Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
I RIBELLI GRILLINI SI SONO CONTATI: SAREBBERO 20 ALLA CAMERA E 15 AL SENATO…. CIVATI LAVORA ALLA MEDIAZIONE, PROGETTO PER TAGLIARE FUORI BERLUSCONI
«D’Alema 2.0». O anche, più precisamente, «il partito di Rodotà ».
Che sembrano due cose diverse. E invece sono la stessa.
Prima era un’idea confusa, presumibilmente figlia di una leggenda. Poi, nel corso delle settimane, è diventata uno strano sogno.
Una discussione tra un piccolo pezzo del Pd e una parte minoritaria del Movimento 5 Stelle che con Grillo non si trova più in sintonia.
Da ieri, dopo una telefonata, è diventato un minuscolo cantiere visionario, che vuole archiviare per sempre l’era berlusconiana, riconnettendo la sensibilità delusa della pancia del centrosinistra (a partire da OccupyPd) con la propria supposta classe dirigente.
«Professore, le piacerebbe farci da premier? ». Rodotà , a Berlino per un convegno, non si sarebbe fatto trovare impreparato.
Così si è schiuso l’embrione di un mondo. Un micro-universo parallelo, che fonda la sua esistenza su una domanda: se cade il governo, è inevitabile tornare a votare rischiando di riconsegnare l’Italia al Cavaliere?
Un passo indietro aiuta a capire il dibattito.
Il punto di partenza è la leggenda.
Una storia – infondata, secondo i presunti protagonisti – che ha galleggiato in transatlantico per settimane.
Sono i giorni imbarazzanti che precedono l’elezione del Presidente della Repubblica. Il Pd è allo sbando. Un arcipelago di isole velenose.
In una notte shakespeariana Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani si scontrano.
D’Alema chiede a Bersani di sostenere la candidatura Rodotà che porterebbe a un governo con l’appoggio dei 5 Stelle. «D’Alema 2.0», appunto.
La risposta di Bersani, dipinto come un uomo che si mette in posizione di preghiera con l’aria di chi vuole imporre un superlavoro al suo rosario, è piccata. «Mai e poi mai».
Fin qui il romanzo.
Poi comincia la vita vera, perchè la mente è una minuziosa macchina da presa che entra in tutte le stanze del passato e ti costringe a rivedere le scelte fatte.
Un gruppo di piddini cerca la parte dialogante del Movimento.
A guidarli è Pippo Civati, convinto che le assemblee di piazza nate dalla candidatura Rodotà e i plateali mal di pancia dei militanti del suo partito per l’innaturale accordo con Berlusconi, non possano essere trascurati.
Si muove riscuotendo l’attenzione di un gruppo sempre più folto di Cinque Stelle sia alla Camera sia al Senato.
L’europarlamentare Sonia Alfano lo aiuta. E persino il sindaco di Napoli De Magistris non sarebbe estraneo alla partita.
Discorsi che cadono nel vuoto, un po’ perchè l’impressione diffusa (e comprensibilmente molto forte) è che il governo non possa cadere perchè sostenuto dal Quirinale, un po’ perchè Civati ha bisogno di allargare la base del consenso interno e, infine, perchè i grillini dialoganti non hanno la forza di contarsi fino a una cena chiarificatrice di poche sere fa.
Davanti a una pizza e a una birra si ritrova un gruppo di dodici persone – deputati e senatori – che comincia a usare il pallottoliere.
«Quanti di noi sarebbero disposti a fare un gruppo pronto ad appoggiare il Pd? ».
La replica è: venti a Montecitorio, quindici a Palazzo Madama.
Stima eccessiva? In ogni caso sono questi i numeri che vengono portati al Pd, dove anche qualche dalemiano ha fatto arrivare la propria adesione all’idea.
A questo punto viene contattato Rodotà . E adesso?
Civati la mette in questo modo: «Berlusconi sappia che se fa cadere il governo in modo strumentale – o ci costringe a prendere le distanze dall’esecutivo – potrebbero esserci conseguenze non banali. C’è un fronte in Parlamento, e ancor più nel Paese, che non ha nessuna intenzione di regalare l’Italia a chi si dovesse dimostrare irresponsabile, per altro dopo esserlo stato per vent’anni».
È il primo abbozzo di Manifesto Costituivo. La voce gira.
Il giovane turco Fausto Raciti, emergente ventinovenne siciliano, non crede tanto all’ipotesi di una crisi di governo.
Eppure dice: «Se esiste questo elemento di novità è bene che il Pdl ne tenga conto ed eviti i dispetti che abbiamo visto in questi giorni. E forse tra i Cinque Stelle qualcuno ha i sensi di colpa perchè si è reso conto che un accordo era possibile».
Era o è? E quanti sono davvero i grillini pronti a salutare i vecchi amici nella certezza che il rigore trasformato in gabbia di se stesso diventa rifiuto di contaminarsi con la vita reale?
Solo se Stefano Rodotà dovesse entrare ufficialmente in questo nuovo gioco arriverebbe la risposta.
Andrea Malaguti
(da “La Stampa“)
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Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
CI VORRA’ PERO’ UN DISEGNO DI LEGGE: NEL FRATTEMPO E’ CORSA A PRENDERSI I MERITI DI UNA COSA CHE PER ORA NON C’E’
C’è l’accordo in maggioranza: il finanziamento pubblico ai partiti sarà eliminato. L’annuncio
è stato dello stesso presidente del Consiglio Enrico Letta attraverso Twitter: “Nel Cdm di oggi abbiamo trovato l’accordo sull’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti. Ora la Ragioneria deve preparare le norme fiscali del ddl”.
Tra le linee guida sulla riforma del finanziamento ai partiti vi sono “la definizione di procedure rigorose in materia di trasparenza di statuti e bilanci dei partiti” e “l’introduzione dei meccanismi di natura fiscale, fondati sulla libera scelta dei contribuenti, a favore dei partiti”.
Una legge, insomma, che cercherà di assicurare anche la trasparenza e la democraticità del funzionamento dei partiti.
Presto arriverà anche un ddl del governo per regolare l’attività delle lobbies e “la rappresentanza degli interessi economici”.
Il governo procederà con un disegno di legge, dunque, scelta che fa pensare a tempi non proprio rapidi.
Intanto pare partita la gara all’accaparramento del merito per essere arrivati a questa misura.
In mattinata era stato il sindaco di Firenze Matteo Renzi a raccontare di aver parlato “più volte con il presidente del Consiglio, su questi temi il governo procederà spedito. Durante le primarie sembravamo solo noi a dirlo ora vedo condivisione. Si parte dal testo di legge presentato da Dario Nardella, che tra l’altro è stato mio vicesindaco”. Nardella, da par suo, promette che l’abolizione del finanziamento ai partiti avverrà entro l’estate, quindi in due o tre mesi.
Esultano i senatori di area “renziana”: “L’abrogazione del rimborso elettorale ai partiti, impensabile solo qualche mese fa, è una grande vittoria politica di Matteo Renzi — dichiarano 11 democratici vicini all’ex Rottamatore — La decisione di Enrico Letta sintonizza finalmente la politica con gli umori del Paese”.
Poi, dopo il consiglio dei ministri, ha parlato il ministro della Difesa Mario Mauro: “Dopo il governo di grande coalizione, passa ancora un cavallo di battaglia di Scelta Civica: l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti in virtù di un disegno di legge proposto dal consiglio dei ministri”.
Di seguito il capogruppo del Pdl Renato Brunetta: “Bene il principio. Noi abbiamo unanostra proposta: è uno dei nostri otto disegni di legge. So che in Consiglio dei ministri hanno illustrato delle linee guida ora vediamo il testo”.
“L’abrogazione del finanziamento ai partiti — chiarisce Daniele Capezzone — è stato un punto della campagna del Pdl e di Silvio Berlusconi. Bene, quindi, l’annuncio di Enrico Letta. Ora sarebbe saggio avvicinarci al modello americano: trasparenza sulle lobbies, e favor fiscale per le donazioni private”.
In ogni caso meglio aspettare di vederlo davvero tramutato in legge…
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Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
L’ESECUTIVO PERDE IL 12% IN UN MESE… PER IL 59% DEGLI INTERVISTATI BERLUSCONI E’ INELEGGIBBILE
Il governo Letta raccoglie sempre meno fiducia negli italiani, il Pdl si conferma primo partito ma per la maggioranza di loro Silvio Berlusconi è ineleggibile.
E’ il risultato, in sintesi, di un sondaggio dell’Istituto Swg per Agorà (Rai Tre).
Il Popolo delle Libertà , secondo l’istituto diretto da Roberto Weber, guadagna quasi mezzo punto (+0,4%) e si conferma il primo partito nelle intenzioni di voto con il 27,8 per cento dei consensi.
Cresce anche il Movimento 5 Stelle (+0,8%), che raggiunge al 22,6% il Pd, in sensibile calo rispetto alla settimana scorsa (-1,4%).
In grande calo Scelta Civica (scende sotto il 5%), raggiunto dalla Lega.
Queste le intenzioni di voto (tra parentesi lo scostamento percentuale rispetto al sondaggio del 17 maggio): Pdl 27,8% (+0,4), Pd 22,6% (-1,4), M5S 22,6% (+0,8), Scelta Civica 4,9% (-0,9), Lega Nord 4,9% (+0,5), Sel 4,8% (+0,1), Udc 2,0% (+0,2), Fratelli d’Italia 1,5% (-0,3).
Cala ancora di 3 punti rispetto alla settimana scorsa la fiducia degli italiani nel governo Letta, che scende al 31 percento.
In meno di un mese il gradimento dell’esecutivo è sceso di 12 punti.
Per quanto riguarda le personalità politiche è sempre Giorgio Napolitano, nonostante i 2 punti in meno di sette giorni fa, la figura in cui gli italiani hanno più fiducia (55%). A seguire Matteo Renzi (54%), in calo di un punto rispetto alla settimana scorsa.
In discesa anche il premier Enrico Letta (-2%), che scivola al 44 percento.
Va meglio in casa Pdl, dove il segretario Angelino Alfano guadagna 2 punti e sale al 26 percento, mentre il presidente Silvio Berlusconi con un punto in più si attesta al 25 percento.
In salita anche Beppe Grillo (+2%), che raggiunge il leader del Pdl (25%).
Perdono invece 3 punti il governatore della Puglia Nichi Vendola e il senatore a vita Mario Monti, rispettivamente al 22 e 18 percento.
Cala di 5 punti, infine, la fiducia nel segretario del Pd Guglielmo Epifani, anche lui al 18 percento.
Per oltre la metà degli italiani (59%), infine, Silvio Berlusconi è ineleggibile.
Ad esserne convinto è quasi la totalità dell’elettorato del Movimento 5 Stelle (92%) e un’ampia fascia di centrosinistra (87%).
Opposto il punto di vista degli elettori di centrodestra (10% pensa sia ineleggibile). L’istituto ha anche chiesto a chi vada attribuito il merito dello stop dell’Imu: per il 47 percento degli italiani la sospensione dell’imposta è merito di Berlusconi, mentre solo il 19 percento ritiene che l’iniziativa sia da attribuire a Letta.
Il 75 percento, però, tra lo stop alla tassa sulla prima casa e scongiurare l’aumento dell’Iva a luglio preferirebbe la seconda opzione.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
DA FINI A FRATELLI D’ITALIA PASSANDO PER CASA POUND, STORACE E ALEMANNO: PIU’ CHE DECLINO, DISSOLUZIONE PER SFINIMENTO, E NON E’ DETTO CHE SIA UN MALE
Mai così marginale, ininfluente, inafferrabile dal secondo Dopoguerra a oggi. 
Così si offre la destra italiana allo sguardo di chi voglia misurarne il battito cardiaco dopo le elezioni politiche del febbraio scorso.
Malgrado alcuni recenti, non disprezzabili tentativi di dilatarne la rappresentazione includendovi la ventennale vicenda berlusconiana (vedi Antonio Polito nel suo “In fondo a destra”, Rizzoli), la destra qui presa in esame è quella post fascista nelle sue più sottili ramificazioni, secondo la filiera che dal Movimento sociale italiano ha via via generato: Alleanza nazionale (1995-2008), un terzo del Pdl guidato da Gianfranco Fini (2008-2012), la Destra di Francesco Storace (2007) e Fratelli d’Italia (2012).
La quota di ex missini rimasta nel partito berlusconiano e riconducibile a Maurizio Gasparri ha programmaticamente rinunciato a un collegamento esplicito con l’area politico-semantica della destra.
All’inventario delle sigle va naturalmente aggiunta la formazione di Fini, Futuro e libertà (2011), disastrosa scommessa personale del più longevo e discusso leader nella storia post fascista. Quanto alle così dette forze residuali anti sistemiche presentatesi agli elettori, da CasaPound e Forza nuova alle innumerevoli fiammelle sparse, la totalità dei loro voti è appena superiore alla loro completa irrilevanza sulla scena
I numeri fuoriusciti dall’ordalia delle urne — Fratelli d’Italia 1,95 per cento; la Destra 0,64 per cento; Futuro e libertà 0,46 per cento; Forza Nuova 0,26 per cento; CasaPound Italia 0,14 per cento; Fiamma tricolore 0,13 per cento — ci dicono al dunque che i vari affluenti della destra italiana sono oggi rappresentati da una decina di Parlamentari (nove FdI; due finiani uno dei quali, Benedetto Della Vedova, viene dal Partito radicale).
E’ un dato di grande interesse politico, poichè segnala la quasi sopraggiunta estinzione di un equivoco storico nato nel 1995 a Fiuggi, quando l’Msi si è suicidato nel letto di Procuste di An senza neppure la forza di elaborare il proprio lutto.
Molte delle prefiche di allora versarono lacrime d’occasione senza aver ancora compreso di candidarsi, in quel preciso momento, al ruolo di esecutrici testamentarie del mondo che veniva da Giorgio Almirante, Arturo Michelini e Pino Romualdi.
Ma questa è una tragicommedia già ampiamente vivisezionata (ce ne siamo occupati nel 2007 con “Il passo delle oche”, Einaudi).
La novità del momento è questa: ammessa per ipotesi retorica che la temperie del Ventennio mussoliniano sia rappresentabile come una possente tempesta d’acciaio piombata sui cieli italici dal 1922 al 1945, a distanza di quasi settant’anni si stanno definitivamente prosciugando le pozzanghere di quella tempesta, gli acquitrini sopravvissuti al Fascismo.
Come ha scritto il terzaforzista Gabriele Adinolfi, “adesso non veniteci a cantare la solita solfa della riunificazione. Il Msi è stato definitivamente sotterrato. Se non si riuscirà a immaginare e concretizzare un futuro peronista non si potrà che assistere al continuo declino per scissioni” (noreporter.org).
Ma più che di declino è bene parlare di dissoluzione per sfinimento. E non è detto che sia un male.
La scomparsa di cui stiamo parlando riguarda anzitutto una “classe dirigente”: uomini e donne che autoproclamandosi “di destra” hanno progressivamente dissipato una rendita ben radicata nell’Italia del Novecento, dimostrandosi completamente inadatti a rappresentare le idee e le istanze delle quali s’erano improvvisati cantori e portavoce.
A meno di ritenere, e non è così, che nel corredo genetico della destra siano contenuti come legge di natura l’insopprimibile tendenza al malgoverno e, in casi non rari, alla delinquenza. L’esperienza della destra di potere, appuntamento epocale reso possibile dall’affiliazione al berlusconismo, è al riguardo un banco di prova inoppugnabile.
Messa più volte, dal 1994 a oggi, in condizioni di governare l’Italia da Palazzo Chigi, senza contare numerose regioni e altrettanto importanti enti locali, la destra si è sfarinata elettoralmente e ha rovinosamente perduto la sua credibilità politica.
Il corredo di scandali, denunce per nepotismo e inchieste giudiziarie che ha accompagnato la fine della giunta Polverini nel Lazio e che accompagna ora l’ingloriosa fine-sindacatura romana di Gianni Alemanno vale come testimonianza plastica di una bancarotta morale non meno che strategica.
Che tutto questo sia stato possibile è un fatto, per quanto stupefacente agli occhi del senso comune.
Come tutto questo sia avvenuto è questione sulla quale dovrà soffermarsi chiunque si sentirà chiamato a ricostruire sulle rovine della destra.
Che fai, mi cacci?
C’è stato un momento nel quale la così detta destra finiana, già contrafforte malgrè soi del neonato Popolo della libertà , ha dato l’impressione di volersi sottrarre a una subalternità non più tollerabile nei confronti di Silvio Berlusconi.
Nel 2010, sorretto dalle speranze variopinte dei mezzi d’informazione persuasi dell’imminente trapasso del berlusconismo, Gianfranco Fini si è intestato la battaglia del patricida.
Accusato d’infedeltà e ingratitudine dai pretoriani del Cavaliere (molti dei quali provenienti dalle file di Alleanza nazionale), Fini ha dato l’impressione di voler costruire una destra di stampo europeo, un po’ neogollista (tendenza Chirac), un po’ troppo giovanilistica, con punte di radicalismo sociale (la battaglia per il riconoscimento dello ius soli agli extracomunitari, una certa improntitudine sulle questioni di natura bioetica) e non senza occhieggiamenti verso il così detto establishment editorial-finanziario dichiaratamente ostile a Berlusconi.
Malgrado i notevoli chiaroscuri biografici dell’allora presidente della Camera, compresa la brutta storia della casa di Montecarlo appartenente alla Fondazione di An e assegnata per vie tortuose al cognato di Fini, la sola volontà di rompere con il patriarca di Arcore sembrava trovare un promettente riscontro nei sondaggi.
Uno psichismo diffusamente compiacente verso l’impresa finiana ha insinuato nei protagonisti della rottura la certezza di poter vincere per vie parlamentari, infliggendo una sfiducia brutale al governo Berlusconi.
All’immediato fallimento dell’espediente tattico, non è seguita una fase di riorganizzazione politica e di ridefinizione culturale autentica.
Semplicemente, Fini e i suoi hanno immaginato di dover soltanto rinviare il tempo della vendemmia.
Negli interstizi dell’attesa è emerso il vuoto della proposta di Futuro e libertà : tagliati i ponti con il passato prossimo (del passato remoto è inutile qui parlare ancora), a Fini è riuscita più congeniale l’eliminazione diretta della parola “destra” dal proprio arsenale retorico.
La sua offerta si è richiamata anzi all’esigenza di rompere del tutto con categorie che a suo dire erano ormai deprivate di senso: la dialettica destra/sinistra è così uscita dal cono di luce del delfino almirantiano, ma senza che a questa eliminazione sommaria corrispondessero un disegno dai contorni precisi, una base identitaria, una prospettiva intorno alla quale conservare, rendere coeso e incrementare l’insieme dei consensi e delle aspettative ingenerate.
Il risultato di questa meccanica è stato l’avvicinamento “destinale” a Pier Ferdinando Casini e della sua Unione di centro, cui è seguita l’accettazione acritica del tecno-governo di Mario Monti con l’intermittente consiglio/sostegno di Luca Cordero di Montezemolo.
L’entente, come noto, è sbocciata nella formazione di liste sorelle (unitaria per il Senato) che sono apparse come la sommatoria di calcoli, debolezze e vanità comuni.
Gli elettori ne hanno fatto giustizia, consegnando Fini e i suoi consiglieri al limbo degli esuli in Patria. Anzi dei senza Patria e basta.
A distanza di tre anni dalla nascita dei primi focolai di dissenso nel Popolo della libertà , è difficile che l’azzardo di Fini possa essere rubricato sotto la categoria della destra in rivolta contro l’assimilazione violenta alla compagine berlusconiana.
Se innegabile era la tendenza livellatrice e monocratica esibita dall’allora premier, altrettanto manifesta è stata poi la natura personalistica, politicistica e velleitaria di Futuro e libertà .
Di là dalla rimasticazione episodica degli slogan futuristi primonovecento, di là dalla improvvisata modernolatria dei pochi (e presto abbandonati) intellettuali alla corte di Fini, non è stato possibile individuare alcun nucleo politico o ideale degno di sopravvivere alla fragorosa condanna elettorale.
Ma il danno d’immagine, per un mondo che almeno nei presupposti e nelle provenienze individuali non è possibile disgiungere dall’archetipo post fascista, quello è chiaro e distinto.
E sarà durevole.
Che fai, mi riprendi?
Gli altri gruppi della così detta destra italiana, accomunati senz’altro da un livore furibondo nei confronti del loro ex sovrano Gianfranco Fini, sono nati o sono cresciuti ora in conflitto ora in rapporto di vassallaggio con Berlusconi.
La Destra di Storace è stata allestita come controparte identitaria anti finiana, ma al tempo stesso si è più volte proposta come un cuneo di ribellione conficcato ai fianchi del Cavaliere. Salvo poi ripiegare appena possibile, calendario elettorale alla mano, nella più confortevole ombra di Arcore.
Le immagini di Daniela Santanchè nella sua versione paleo berlusconiana, poi storaciana (la “destra con la bava alla bocca” che non accetta di stare sdraiata) e infine nuovamente, appassionatamente accanto al capo del Pdl, ci danno la misura delle oscillazioni mostrate dalla classe dirigente post fascista.
In questo quadro, Storace si è impegnato a impersonare un ruolo di vaga ed equivoca testimonianza identitaria non poi così dissimile rispetto a quello svolto dall’estrema sinistra post bertinottiana (con conseguenze simmetricamente funeste).
Su tutt’altro fronte, quel che resta della Destra sociale di Gianni Alemanno ha combusto la propria immagine di forza alternativa allo strapotere berlusconiano, all’amletismo finiano, al tatticismo superficiale degli storici avversari interni Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri.
La totale assenza alemanniana dal discorso pubblico innescato con la nascita di Futuro e libertà si è perfettamente combinata con il tentativo di procedere a un berlusconicidio pre elettorale sanzionato dal mondo clericale (da Comunione e liberazione in giù) con cui il sindaco di Roma è infeudato da sempre.
In poche parole, dall’inverno scorso Alemanno ha cullato il sogno di un’iniziativa di conio popolare che procedesse alla rimozione dolce (ma nondimeno completa) dell’ostacolo Berlusconi.
Receduto dall’azzardo, causa colpo di reni della vittima sacrificale, Alemanno è stato fra i primi a ritornare all’ovile proclamando nuovamente una fedeltà tanto palloccolosa quanto inane.
Il che non è gli bastato, tuttavia, per riconquistare una dimensione nazionale degna della sua superbia, nè per sfuggire alle conseguenze del suo disastroso quinquennio al Campidoglio.
Una debolezza parallelamente meschina caratterizza l’operazione Fratelli d’Italia.
Il volto non più acerbo della leader (ed ex ministro pidiellino) Giorgia Meloni è insufficiente a coprire il pizzetto consunto dell’ex berlusconiano d’acciaio Ignazio la Russa.
Concepito come un disperato tentativo di differenziarsi dal declinante benefattore di Arcore, nell’auspicio di contenere l’emorragia di voti destinati all’astensione o al grillismo, il gruppo di Meloni è appassito prima ancora di germogliare per la semplice ragione che non aveva alcunchè da offrire al suo potenziale elettore che non fosse già stato offerto in precedenza con l’etichetta del Pdl.
Per quale ragione un cittadino che ha votato prima An e poi Pdl avrebbe dovuto premiare Fratelli d’Italia?
E in effetti, a ben guardare la composizione di quel deludente uno-e-qualcosa per cento rimediato nelle urne, si comprende con facilità che la cifra origina nel pacchetto sempre più impoverito delle clientele militanti di una corrente (la Destra protagonista) un tempo egemone in An e dalla quale, con una coerenza che gli va riconosciuta, si è distaccato l’iper berlusconiano e mai fascista Maurizio Gasparri.
Che fai, mi ignori?
Se la caduta delle destre istituzionali dipende in larga parte dal fatto che, sequestrate dai loro piccoli cacicchi vanitosi e imbelli, non erano più “di destra” in senso tradizionale da circa vent’anni, il “sonno” delle destre radicali extraparlamentari trova una sua ragione nella quasi totale assenza di leadership carismatiche e messaggi auscultabili all’esterno della claustrofobica catacomba neofascista.
In questa congiuntura il brodo di coltura antisistemico italiano è stato fecondato dalla proposta millenaristico-settaria che il comico Beppe Grillo ha condiviso con il guru dell’e-commerce Gianroberto Casaleggio.
Un lavoro scientifico, il loro, che per la verità è cominciato da diversi anni e che si è talmente rafforzato da attirare come un magnete perfino le limature di ferro dello scontento estremista, sia di destra sia di sinistra.
Nel frattempo i cuori neri si baloccavano con le loro solite, logore liturgie intonate al culto della sconfitta neofascista e con l’immancabile rivalità fra consanguinei.
Fatta eccezione per il movimentismo di CasaPound, reso popolare dal recupero del migliore dannunzianesimo ma viziato spesso da pulsioni avanguardistiche inconcludenti, non c’era una sola buona ragione per la quale le destre anti sistemiche dovessero presentarsi alle elezioni immaginando di non venirne malamente sbertucciate.
Requiem o palingenesi?
In natura nulla va perduto, è così perfino nell’Italia a sovranità limitata, assoggettata alla germanizzazione del suo sistema economico-finanziario e appetita dal capitalismo apolide responsabile della crisi internazionale.
Dunque anche per la destra c’è speranza.
Non è possibile qui aggettivare oltremisura la destra di riferimento, ma certo è che per rinascere bisogna essere stati qualcosa nel passato.
E’ a una destra tradizionale che si può o si deve guardare, nel senso più alto, nobile e purtroppo negletto dalla maggior parte delle formazioni esistenti: ogni altro tentativo e ogni altra variante essendo falliti alla prova dei fatti recenti.
Il grillismo è un fenomeno di falsa rottura transeunte ed è destinato prima o poi a liberare energie insospettabili, dopo aver caoticamente rilegittimato alcune idee e istanze di sovranità politica e culturale tipicamente di destra.
Chi un domani sappia saldare questo accumulatore di energia con un circuito elitario, nel quale le nuove personalità di riferimento siano realmente formate lungo linee di vetta metapolitiche (frutto di una disciplina perfino interiore, siamo portati a dire), potrà modellare un corpo adatto al manifestarsi di una “destra eterna” che attende la sua prossima incarnazione.
Quando il sole avrà estinto l’ultima pozzanghera.
Alessandro Giuli
(da “il Foglio“)
Il testo riprodotto verrà pubblicato sulla Rivista di Politica diretta da Alessandro Campi, n. 2, aprile-giugno 2013, con il titolo: “La fine di un mondo. Come (e perchè) si è dissolta la destra” in Italia
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Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
DOVE SONO FINITI REDDITO MINIMO, IRAP, EQUITALIA?… SUI PARLAMENTARI DI GRILLO SEMBRA SCESO UN VELO DI INDIFFERENZA
Quando un governo ancora non c’era, dicevano che il Parlamento avrebbe potuto funzionare nella pienezza delle sue prerogative, anche facendo a meno dell’esecutivo. Ma da quando un governo c’è, discettano compulsivamente solo di diarie, rimborsi, scontrini.
Proposte di legge di quelli che in teoria dovrebbero interessare la «gente»?
Zero: solo manovrette della più tradizionale bassa cucina della politica, come l’iniziativa sull’ineleggibilità di Berlusconi architettata per stanare il Pd e lucrare sulla sua devastante crisi.
Ma davvero il Movimento 5 Stelle crede di star offrendo uno spettacolo di efficienza e operosità parlamentare a chi sperava che la «società civile» avrebbe avuto finalmente voce dentro le istituzioni?
Si può essere efficienti anche dall’opposizione, imporre l’attenzione su alcuni provvedimenti, migliorare alcune leggi partorite dalla maggioranza e sulle quali non si è in disaccordo, fare proposte di legge, contribuire a stabilire un calendario di iniziative parlamentari, lavorare sodo nelle Commissioni, magari con minore eco mediatica ma con un’attività utile non solo al gruppo cui si appartiene, divulgare all’esterno ciò che accade nelle stanze in penombra del «Palazzo».
Ma i parlamentari del 5 Stelle non sembrano portatori di qualche competenza. Difficile capire cosa sia esattamente la «società civile», ma è difficile immaginare che nella «società civile» si agitino questioni come quelle che ossessionano i grillini.
Non fanno che parlare di «streaming», stanno sempre a discutere sul blog della casa, si controllano l’un l’altro con uno zelo sconosciuto persino nei vecchi partiti centralizzati, istruiscono processi a chi ha osato recarsi a una trasmissione tv sgradita al Capo, usano in forme maniacali la parola «rendicontazione»: non che la rendicontazione non sia importante ma non può nemmeno essere il principio e la fine di ogni interesse.
Lo scontrino è diventato un feticcio, la diaria rifiutata un segno di identità .
Sono prigionieri delle loro liturgie, come se il chiamarsi «cittadini» anzichè «onorevoli» fosse la cosa più importante del momento.
E il reddito minimo garantito?
Il premier Letta ne aveva persino accennato nel suo discorso per la fiducia. Ma i deputati 5 Stelle non lo incalzano, non lo mettono alle strette, non chiedono l’applicazione, almeno in parte, di un provvedimento che considerano decisivo e indispensabile. Beppe Grillo aveva detto che i deputati del suo Movimento avrebbero votato, fiducia a parte ovviamente, caso per caso.
Ma questi buoni propositi sembrano svaniti.
Prima ancora del voto sembra che un velo di indifferenza sia calato tra i parlamentari di Grillo e le cose che sarebbe necessario fare.
E l’unico oggetto degno di attenzione appare il contenzioso sui portavoce, sui soldi dei rimborsi, sulle questioni interne al movimento.
In campagna elettorale Grillo parlava di Imu, di Irap, di Equitalia. Ma tutto appare avvolto da una nebbia.
La questione della pubblicità delle discussioni interne, e il controllo reciproco sui comportamenti altrui, hanno preso il sopravvento su tutto il resto.
Gli altri partiti sono in difficoltà . Alcuni addirittura annaspano, commettono errori sconcertanti come la proposta per sbarrare a movimenti come quello di Grillo la porta delle elezioni.
Ma il Movimento 5 Stelle non dà un’immagine molto diversa da quella offerta dai partiti tradizionali.
Le sirene del Palazzo lo stanno conquistando.
La «società civile» tanto lodata, alla fine sparisce.
Come bilancio dei primi tre mesi della nuova legislatura, il risultato appare sconfortante.
Pierluigi Battista
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
PICCOLI TRIBUNALI RESISTONO ANCORA, DECISO IL RINVIO DI UN ANNO… NULLA DI FATTO SULL’ABOLIZIONE DELLE PROVINCE
Smontare il poco che è stato già fatto: la regola base cui si attiene scrupolosamente ogni
nuovo Parlamento è destinata a segnare anche l’avvio di questa legislatura.
Ecco allora spuntare nella commissione Giustizia del Senato, presieduta dall’ex Guardasigilli del governo Berlusconi Francesco Nitto Palma, il rinvio di un anno dei tagli agli uffici giudiziari voluto dal precedente governo.
D’accordo il centrosinistra, che ha proposto la proroga: «Le norme hanno creato in vari territori disfunzioni pesanti e dubbi di legittimità anche costituzionale», dice la proposta di legge di cui è primo firmatario l’ex magistrato Felice Casson.
D’accordo il centrodestra: «È un testo che crea molti problemi, ci sono diverse cose da fare e per questo serve tempo», dice il senatore pidiellino Giacomo Caliendo.
D’accordo con la proroga anche i grillini e perfino Scelta civica di Mario Monti, proprio il premier del governo autore della riforma che senza lo stop avrebbe tagliato 31 piccoli tribunali e 220 sedi distaccate.
Risparmio stimato, 17 milioni l’anno.
Difficile dire se siano più insormontabili i problemi tecnici che pure ci saranno, o invece le allergie politiche locali allo smantellamento di posti di lavoro pubblici.
Ma che dopo tre mesi di paralisi parlamentare si parta innestando la retromarcia, non depone proprio bene.
Del resto è un segnale perfettamente in linea con la conclusione della legislatura precedente, spentasi affossando la riformina delle Province.
Non era certo l’abolizione: un semplice accorpamento. Comunque avrebbe fatto risparmiare 500 milioni, sepolti in Parlamento sotto una irridente gragnuola di emendamenti.
Non possono dunque non far ripensare a quella storia le dichiarazioni di chi, oggi, torna a parlare di abolizione delle Province: sono gli stessi partiti che l’hanno affossata. Di più. Un mesetto fa, in barba al decreto «salva Italia» che a fine 2011 aveva comunque privato le Province dell’elezione diretta da parte dei cittadini, si è votato per il rinnovo del consiglio provinciale di Udine.
Quale migliore prova dell’esistenza di «nodi aperti» che secondo Graziano Delrio renderebbero complicata l’eliminazione di quegli enti, se non questa?
Lo stesso ministro degli Affari regionali si è spinto a rilanciare pubblicamente il federalismo. I suoi colleghi l’avranno guardato come un extraterrestre.
Perchè quella è una parola che non va più di moda da un bel pezzo.
Il federalismo è completamente arenato. A cominciare da quello fiscale, per continuare con quello demaniale e finire con i costi standard.
Già , chi se li ricorda più?
Eppure era il meccanismo pensato per farla finita con le siringhe pagate dagli ospedali del Sud il doppio che dagli ospedali del Nord.
Niente di così complicato: soltanto una cosa di buonsenso.
Ma chissà perchè quando si tratta di risparmiare soldi pubblici diventa tutto difficile.
Così anche il piano di riordino degli incentivi industriali cui aveva lavorato l’economista Francesco Giavazzi, e per il quale inizialmente erano stati stimati risparmi di 10 miliardi l’anno, si è misteriosamente spiaggiato.
E pensare che il governo Letta non sa dove trovare i quattrini per gli sgravi fiscali, il taglio dell’Imu, il salvataggio degli esodati…
Altrettanto misteriosamente si arenano leggi alle quali tutti si dichiarano favorevoli.
Per trovare qualcuno che sia contrario alla riduzione del numero dei parlamentari bisogna andarlo a cercare con il lanternino.
Al Senato, nella scorsa legislatura, sono andati avanti per mesi a negoziare tagli e sforbiciatine.
Quando però si è arrivati al dunque, la riforma costituzionale è rimasta nel cassetto insieme all’abolizione del bicameralismo perfetto.
A un passo dal traguardo c’è sempre qualcuno che fa «più uno!», e magicamente tutto si ferma.
Nella fattispecie, il Pdl voleva accoppiare il taglio di deputati e senatori al presidenzialismo.
E l’accordo è evaporato.
Per la riforma elettorale, invece, non c’è stato nemmeno bisogno di rilanciare. A nulla hanno portato 46 disegni di legge e 24 proposte di iniziativa popolare: il Porcellum nessuno lo voleva cambiare.
Nè ora le prospettive sono migliori, com’è chiaro dalle inconcludenti schermaglie cui stiamo assistendo. Se avremo un sistema elettorale meno indecente di quello attuale sarà solo dopo che la Consulta ne avrà decretato l’illegittimità costituzionale.
Ma non aspettiamoci miracoli nemmeno su altri fronti. E ce ne sono davvero tanti.
Del tutto escluso, per esempio, è che si possa assistere a qualche inasprimento delle misure anticorruzione, magari con l’introduzione del falso in bilancio o del reato di autoriciclaggio: le norme approvate in Parlamento prima delle elezioni sembrano un brodino tiepido.
E anche se il ministro dell’Ambiente Andrea Orlando ha rivelato un «accordo con il ministro dell’Agricoltura Nunzia Di Girolamo» per riprendere il tema della limitazione al consumo di suolo aperto la scorsa estate con un disegno di legge dell’ex ministro Mario Catania (sperduto anch’esso nei cassetti rigonfi di buoni propositi), su quel fronte siamo ancora alle pie intenzioni.
Idem sulle norme relative alla natura giuridica dei partiti, che riguardano un articolo della Costituzione (il numero 49) mai attuato compiutamente in 65 anni: l’iter della legge quasi in dirittura d’arrivo pochi mesi fa si è esaurito insieme alla legislatura e le proposte sfornate questi giorni assomigliano più a un tentativo di mettere il dito nell’occhio di Beppe Grillo che alla soluzione del problema.
Per non parlare poi delle tante riforme arrivate a un passo dall’approvazione e mai diventate legge, dalle adozioni al testamento biologico, al divorzio breve.
Talvolta, però, la paralisi non è colpa della cattiva volontà dei politici.
Dipende dalle decine di norme attuative che non vedono la luce rendendo inapplicabili i provvedimenti.
Quando non da indolenze locali, spesso per cause impalpabili.
Un caso? La liberalizzazione delle farmacie.
Il decreto Monti prevede l’apertura di 4.500 nuovi punti vendita tramite gare a cura delle Regioni. Doveva concludersi tutto lo scorso 24 marzo. Ma non è successo ovunque.
Nel Lazio siamo ancora a carissimo amico: sostengono che il termine del 24 marzo non era perentorio…
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera“)
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Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
IN QUATTRO ANNI MEDIASET HA SBORSATO 23 MILIONI DI EURO PER IL VOLTO DI “STRISCIA”: VANNO TUTTI IN IRLANDA E A MONTECARLO, 15 A LUI, 8 A UNA SOCIETA’ CON SEDE A DUBLINO
Di ramanzine a personaggi più o meno noti, Ezio Greggio ne ha fatte un bel po’. Maghi truffaldini, terapeuti imbroglioni, politici beccati in fuori onda imbarazzanti.
Il prossimo Tapiro d’oro, però, potrebbe meritarselo proprio lui, dopo 25 anni passati alla conduzione di Striscia la notizia.
Perchè il suo caso è tra quelli che stanno suscitando l’interesse dell’Agenzia delle entrate.
Per aggiudicarsi le sue battute e le sue frecciate irriverenti, Mediaset ha speso negli ultimi quattro anni più di 23 milioni di euro, parte dei quali sono finiti a una società con base in Irlanda.
E da valutare, per l’agenzia, c’è soprattutto la residenza dello showman, che non si trova a Milano o nelle vicinanze di Cologno Monzese, ma in uno dei paradisi fiscali più prossimi a casa nostra, il principato di Monaco.
Vicino sì, ma da Montecarlo agli studi tv della famiglia Berlusconi — ragionano gli ispettori del Fisco — sono sempre più di 300 chilometri ad andare e altrettanti a tornare.
Un bel viaggio da fare per ognuna delle oltre 160 puntate all’anno che Greggio conduce a Striscia.
Insomma, di tempo nei dintorni di Milano, deve passarne parecchio, soprattutto nei mesi in cui il tg satirico è affidato a lui.
Ci sono poi da fare i promo, le riunioni con gli autori e con la produzione, ogni tanto pure qualche prova.
Il contratto con Mediaset, poi, oltre a Striscia comprende anche le ospitate a Paperissima, una fiction e trasmissioni serali come Veline, andata in onda l’estate scorsa.
Per ogni partecipazione di Greggio a Striscia, la società Rti del gruppo Mediaset spende intorno ai 24mila euro.
La cifra va moltiplicata per tutte le puntate di un anno e poi vanno aggiunte le altre presenze sullo schermo.
Così nelle quattro stagioni che vanno dal 2009 al 2013 Greggio è costato a Rti oltre 23 milioni di euro.
Di questi, più di 12 milioni sono stati versati direttamente a lui per le trasmissioni e quasi 2,5 per l’esclusiva.
Mentre altri 8 milioni sono finiti alla Wolf Pictures Ltd, una società con sede a Dublino, in Irlanda, in cui in passato ha lavorato anche Leonardo Recalcati, una vecchia conoscenza con cui Greggio ha collaborato nel 2011 per produrre ‘Box Office 3D — Il film dei film’, la sua ultima fatica cinematografica da regista.
Alla Wolf Pictures Ltd Greggio ha ceduto tutti i diritti di sfruttamento economico della sua immagine, che poi sono stati venduti a Mediaset.
Un triangolo su cui l’Agenzia delle entrate vuole vederci più chiaro. Come sulla residenza a Monaco, grazie a cui Greggio può cavarsela con una ritenuta alla fonte del 30 per cento su quanto ricevuto da Mediaset, invece di versare nel nostro Paese imposte con aliquote che per importi così elevati superano il 40 per cento.
La residenza monegasca, tra l’altro, non vale a Greggio solo vantaggi fiscali.
È capitato infatti che per partecipare a una puntata di Paperissima, ai 60mila euro di cachet ne siano stati aggiunti 25mila per le spese di viaggio da Monaco, 600 chilometri davvero ben pagati.
Greggio non è il primo vip che attira l’attenzione del Fisco.
Tra gli altri, nel 2008 Valentino Rossi ha dovuto firmare un accordo da 35 milioni di euro per chiudere il contenzioso con l’Agenzia delle entrate che gli contestava la residenza londinese.
Luciano Pavarotti invece ha sostenuto di essere residente a Montecarlo, finchè nel 2000 ha dovuto rimborsare all’Erario 24 miliardi delle vecchie lire.
Da Greggio, per ora, nessun commento: il suo cellulare ieri ha suonato a vuoto per tutto il giorno, nè gli sms hanno avuto risposta.
È all’estero, fanno sapere dalla Greggio Comunicazione di Milano, l’agenzia della sorella Paola.
In ogni caso, nulla dovrebbe accadere a Mediaset, che nel contratto si è fatta garantire dall’artista una manleva nel caso di sanzioni fiscali per sue dichiarazioni false.
Ma il Gabibbo, di certo, una bella predica non la risparmierebbe.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
IMBARAZZO NEL PD SULL’INELEGGIBILITA’, MA IL SEGRETARIO FRENA
«Certo, l’Abc della politica è che gli avversari vanno combattuti e sconfitti politicamente,
detto ciò in questo momento abbiamo tutti molto più a cuore i problemi della crisi e dell’economia, quindi non ho neanche avuto modo di leggere le motivazioni della sentenza. Comunque sul nodo dell’eleggibilità sentirò i pareri dei membri della Giunta che dovranno pronunciarsi nel merito».
Guglielmo Epifani è consapevole che la sentenza di Milano pone un ulteriore problema a chi è costretto a condividere le sorti del governo con il Cavaliere, ma ai suoi interlocutori in queste ore fa capire quale sarà la linea che terrà il partito.
È una posizione che trova d’accordo anche i più anti-berlusconiani come Rosy Bindi, che pure non fanno mistero di quanto sia difficile portare la croce delle larghe intese. Una linea che già è stata espressa dal capogruppo alla Camera Roberto Speranza, mentre il suo omologo al Senato, Luigi Zanda, ha più volte chiarito di aver personalmente sempre ritenuto che Berlusconi fosse ineleggibile.
E quindi, se un fedelissimo di Enrico Letta come il presidente della commissione Bilancio Francesco Boccia si augura che la sentenza di Milano non abbia «ripercussioni sul governo», è ben comprensibile la cautela del segretario che sa di muoversi su un crinale delicatissimo: nel suo partito l’imbarazzo si taglia a fette, ancor più di fronte alla lettura delle motivazioni della sentenza sui diritti Mediaset, che per i 5Stelle «rafforza la necessità che sia dichiarato ineleggibile», come sostiene la capogruppo Roberta Lombardi.
Detto questo, Epifani non teme di finire nel mirino dei grillini su un voto delicato come quello che si prospetta di qui a qualche settimana nella Giunta per le elezioni del Senato.
«Perchè dico sempre che noi dobbiamo mantenere una nostra identità e un partito serio fa così senza farsi trascinare nelle polemiche».
Insomma, si tratta di un «problema affrontato altre volte e in ogni cosa va mantenuta una certa coerenza, si sa che fanno giurisprudenza i pareri già espressi in passato».
Nel merito, Luciano Violante, già presidente della Camera negli Anni 90, fa notare infatti che una cosa è l’ineleggibilità di cui si parla a proposito di Mediaset, altra cosa sarebbe una condanna eventuale della Cassazione, che comporterebbe cinque anni di interdizione dai pubblici uffici: sono due problemi ben diversi, perchè rispetto alla legge sull’ineleggibilità dei titolari di concessioni dello Stato, siccome il titolare non è lui, noi ci siamo sempre comportati nello stesso modo ogni volta, dal ’92 al 2008. E se la coerenza di un partito è il fondamento della sua credibilità , bisognerebbe essere coerenti anche questa volta».
Ma tra i senatori la fibrillazione sale e l’ex magistrato Felice Casson, uno dei nove membri che il Pd annovera nella Giunta per le elezioni, fa notare subito che «ora ci sono fatti nuovi che vanno valutati bene: e a chi in questi giorni sosteneva che non c’ era nulla di nuovo sull’ineleggibilità , invito a leggere le motivazioni della Corte».
A dare un’ idea di quanto i Democratici siano in affanno è la Bindi, perchè «certo, il problema dell’ineleggibilità si pone e ogni fatto che ci rimette davanti alla contraddizione di Berlusconi rende più difficile e complicato tutto, sia la tenuta del governo, che le decisioni da assumere».
Ma la «pasionaria» del Pd se la prende con i «falchi» del Cavaliere, in quanto «non sono solo le motivazioni particolarmente eloquenti, dove il conflitto di interessi è fotografato nella sua forma più odiosa, bensì gli attacchi alla magistratura che minano la stabilità ».
Comunque sia, «è inutile girarci attorno, dal punto di vista politico Berlusconi è in una posizione di ineleggibilità ».
E se Nicola Latorre sostiene che «va fatta con urgenza una legge sul conflitto di interessi», la Bindi conviene che «il vero problema è questo: non abbiamo avuto la forza di rimuovere un macigno nella vita democratica del paese e questa responsabilità ce la trascineremo dietro».
Carlo Bertini
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Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
IL SENATORE DEMOCRATICO: “DOPO L’APPELLO I PROCESSI NON DEVONO SCADERE”
«Potrebbe essere la chiave di volta». Dice così il senatore democratico Felice Casson quando legge la notizia delle motivazioni dei giudici di Milano sul caso Mediaset. Giusto in quei minuti è alle prese con la proposta di legge per cambiare radicalmente il meccanismo della prescrizione.
Per bloccarne la corsa se, in un processo, è già stata pronunciata la sentenza di appello.
Una proposta che, se fosse stata già legge, avrebbe cancellato subito la prescrizione del caso Mediaset, in scadenza nel giugno 2014.
Casson, componente della commissione Giustizia del Senato, ma anche della giunta per le autorizzazioni, convinto che la legge del ’57 sul conflitto d’interessi è da leggere in chiave anti-Berlusconi, resta fortemente impressionato dalla decisione di Milano. Non dice di più.
Ma la sua reazione lascia intendere che, dopo quelle 194 pagine, anche la battaglia dell’ineleggibilità del Cavaliere al Senato potrebbe avere un corso diverso da quello disegnato fino a oggi.
Soprattutto all’interno del Pd dove, negli ultimi due giorni e soprattutto dopo la presa di posizione del segretario Guglielmo Epifani, pareva prevalere la tesi che Berlusconi va combattuto sul piano politico e non su quello giudiziario.
E soprattutto che i precedenti pronunciamenti su di lui alla Camera – ovviamente favorevoli alla sua eleggibilità – vanificano l’ulteriore tentativo su cui il partito di Grillo ha concentrato le energie al Senato.
Ma adesso la storia potrebbe cambiare.
Le motivazioni di Milano potrebbero rappresentare quel «fatto nuovo» di cui andava in cerca la Pd Doris Lo Moro proprio per modificare indirizzo rispetto al passato.
Ora, come lascia intendere Casson, è scritto nero su bianco in un atto giudiziario che, pur formalmente fuori dall’azienda, Berlusconi ha continuato a prendere le decisioni che contano.
Tanto forte e documentata è questa convinzione da portare alla pesante condanna del Cavaliere in bendue gradi di giudizio.
Un fatto nuovo, inequivocabile, destinato per forza a pesare sui delicati equilibri nella giunta.
Dove, ovviamente, il Pdl respingerà la richiesta del M5s, ma dove tutto dipende da cosa farà il Pd.
Ovviamente, sul fronte Pdl, la valutazione di Casson viene stroncata come «il giudizio di una ex toga di sinistra che vuole a tutti i costi cacciare Berlusconi, tant’è che adesso modifica anche il meccanismo della prescrizione ».
Casson replica a stretto giro: «Non è affatto così, tant’è che la mia proposta contiene anche una norma transitoria che impedisce di applicare la futura legge ai processi “per i quali sia già stata pronunciata sentenza di primo grado”».
Se, per ipotesi, la legge, che smonta del tutto la famosa legge Cirielli approvata nel 2005 dal governo Berlusconi per accorciare la prescrizione, fosse approvata prima della fine del caso Mediaset, essa comunque non avrebbe effetti, non fermerebbe l’orologio.
Casson ha già depositato il testo in commissione Giustizia.
Tre articoli, il primo sulle fasce temporali legate all’entità della pena, il secondo sui casi di sospensione, il terzo sulla norma transitoria.
Il calendario dipende dal presidente Francesco Nitto Palma.
Ma tutto lascia intendere che la trattazione non sarà sollecita.
Liana Milella
(da “La Repubblica”)
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