitico con dentro la Gelmini e Quagliariello farebbe molto schifo”.
Risponde Maurizio Gasparri del Pdl: “A me farebbe schifo Gozi se sapessi chi è”.
Battute a parte, il nodo dello schifo, più unilaterale che reciproco, cioè del Pd verso il Pdl, è destinato a rendere abbastanza stretto il sentiero del premier incaricato con riserva Enrico Letta.
Il quale, non a caso, rispetto ai tempi previsti farà un po’ più tardi: la lista dei ministri, che saranno diciotto, arriverà entro domenica al Colle.
Di conseguenza la fiducia slitta a inizio della prossima settimana, tra lunedì e martedì.
Ad alzare la fatidica asticella nelle trattative partite ieri è stato il Cavaliere dagli Stati Uniti, in collegamento telefonico con lo stato maggiore del Pdl: Angelino Alfano, Denis Verdini, Fabrizio Cicchitto, Maurizio Gasparri, pure Daniela Santanchè.
La paura del centrodestra, che già sente odore di trappolone, è un governo di seconde file, “un governicchio balneare” secondo la definizione di Alfano, che di fatto disimpegnerebbe il Pd.
Berlusconi invece vuole un impegno ai massimi livelli, di qui l’ordine impartito ai suoi fedelissimi: “Abbiamo già rinunciato ad Amato premier, a questo punto il centrosinistra ha premier, presidente del Senato e presidente della Camera, ci vuole un fortissimo riequilibrio”.
Ed è per questo che la rosa dei ministri del Pdl vede in primissima fila il segretario Alfano, vicepremier in pectore, i capigruppo Schifani e Brunetta, alias i due Renati, Mariastella Gelmini, il saggio Gaetano Quagliariello.
Per Schifani sarebbe stata già avanzata la richiesta di due ministeri chiave: l’Interno (da cui gestire le prossime elezioni politiche, quasi sicuramente anticipate) oppure la Giustizia, inutile dire perchè alla luce dei guai del Cavaliere.
Poi c’è la questione dell’Economia , il vero contrappeso alla premiership di Enrico Letta.
Una sorta di premier ombra per la destra, visto che per B. il primo punto del programma dovrà essere l’arrembaggio all’Imu, ossia restituzione e abrogazione dell’odioso balzello sulla casa.
In merito si segnala il clamoroso pressing dei falchi del Pdl su Berlusconi, che va ben oltre la provocazione.
Un’ipotesi che renderebbe già morto e sepolto il governo di Letta nipote: “Caro Silvio, per evitare trappole e non trovarci di fronte fra tre mesi a un ribaltone tra Pd e grillini contro di te e contro di noi, fai tu il ministro dell’Economia”.
Una condizione per rompere più che per trattare, ma che dà alla perfezione il clima di sospetto e di diffidenza che circola nel Pdl.
Il nodo dello schifo, cioè dei ministri impresentabili del Pdl, impossibili da far digerire, potrebbe essere aggirato dai democratici con la proposta di seconde file e di personalità della società civile, modello saggi di Napolitano.
Sotto lo scudo della novità , con esponenti mai stati al governo, il Pd risponderebbe alle richieste di Napolitano e B. sul governo politico con una massiccia iniezione di cosiddette seconde file, non di big: Sergio Chiamparino e Graziano Delrio per i renziani; Davide Zoggia per i bersaniani; persino qualche giovane turco come Andrea Orlando.
Letta ha anche in testa nomi da pescare all’esterno, in grado di parlare al mondo grillino, per esempio Salvatore Settis alla Cultura.
Ma nel Pd la discussione è animata: Massimo D’Alema e Anna Finocchiaro sono per adeguarsi al Pdl e non fornire un contributo di serie B.
La partita è complessa e “rischia di incartarsi”, per dirla con una fonte democrat.
Il totoministri contempla anche l’ipotesi che il Pdl accetti le richieste del Pd e indichi esponenti mai stati ministri, a eccezione del segretario Alfano.
In questo caso, oltre a Quagliariello, entrerebbero in ballo Maurizio Lupi e Donato Bruno.
Per i centristi di Scelta Civica molto probabili sono i nomi di Mario Mauro e Lorenzo Dellai mentre a Mario Monti potrebbe andare la guida della nuova Bicamerale, ossia la Convenzione per le riforme.
L’attuale premier sconta il veto del Pdl: “Non vogliamo nel governo l’uomo dell’Imu”.
Per la serie, c’è sempre qualcuno più impresentabile di te.
In questa trattativa in cui iniziano a dominare richieste impossibili, tutti, compre Letta, dovranno fare i conti con il vero dominus dell’esecutivo: Giorgio Napolitano.
A lui spetterà l’ultima parola sui ministeri chiave: Economia, Interno, Difesa, Esteri, Giustizia.
Impensabile, quindi, che in Europa ci vada a parlare Brunetta, come numero uno di via XX Settembre.
Meglio piuttosto Fabrizio Saccomanni, dg di Bankitalia.
Così come la Giustizia, snodo delicatissimo: Luciano Violante o Franco Gallo, presidente della Consulta.
Il nuovo inciucio si farà ma non si sa ancora come.
Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 25th, 2013 Riccardo Fucile
DALLA VITTORIA NELLE PRIMARIE AL GOVERNO DELL’INCIUCIO
Benchè i colpi di scena, veri o apparenti, incalzino, vorrei ricapitolare che cosa (mi pare) è successo. 
Vinte nettamente le primarie, Bersani ha fatto una campagna attendista. Era convinto che il successo fosse già nel sacco.
Ci teneva come all’occasione culminante della sua vicenda militante, e si proponeva di usare la vittoria per rinnovare fortemente la composizione del Pd e per cimentarsi con un governo che rompesse col feticcio dell’austerità .
Dopo la delusione elettorale, ha investito sulla propria debolezza per stanare la demagogia grillista: ottenerne una collaborazione, o svelarne il nullismo.
Bersani aveva un punto fermo: nessun accordo di governo con il Pdl.
Attorno a lui si moltiplicavano i dissensi, malcelati e via via più trasparenti.
Avrebbe potuto rinunciare alla candidatura al governo: ci si può chiedere se ci fossero altri accreditati e risoluti altrettanto a non trattare del governo con Berlusconi.
La resistenza di Bersani (tenace oltre ogni previsione, e non spiegabile con una disperata ambizione personale) aveva una sola prospettiva: che Napolitano lo mandasse alle Camere.
Lì, se non un calcolo politico, il dolore sentitissimo di tanta parte, e trasversale, dei nuovi eletti per l’eventualità di tornarsene a casa, avrebbe potuto dargli una striminzita e caduca fiducia, di cui però avrebbe potuto approfittare per prendere tre o quattro iniziative radicali, a cominciare dalla legge elettorale.
Se fosse stato sfiduciato, avrebbe potuto guidare un governo provvisorio per l’elezione al Quirinale e la successiva campagna elettorale anticipata.
Napolitano non ne ha voluto sapere: aveva le sue ragioni, ma sia lui che i numerosi esponenti del Pd che mordevano il freno e davano segni di impazienza crescente nei confronti di Bersani e della “perdita di tempo”, rivendicavano di fatto (guardandosi dal dirlo, nella maggior parte dei casi) un accordo di governo con il Pdl.
Bersani ha tenuto duro a oltranza, posponendo la questione del governo alla rielezione al Quirinale, così da ammorbidire l’esclusione del Pdl grazie alla distinzione fra governo e Presidenza della Repubblica, quest’ultima costituzionalmente orientata alla più vasta condivisione.
Ha qui fatto due o tre errori fatali: ha creduto che quella distinzione fosse chiara; ha ritenuto che fosse convincente per la base e l’elettorato di sinistra; si è illuso che il notabilato del Pd lo seguisse.
Soprattutto, non ha formulato pubblicamente il nome o i nomi dei candidati che il Pd avrebbe proposto a tutte le altre forze politiche.
Così, mentre un nome degno come quello di Marini passava per scelto da Berlusconi, Grillo candidava Rodotà , persona esemplare per uno schieramento di sinistra dei diritti civili e dei movimenti.
I 5Stelle erano fino a quel punto piuttosto nell’angolo, essendo evidente come il loro compiaciuto infantilismo settario (oltre che l’insipienza dei loro portavoce) facesse dissipare un’inverosimile opportunità di riforme e regalasse al centrodestra una forza di ricatto insperata.
Del disastro della notte e del giorno di Marini (che non lo meritava) inutile ripetere: Bersani ne è uscito, dopo 50 giorni di resistenza catoniana, come un inciucista finalmente smascherato. (Ve li ricordate, dal primo giorno, i titoli “da sinistra” sull’inciucio avvenuto?).
Avrebbe potuto il Pd aderire alla candidatura di Rodotà , come tanti hanno auspicato? Forse: sarebbe stata una capitolazione nei confronti dei 5Stelle, che in Rodotà avevano visto soprattutto una ghiotta occasione per imbarazzare il Pd, ma cedere a una pretesa strumentale e arrogante può non essere un errore.
Lo considererei più nettamente tale se Rodotà avesse risposto all’offerta della candidatura dichiarando che l’avrebbe accettata solo nel caso che fosse di tutta la sinistra: Scalfari ha fatto un’osservazione simile.
I 5Stelle hanno sventolato il nome di Rodotà come una loro stretta bandiera, e al tempo stesso l’hanno proclamato come il candidato di tutti gli italiani contro quelli del Palazzo.
Gli italiani avevano moltissimi altri candidati degni, per fortuna, e le stesse consultazioni varie lo mostravano (com’è noto, Emma Bonino era la preferita: è diventato un tic, gli italiani ce l’hanno, i politici non ci fanno più caso).
La postuma pubblicazione di voti e preferenze delle cosiddette (pessimamente) quirinarie, hanno aggiunto un tocco di ridicolo al tono grillista.
Bene: quando si sbaglia, specialmente se in buonissima fede, è buona norma di lasciar perdere, pena la valanga.
La candidatura brusca di Prodi — meritevolissima — è stata la toppa peggiore del buco. E ha mostrato come il Pd non abbia, come si dice, “due anime”, ma forse nemmeno una, e invece una quantità di cordate e bande, tenute assieme da altro che le divergenze politiche.
Le convinzioni politiche sono la cosa più importante in un partito che aspira, come si dice, a cambiare il mondo, tranne un’altra: l’amicizia fra i suoi membri e i suoi militanti.
Per questo la scissione è forse un pericolo, ma non una cosa seria: la frantumazione sì. Sarebbe bene che ne tenesse conto chiunque si proponga davvero di “rifondare” (verbo inquietante) il Pd, e sia tentato da escursioni minoritarie.
Eravamo al punto in cui il Pd, in stato del tutto confusionario, era a rimorchio della demagogia a 5Stelle da una parte — e di sue piazze scandalizzate e scandalose — della furbizia di Berlusconi dall’altra.
L’elezione di Napolitano (una pazzia, in un mondo normale: un uomo molto vecchio che si era finalmente preparato uno scampolo di esistenza privata) è stata un escamotage provvidenziale: il suo effetto, quel governo delle “larghe intese” che si voleva escludere a priori, è il boccone più indigesto.
È, amara ironia, il rovescio della distinzione cui Bersani aveva confidato la sua ostinazione, fra governo mai col Pdl e Quirinale condiviso: Quirinale confermato, e governo condiviso, a capo chino.
I 5Stelle? Le mosse furbe hanno gambe corte.
I portavoce hanno spiegato che i voti in Friuli-Venezia Giulia sono quelli normali nelle regioni.
Però il capo aveva annunciato che sarebbe stata la prima regione in loro mani.
Credo che le persone che li avevano votati e hanno sentito sprecato il loro voto siano molte.
Il bilancio provvisorio, con 5Stelle e Pd in caduta, e il Pdl in ascesa, è un capolavoro.
Vorrei aggiungere una cosa.
Ci sono molti aspetti della situazione attuale che ricordano, ben più del precedente di Mani Pulite, quello remoto del primo dopoguerra, quasi cent’anni fa.
Non c’era una distinzione così netta di sinistra e destra.
Le file del fascismo movimento erano piene di ex-socialisti, interventisti rivoluzionari, sindacalisti soreliani, massimalisti di ogni genere.
Non era così chiaro, e a distanza di tanti anni fu penoso per tanti chiedersi da che parte erano stati, e perchè, e come fosse stato possibile.
A suo modo, e con una gran dose di autoindulgenza, Grillo evoca questa ambiguità quando ripete che il suo movimento è l’argine italiano all’Alba dorata greca o al lepenismo e alle altre insorgenze neonaziste in Europa.
Il programma dei 5Stelle contiene molti obiettivi buoni per una sinistra della conversione ecologica, e anzi da quest’ultima pensati e proposti da lungo tempo.
La differenza sta altrove, nel Vaffanculo, nei Morti che camminano, nel Tutti a casa. La differenza fra il federalismo verde e aperto di Alex Langer e il razzista federalismo leghista passava dalle imprecazioni di Bossi e dei suoi.
I buoni programmi smettono di essere minoritari e vincono quando vengono distorti e incattiviti dalla demagogia.
“La gente” non ha infinite ragioni alla sua ribellione contro i privilegi e l’impudenza dei potenti? Certo.
Ma che i parlamentari escano da Montecitorio da una porta secondaria — se è andata così — è un episodio di violenza e di viltà vergognose.
A proposito del 25 aprile.
Adriano Sofri
(da “La Repubblica”)
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Aprile 25th, 2013 Riccardo Fucile
IL PDL PROPONE SCHIFANI MA PUNTA SUL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA
Il ’94 è lontano, ma l’improvviso blitz del Pdl per stoppare la riconferma al Viminale del ministro Cancellieri e imporre al suo posto l’ex presidente del Senato Schifani, ricorda molto la perentoria richiesta di vent’anni fa di piazzare Cesare Previti alla Giustizia, subito stoppata da Scalfaro, con il suo dirottamento alla Difesa.
Il Cavaliere ci riprova, si sparge la voce del suo personale sgradimento per Anna Maria Cancellieri, l’ex prefetto cui verrebbe addebitata soprattutto la “colpa” di aver sciolto troppi comuni per mafia.
Ben 33, per l’esattezza, di cui due pure ieri, Montebello Jonico e Giugliano, durante l’ultimo consiglio dei ministri.
Lei era in missione a Tunisi, ma le sue richieste sono state ugualmente approvate.
Lo sgarbo più grave che Cancellieri avrebbe inferto ai berlusconiani sarebbe stato quello di aver sciolto il Comune di Reggio Calabria, retto da un sindaco Pdl, erede del governatore in carica Scopelliti.
«Buttano in aria il tavolo dell’Interno, ma in realtà puntano alla Giustizia» dicono buone fonti del Pd.
E in effetti proprio l’ex presidente del Senato Renato Schifani, oggi nel ruolo di capogruppo, smentisce seccamente una sua possibile destinazione all’Interno – «Non c’è nessun veto sulla Cancellieri, non abbiamo parlato di ministri» – ma fa la voce grossa sulla giustizia.
Eccolo annunciare: «Non faremo la guerra ai magistrati, ma occorre fare delle riforme della giustizia che riconducano i poteri dei pm nell’ambito del rapporto con la difesa e altre riforme come le intercettazioni ».
Misure praticamente tombali, visto che con la prima si ripropone quel “processo lungo” che si è arenato con la fine dell’ultimo governo Berlusconi, e con la seconda si mette il bavaglio ai magistrati e alla stampa.
Il solito Pdl, insomma.
Circola perfino il nome di un possibile ministro, Maria Stella Gelmini.
Che se dovesse sedersi in via Arenula come seconda donna nella storia del ministero, per certo obbedirebbe a bacchetta al Cavaliere.
Sia o non sia un diversivo, un falso scopo, fatto sta che la candidatura di Schifani balla per tutto il pomeriggio.
Fonti vicine a Cancellieri dicono che il ministro, appena atterrata a Roma da Tunisi, lo avrebbe appreso dal sito web di Repubblica.
Quanto basta per rifiutare un replica diretta e far dire ai suoi che «lei non ne sapeva niente». Intorno alle 18, mentre visita al Vittoriano la mostra su Machiavelli, Cancellieri apprende i dettagli dell’ipotetica candidatura di Schifani, compreso quello che Napolitano gli avrebbe subito sbarrato la strada.
Ma lei, sempre riservata, non fa commenti. I suoi non nascondono una certa meraviglia per il comportamento del Pdl che, fino a una settimana fa, pareva pronto ad appoggiare la sua candidatura al Quirinale sponsorizzata da Scelta civica di Monti.
Resta l’ipotesi di Schifani sia per l’Interno che per la Giustizia.
A Palermo l’inchiesta che lo riguarda non è stata ancora chiusa, anche se l’ultimo atto dell’ex procuratore aggiunto Antonio Ingroia, con i pm Nino Di Matteo e Lia Sava, prima di lasciare Palermo per il Guatemala, è stato quello di depositare al gip una richiesta di archiviazione per concorso esterno in associazione mafiosa.
A decidere sarà Pier Giorgio Morosini, il magistrato che ha rinviato a giudizio gli imputati del processo sulla trattativa Stato-mafia.
L’inchiesta su Schifani era stata riaperta due anni fa dopo le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza che disse di aver visto l’allora avvocato Schifani in un deposito a Brancaccio abitualmente frequentato dai fratelli Graviano.
La procura ha monitorato la sua attività di civilista e ha concluso per l’archiviazione. Ma è fin troppo evidente che, nell’incertezza di quali saranno le conclusioni di Morosini, Schifani ovunque può andare tranne che a dirigere il Viminale.
Liana Milella
(da “La Repubblica“)
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