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A QUATTRO VOTI DALLA CRISI DI GOVERNO: LA LEGGE SULLE RIFORME PASSA AL SENATO PER UN SOFFIO

Ottobre 23rd, 2013 Riccardo Fucile

SI MANIFESTA “L’AVVERTIMENTO” DEI FALCHI CONTRO NAPOLITANO E I MINISTRI ALFANIANI… DECISIVO IL VOTO A FAVORE DELLA LEGA

“Favorevoli duecentodiciotto, contrari 58, astenuti 12”. Quando il presidente di turno, il leghista Roberto Calderoli scandisce il risultato della votazione sulla legge costituzionale che istituisce il comitatone per le riforme, il ministro Gaetano Quagliariello ha la fronte bagnata di sudore. Livido incrocia lo sguardo con quello del capogruppo del Pdl Renato Schifani, furibondo col suo gruppo.
Il pallottoliere dice che c’è stata una rivolta (silenziosa) verso il governo. E verso il suo alto tutore Giorgio Napolitano. Decisivi, per non andare sotto sono stati i voti della Lega.
Un segnale da brivido. Perchè non si tratta di una votazione qualunque.
La legge costituzionale è quella che istituisce il famoso comitato che dovrà  discutere e varare la grande riforma dell’architettura dello Stato.
E’ l’ideona partorita dalla Minerva del ministro per le Riforme e che ha subito incassato l’alto patrocinio del Colle. Il comitatone consente, di fatto, di evitare il pantano parlamentare.
Quindi, quello che si è votato oggi, è un pilastro messo su per blindare il governo, la cui mission dovrebbe essere quella di fare — oltre ai provvedimenti economici — le riforme appunto.
Ecco lo sguardo livido di Quagliariello e Schifani.
Il pilastro, l’ideona, è passata per un soffio.
Vediamo i numeri.
La maggioranza richiesta era 214 (i due terzi, trattandosi di una legge costituzionale). E hanno votato a favore 218.
Il problema è che una grossa parte del Pdl o a votato contro o si è astenuto.
La legge costituzionale è passata grazie ai voti della Lega. E’ stato Calderoli a diramare l’ordine quando ha capito che il Carroccio, che non è in maggioranza, sarebbe stato decisivo.
Ecco i numeri. All’ultimo voto di fiducia al Senato Letta aveva preso 235 sì, e anche allora qualcuno del Pdl (Bondi, Nitto Palma, Minzolini) non avevano partecipato al voto.
Sulle riforme la falla si è allargata. Un dato che diventa più eclatante ripercorrendo la dinamica d’Aula. È quando si è capito che il governo poteva andare sotto che i critici del Pd come Puppato e altri, che hanno dichiatato tutte le loro perplessità ,.
Sono stati costretti ad allinearsi per disciplina di partito: “Niente scherzi — è il messaggio recapitato loro dal gruppo del Pd — perchè i numneri sono in bilico e se si va sotto su questo rischiamo la crisi e l’incidente atomico con Napolitano”.
Per quattro voti si è scongiurata la crisi, dunque. Un voto che lascia presagire giorni complicati per il governo.
Prima la battaglia dell’antimafia con l’Aventino del Pd, poi il segnale di insofferenza inviato al Colle sul comitatone.
È il Pdl il cuore del sisma. Raccontano i ben informati che il voto di oggi è la risposta alle lettere e alle interviste dei filogovernativi. E che è stato un moto spontaneo. Se la fronda fosse stata organizzata — da Fitto, per intenderci — si rischiava di grosso.
La faida nel Pdl sta trasformando le Aule parlamentari in un percorso a ostacoli.

(da “Huffingtonpost”)

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IL CUNEO DA 14 EURO? LETTA SMENTITO DAL SUO STESSO GOVERNO

Ottobre 23rd, 2013 Riccardo Fucile

PREMIER SI LAMENTA IN TV PER LA “CIFRA FASULLA” CHE PERà’ È SCRITTA NELLA RELAZIONE TECNICA…. BUGIE ANCHE A EPIFANI SUGLI ESODATI… SACCOMANNI SALVA GLI AMICI DI BANKITALIA

Enrico Letta era andato da Lilli Gruber a Otto e mezzo per togliersi “un sassolino dalla scarpa”. Ne è uscito con un masso.
Le sue parole ora lo inchiodano smentendo la sua proverbiale prudenza.
“Questa storia dei 14 euro è una cosa che mi ha dato noia” ha detto il presidente del Consiglio, “non so chi l’ha inventata, è una cifra fasulla, un’operazione mediatica per farci solo del male”.
Peccato che la cifra fasulla a proposito della riduzione del cuneo fiscale, con l’incremento delle detrazioni per i lavoratori dipendenti, l’abbia fornita lui stesso. Anzi, l’ha scritta, nero su bianco, sulla Relazione tecnica della legge di Stabilità . Ognuno può leggere e verificare. Come abbiamo fatto noi, dotati di penna e calcolatrice.
All’art “Misure fiscali per il lavoro e le imprese”, infatti, vengono indicate le detrazioni “rimodulate” rispetto alla legislazione vigente.
Se per i redditi fino a 8 mila euro e per quelli superiori ai 55 mila, non cambia nulla, per i redditi tra gli 8 e 15 mila e tra 15 e 55 mila c’è il ritocco in questione.
La detrazione massima viene innalzata da 1.338 euro a 1.520.
Si tratta di un incremento di 182 euro l’anno. Dividendo la cifra per le tredici mensilità  di cui si compone una normale busta paga, vengono fuori è esattamente 14 euro.
Senza trucchi nè inganni.
La “cifra fasulla”, quindi, è scritta, in forma abbastanza decifrabile, in una norma ufficiale, depositata al Senato e messa agli atti della discussione parlamentare.
Va chiarito, però, che stiamo parlando della detrazione massima ipotizzata dalla legge di Stabilità .
Facendo due rapidi calcoli, infatti, scopriamo che, nel caso di un reddito da 25 mila euro lordi annui, il bonus mensile corrisposto dal governo è di 13,65 euro mentre per un reddito di 40 mila euro lordi annui, si scende ancora a 8,75 euro mensili.
Quello che Enrico Letta non sa è che il calcolo sui 14 euro, la “cifra fasulla” che tanto l’ha irritato, è ancora una cifra ben disposta nei confronti del governo.
Se si facesse il calcolo del beneficio complessivo della riduzione fiscale prevista, calcolata nella Relazione tecnica in 1.702,8 milioni (un miliardo e settecento, per intendersi) e la si dividesse per gli oltre 17 milioni di lavoratori dipendenti, la cifra mensile media disponibile per ogni lavoratore italiano sarebbe di soli 98 euro annui, cioè 7,6 euro al mese.
Si tratterebbe della “media del pollo” ma in termini macroeconomici il dato è quello.
Le ”panzane” di Letta, quindi – per utilizzare il linguaggio del Quirinale — sono evidenti.
Secondo lo Spi-Cgil, il sindacato dei pensionati, sono anche altre.
Carla Cantone, segretario della categoria, oltre a ricordare che gli interventi previdenziali producono una riduzione di 615 euro nel triennio, trasformando così i pensionati “nel bancomat del governo”, ricorda anche la vicende del Fondo per la non autosufficienza.
“Letta ha detto che è aumentato, spiega al Fatto , in realtà  ha stanziato solo 250 milioni mentre Monti ne stanziò 275”.
E siamo alla seconda “panzana”. Poi ce n’è una terza, non raccontata al Paese o al Parlamento ma al “suo” segretario di partito, Guglielmo Epifani.
E riguarda gli “esodati”.
Lo riferisce lo stesso Epifani ai lavoratori che hanno presidiato ieri la sede nazionale del Pd per ricordare che, grazie alla legge Fornero, c’è chi è rimasto senza lavoro e senza pensione.
Circa 300 mila persone, secondo le stime Inps, di cui solo 130 mila sono stati tutelati dai provvedimenti governativi degli ultimi due anni. Nella legge di Stabilità , ora, se ne “salvano” altri 6.000, molto al di sotto delle necessità .
Da qui, la manifestazione di ieri che ha messo in imbarazzo Epifani il quale è stato costretto ad ammettere chei “Letta ci aveva assicurato che ci sarebbe stato un intervento ampio…”.
Che, invece, non c’è stato.
L’ultima panzana riguarda il blocco degli stipendi per il pubblico impiego.
Esiste dal 2010, il governo lo prolunga ancora fino al 2017 ma non per il personale della Banca d’Italia.
Secondo Radiocor, infatti, nel testo della Stabilità , le misure che intervengono sulla spesa del pubblico impiego, bloccando le procedure contrattuali e negoziali, nonchè l’aumento dei trattamenti economici anche accessori, vengono applicate a una nuova platea: non più quella cui si riferiva il decreto legge 78 del 2010, nella quale rientrava la Banca d’Italia, ma al personale delle Pubblica amministrazione, individuato dal relativo elenco Istat, che la esclude.
Blocco per tutti ma non per gli amici del ministro Saccomanni.

Salvatore Cannavò

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CEMENTIFICAZIONE A PARMA, SI SPACCA LA MAGGIORANZA CINQUESTELLE

Ottobre 23rd, 2013 Riccardo Fucile

DIVERSI CONSIGLIERI GRILLINI NON VOTANO LA DELIBERA DELLA GIUNTA PIZZAROTTI PER LA COSTRUZIONE DI UN NUOVO QUARTIERE ALLE PORTE DELLA CITTA’

A Parma la maggioranza Cinque stelle in consiglio comunale si sgretola.
Per la prima volta in un anno e mezzo di mandato del sindaco Federico Pizzarotti, una delibera presentata dalla sua giunta salta per colpa di alcuni suoi consiglieri che insieme alla minoranza si sono astenuti o hanno lasciato l’aula al momento del voto.
Dopo i malumori che si trascinavano da mesi nel gruppo per l’accensione dell’inceneritore e le politiche sulla cultura che avevano portato alle dimissioni del presidente della commissione Mauro Nuzzo, sono state le scelte sull’urbanistica a spaccare i Cinque stelle parmigiani.
Nodo del contendere, una delibera presentata dall’assessore ai Lavori Pubblici Michele Alinovi: un progetto di riqualificazione di un’area abbandonata di via Piacenza, nella zona Efsa dove dovrebbe sorgere anche il nuovo centro islamico, che prevede la realizzazione di edifici residenziali e negozi da parte di privati.
Il tutto, come ha spiegato l’assessore, senza le previste quote di parcheggi e verde pubblico, che verrebbero monetizzate all’amministrazione vista la vicinanza della zona al parco Ducale.
Nei fatti però si tratta di una nuova cementificazione a favore di privati in pieno contrasto con il programma Cinque stelle, che si aggiunge a quelle già  approvate dal consiglio, che in un anno e mezzo ha licenziato diverse aree edificabili alle porte della città , eredità  della giunta dell’ex sindaco Pietro Vignali: un’area di 9mila metri quadrati per il Decathlon, un nuovo quartiere residenziale di 11mila in via Budellungo, un polo sanitario al posto degli ultimi campi di grano nella prima periferia urbana e un centro commerciale di 40mila metri quadrati a Ugozzolo, in zona inceneritore.
Tutte scelte obbligate, a detta dell’assessore Alinovi, ma nei confronti delle quali alcuni consiglieri in passato avevano già  espresso non poche perplessità .
L’area di viale Piacenza è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Criticata dalla minoranza, che ha polemizzato sulla mancanza di chiarezza negli accordi tra Comune e privati e su eventuali irregolarità  dell’operazione, chiedendo di ritirarla e abbandonando la seduta, la delibera ha creato una frattura nella maggioranza Cinque stelle.
Nonostante le dichiarazioni favorevoli al progetto, al momento della votazione alcuni consiglieri si sono astenuti, altri erano assenti alla seduta, mentre la consigliera del Movimento Barbara Cacciatore ha abbandonato l’aula, come già  avevano fatto altri suoi colleghi prima della discussione.
Così, con la minoranza fuori e decisa a non votare, e le defezioni dei Cinque stelle, in consiglio comunale è saltato il numero legale.
La delibera non è stata approvata e dovrà  tornare ad essere discussa in commissione.
In un clima di tensione e tra gli imbarazzi del sindaco Pizzarotti e dell’assessore Alinovi, il Movimento 5 stelle ha convocato una riunione d’urgenza della maggioranza.
Poche ore dopo la spiegazione è arrivata per mezzo di una nota, che nega che ci siano rotture all’interno del gruppo, cercando di scaricare la colpa sull’opposizione: “Ancora una volta la minoranza ritiene che fare opposizione significhi non votare per far saltare il numero legale invece che assumersi la responsabilità  di fare una scelta, anche contraria, ruolo per il quale sono stati eletti”.
Anche Pizzarotti sulla sua pagina di Facebook ha esposto la stessa versione dei fatti, difendendo la sua maggioranza: “È bene precisare che il numero legale è venuto a mancare perchè mentre quattro consiglieri di maggioranza erano assenti per problemi lavorativi, quelli di minoranza sono usciti prima o non hanno partecipato al voto per far saltare la delibera e strumentalizzare l’accaduto raccontando una spaccatura che sa di ridicolo, se si considera che si tratta della prima delibera a non passare in un anno e mezzo di mandato”.
Ma anche l’opposizione ha dato la propria versione dei fatti, rispondendo sulla pagina del sindaco: “Credo che si debba raccontare la verità  e non cose non vere — ha replicato Roberto Ghiretti di Parma Unita — alcuni consiglieri 5 stelle non hanno voluto votare una delibera sballata . Una sana autocritica farebbe solo bene. Ma meglio dare la colpa alla opposizione cattiva e becera”.

Silvia Bia
(da “il Fatto Quotidiano“)

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INTERVISTA A LA RUSSA: “AVREMMO DOVUTO BATTERCI PER CHIEDERE CHE FINI GUIDASSE IL PDL”

Ottobre 23rd, 2013 Riccardo Fucile

TEMPI DA “AMARCORD”: “ERO MOLTO LEGATO A LUI, HO PROVATO UN GRANDE DOLORE, PECCATO SI E’ AUTODISTRUTTO”

«Sì, certo, ho letto l’intervista che Gianfranco Fini ha rilasciato ad Aldo Cazzullo sul Corriere … Diciamo che ha messo in piazza un dolore che non fu estremo solo per lui, ma anche e soprattutto per me»
Fini, parlando del libro che ha appena scritto, «Il ventennio», in uscita da Rizzoli, dice di ricordare bene la delusione, il dispiacere che provò quando si accorse che anche lei, onorevole Ignazio La Russa, si era piegato al diktat sulla sua espulsione dal Pdl.
«Quando mi mandò a chiamare, e io andai, subito, perchè era comunque ancora il mio capo, gli sconsigliai con forza di andarsene: gli dissi che, al contrario, avrebbe potuto e dovuto mettersi alla guida di un correntone interno. Lui però era determinato: “Sai, Ignazio, è già  difficile stare in un partito con Berlusconi, figurati in una posizione di minoranza”. Insistere, sarebbe stato superfluo. Aveva già  deciso».
Da Maurizio Gasparri, racconta Fini, non si aspettava nulla. Altero Matteoli era «filogovernativo». Gianni Alemanno non battè ciglio. Il silenzio di Giorgia Meloni gli ricordò Matusalemme. Ma da lei, La Russa, Fini si aspettava molto di più.
«Io avevo due possibili elementi di valutazione, per decidere se seguirlo, o meno: l’amicizia e la politica. Ora, detto che a Gianfranco ero certamente molto legato, lasciando il Pdl avrei però perso altri amici tra cui uno, Maurizio Gasparri, che mi era caro tanto quanto e forse più di Fini… Pensai perciò che la mia scelta dovesse essere di natura strettamente politica».
Continui.
«La verità  è che io avrei potuto seguire Gianfranco se avesse rotto con Berlusconi su posizioni di destra, da destra, e non con quella tragica deriva centrista, che la sinistra addirittura salutava con tutti gli onori, in visibilio… Del resto, scusi: chi fu poi il primo capogruppo alla Camera di Futuro e libertà ? Benedetto Della Vedova, un radicale, che adesso sta addirittura con Scelta civica. L’ideologo di Fli, ad un certo punto, divenne poi Fabio Granata, uno che a noi, dentro An, sembrava spesso essere uscito da una sezione di Rifondazione…».
(Conoscete Ignazio La Russa: sempre risoluto, mai un tentennamento, sempre con quella sua maschera caratteristica, da militante anche quando era ministro. Stavolta, però, la voce è pacata; l’irruenza cede il passo all’amarezza ).
«Comunque, sì, certo: un rimpianto rimane. Fini poteva essere il leader di un grande centrodestra e, invece, ha deciso di autodistruggersi. Un tempo pensavo che i libri li avrebbero scritti su di lui, mai avrei immaginato che sarebbe finita così, e che a scrivere un libro su Fini fosse proprio Fini. Naturalmente non gli serbo rancore: a Natale ci facciamo gli auguri e lui stesso mi chiamò, quando seppe che stavamo partendo con la bella avventura di Fratelli d’Italia. Però è chiaro: c’è la cordialità  di due ex grandi amici…».
La dissoluzione della destra italiana, che voi di Fratelli d’Italia state faticosamente cercando di rimettere insieme, lei davvero crede sia tutta imputabile a Fini?
«Lui era il capo… ma anche noi, e dico noi tutti che gli stavamo accanto, quando portammo An dentro il Pdl, certo commettemmo due errori: non fummo abbastanza scaltri da farci dare sufficienti garanzie e fummo miopi nel prevedere le possibili conseguenze che ciò avrebbe comportato. Con il senno del poi, forse avremmo dovuto batterci per chiedere che Fini guidasse il Pdl dalla segreteria, e che a Berlusconi, con il suo consenso, fosse destinata solo la poltrona di premier»
Fini, nel libro, racconta pure di non averle mai riferito la richiesta di Berlusconi: tagliarsi il pizzetto.
«Poi, però, fu Berlusconi a chiedermelo, personalmente, almeno una decina di volte. E sempre ottenne un mio secco rifiuto. Ma le pare? Io mi taglio il pizzetto perchè non piace a Berlusconi? Ah ah ah!… Ma le pare?» .

(da “il Corriere della Sera”)

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LA RETROMARCIA DI ANGELINO: “NON ROMPO CON SILVIO, LETTA NON MI DÀ GARANZIE”

Ottobre 23rd, 2013 Riccardo Fucile

IL TIMORE CHE RENZI PROVOCHI LA CRISI E CHE SI VADA A VOTARE TROPPO PRESTO ALL’ORIGINE DELLA FRENATA: “DEVO AVERE IL TEMPO DI ORGANIZZARMI”

«E sarebbero queste le larghe intese? Una provocazione, ecco cosa è la Bindi all’Antimafia». Raccontano che Silvio Berlusconi non si sia lasciato andare alle battute di dubbio gusto di un tempo sulla parlamentare pd, ma la sua elezione alla bicamerale lo ha convinto ancor più che la strada dell’alleanza di governo coi democratici sia al capolinea.
Ha preferito tenersi informato da Arcore, il Cavaliere, senza rientrare a Roma.
Lo farà  con molta probabilità  oggi, con un paio di appuntamenti già  in agenda. C’è un partito in rotta da tenere unito, almeno fin tanto che si voterà  la decadenza al Senato.
Non che il leader credesse davvero di spuntarla con la candidatura di Donato Bruno a capo di quella commissione.
Ma almeno pensava che alla fine si sarebbe arrivati a un compromesso. E invece niente.
Aventino, eseguito da tutto il partito, senza distinzione tra falchi e colombe. E ora il clima torna a farsi pesante nella maggioranza. Berlusconi coi suoi interlocutori ieri ha ripetuto di essere disposto a delle aperture sulla legge di stabilità , senza guerra preventiva.
Detto questo, ha anche designato il «mastino» Renato Brunetta come controrelatore della norma finanziaria.
Qualcosa sta mutando in queste ore, negli equilibri interni al Pdl.
Alfano non è più convinto come prima della opportunità  dello strappo che pure sembra imminente.
Ieri il segretario ha chiamato a più riprese il Cavaliere, lo ha rassicurato sull’ennesimo rinvio che starebbe ottenendo sul voto di decadenza.
Non più ai primi di novembre, ma da far slittare a dopo la sessione di bilancio al Senato, dunque tra fine novembre e i primi di dicembre.
Altro tempo utile per tenere aperta la partita, per sperare in una trattativa, non si capisce bene quale.
Berlusconi stesso è scettico, per nulla rassicurato. Comunque prende tempo.
Cosa è cambiato negli assetti interni?
Alfano ne ha accennato nei colloqui riservati col premier Letta, con gli altri ministri «amici» del Pd: «Io non ho più alcuna garanzia che possiate tenere sotto controllo Renzi, che da qui a qualche mese il vostro nuovo segretario non provochi la crisi lasciandomi in mezzo al guado», è il suo timore accentuato dalle uscite di queste ore del sindaco di Firenze.
Troppo alto il rischio di precipitare al voto anticipato senza avere il tempo di riorganizzare il centro non più berlusconiano.
Non a caso nei colloqui di ieri col capo, Alfano ha spiegato anche che il documento di due giorni fa firmato da 24 senatori a lui vicini non era un «atto ostile» contro lo stesso Berlusconi ma contro «i falchi che lavorano per rompere».
Il Cavaliere ha voluto appurarlo personalmente, chiamando alcuni di loro per chiedere il perchè della firma.
E per il momento resta nei cassetti anche il documento programmatico che il ministro Gaetano Quagliariello avrebbe già  messo a punto – dal titolo molto simile all’«Italia che vogliamo» – da sottoporre alla firma di tutti i parlamentari d’area.
Un manifesto politico bello e buono. Fermo, per ora.
Anche perchè Berlusconi ha voluto lanciare loro un segnale: oggi, al rientro a Roma, non convocherà  nè l’Ufficio di presidenza, nè il Consiglio nazionale, organismi direttivinei quali Fitto e i “lealisti” confidano per la conta interna.
Per mettere all’angolo Alfano, i ministri e le cosiddette colombe governative.
«Se non venisse convocato l’Ufficio di presidenza in settimana sarebbe un problema – ragionava il deputato pugliese coi suoi in Transatlantico – Logico che il segretario e tutti gli altri lavorano per prendere tempo: a loro conviene tenere la segreteria e tutti i ministri. Noi non ci stiamo. Ci hanno fatto anche scomparire da tutti i tg, combattiamo con le pietre contro i carri armati, ma non ci fermano ».
Il clima nel Pdl resta tesissimo.
Proprio tra Fitto e l’alfaniano Antonio Leone sono state scintille, ieri, nell’emiciclo della Camera, durante una pausa dei lavori.
Con la Gelmini costretta a intervenire per portare la calma. Berlusconi predica unità  ma in aula e fuori sono sempre più due partiti.

Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)

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INTERVISTA ALLA SANTANCHE’: “IL COLLE HA FALLITO: LA VERA PANZANA E’ LA PACIFICAZIONE”

Ottobre 23rd, 2013 Riccardo Fucile

LA PITONESSA: “IL CAPO DELLO STATO DEVE FARE L’ARBITRO, NON IL GIOCATORE”…”ACCANIMENTO CONTRO BERLUSCONI, IL PD DOVEVA SPECIFICARE CHE   LA LEGGE SEVERINO NON E’ RETROATTIVA”

«Sa quale è stata la vera panzana? È stata passare attraverso queste larghe intese garantite dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per raggiungere una presunta, assai presunta, diciamo pure inesistente pacificazione nazionale».
Più falca dei falchi, pitonessa per sua definizione, berlusconiana senza tentennamenti, è tornata: la deputata, in elegante tailleur, fuma una sigaretta nel cortile di Montecitorio e parte all’attacco. Il Quirinale e i ministri Pdl nel mirino.
Ancora con la storia della pacificazione?
«Ma stava tanto a cuore alla più alta carica dello Stato. E se stiamo ai fatti, non c’è stata. Dal punto di vista giudiziario abbiamo assistito a un accanimento esasperato e portato ora a compimento ai danni del presidente Berlusconi. Dal punto di vista politico, hanno deciso di far leva sulla legge Severino per farlo fuori, applicandola retroattivamente».
Lo prevede la norma, appunto.
«Ma la delega è ancora aperta, fino al 30 novembre. Il Pd se volesse potrebbe intervenire per specificare la non retroattività . Sembra che non ne abbiano alcuna intenzione. Per di più in queste ore hanno eletto anche la Bindi all’Antimafia».
Cos’è che non va, la Bindi?
«Sarebbe questa la pacificazione? Un presidente di rottura? Ma è chiaro che ormai vanno per la loro strada. Oggi nei fatti assistiamo allo spettacolo di un governo monocolore».
Ci sarebbero anche i vostri ministri, all’interno di quel governo.
«Sì ma questo non ha impedito che l’Iva aumentasse. E se non corriamo ai ripari in Parlamento, per evitare la seconda rata Imu rischiamo un aumento di tasse. Rischiamo che l’imposta sulla casa cambi nome ma provochi lo stesso esborso a carico degli italiani, dal 2014».
Insomma, questa legge di stabilità  non le piace?
«Al momento non contiene traccia del nostro programma elettorale. Forse è destinata a garantire la stabilità  del governo che l’ha sfornata. Non certo quella delle famiglie italiane, dei lavoratori, della gente che fatica ».
E dunque che conclusioni trae?
«La conclusione è che il progetto è fallito. Fal-li-to».
Quale progetto?
«Chi ha voluto più di tutti il governo di larghe intese? Il presidente della Repubblica. Questo vuol dire che dovrebbe assumersi lui la responsabilità  delle ricadute di questa sorta di instabilità , sulle famiglie e sui lavoratori ».
È una conclusione abbastanza pesante, impegnativa.
«Ma se si decide di non essere arbitro ma di fare il giocatore, e ricordo solo per citare l’ultimo esempio i quattro senatori a vita di centrosinistra, allora si deve imparare ad accettare le critiche ».
Non sarà  che tutta questa instabilità  politica segue la guerra aperta dentro il vostro Pdl?
«Guerre? Divisioni? Non ne vedo al nostro interno».
Le piace scherzare.
«Mettiamola così. Non voglio credere che possa esservi qualcuno che dica di non riconoscersi in due cardini fondamentali: nella leadership unica e insostituibile di Silvio Berlusconi e nel ritorno a Forza Italia. Nessuno penso voglia archiviare il presidente, la storia politica di questi vent’anni tutt’altro che conclusa ».
Per la verità , con la decadenza dal Senato un pezzo di storia finisce. Che succederà  da quel giorno?
«Sarebbe un passaggio tremendo. Ma decisivo. Mi chiedo come i nostri ministri a quel punto potrebbero tornare a sedere al governo con i loro colleghi del Pd che hanno votato per cacciare Berlusconi dal Parlamento. Come potrebbero far finta che non sia successo niente? Sono convinta che molto succederà ».

Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)

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ROSY BINDI E LE LARGHE INTESE: NON SI DIMETTE E IL PDL MINACCIA L’AVENTINO

Ottobre 23rd, 2013 Riccardo Fucile

LA SUA ELEZIONE A   PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE ANTIMAFIA GENERA QUALCHE MALUMORE ANCHE NEL PD

Non ha nessuna intenzione di dimettersi, Rosy Bindi. È stata eletta presidente della commissione antimafia al secondo turno durante una riunione convulsa in cui il Pdl non si è presentato per protesta, Scelta Civica ha scelto di astenersi per «mancata concertazione», il 5 stelle siciliano Giarrusso guardava in cagnesco il suo candidato Luigi Gaetti (epatologo di Mantova non proprio esperto di fenomeni criminali), e il Pd entrava a palazzo San Macuto con il mal di pancia ancora in corso.
«Alla riunione con Epifani non c’è stata alcuna unanimità  – rivela un democratico – sulla Bindi avevano espresso riserve i renziani, Lumia, la stessa capogruppo Garavini, ma il segretario ha deciso di forzare».
Anche Davide Faraone, deputato siciliano vicino al sindaco di Firenze, crede sia stato «un errore aver ragionato su questa commissione con la logica delle bandierine ed essersi divisi », ma nega ripensamenti: «La Bindi è una presidente autorevole e va sostenuta»
Alla fine, quindi, prevale la diligenza di partito.
Rosy Bindi è certa di aver preso tutti i voti dei democratici (19 escluso il suo) più 2 di Sel, 2 socialisti, e probabilmente anche quelli della Lega.
Erano 23 alla prima votazione, sono diventati 25 al ballottaggio, quando – assente il Pdl – i giochi erano praticamente fatti.
I vicepresidenti sono Claudio Fava di Sel e il 5 stelle Gaetti (di cui qualche giorno prima il collega Giarrusso diceva: «Non so chi sia, viene dal nord, io gli incompetenti non li voto»).
Segretari il leghista Angelo Attaguile e Marco Di Lello del Psi.
A otto mesi dall’insediamento delle Camere, quindi, la commissione sarebbe finalmente in grado di lavorare.
L’Aventino del Pdl, però, rende tutto più complicato.
I capigruppo alla Camera e al Senato Brunetta e Schifani hanno cercato di scongiurare il voto fino all’ultimo, facendo disertare la riunione e denunciando un patto violato. Non è servito. Così, nel momento stesso in cui una sorridente Rosy Bindi a via del Seminario si augurava che «tutti gli eletti si adoperino per ricomporre questa frattura e che chi non era presente riconosca che c’è stato un voto», dagli uffici pdl di Camera e Senato arrivava un identico comunicato: «Si dimetta. Noi non ci presenteremo in commissione finchè non lo farà ».
Non si tratta solo di falchi. Per la prima volta dopo settimane il Pdl è unito nel dichiarare inaccettabile l’elezione dell’ex vicepresidente della Camera, che anche per Fabrizio Cicchitto «dovrebbe rimettere il mandato» perchè «con questa forzatura è stata affossata l’antimafia».
Lei invita tutti a «fare un piccolo passo», a ricordare che «siamo qui per lottare contro la mafia e non per farci la guerra tra di noi».
A chi le chiede se prende in considerazione le dimissioni, risponde ferma: «Non posso non rispettare le 25 persone che mi hanno votato. So che devo essere la presidente di tutti, ma non lo posso fare se loro non mi riconoscono come tale».
Dice che la commissione può andare avanti anche senza una componente, ma si augura di cominciare «il giorno in cui il Pdl mi indicherà  il suo capogruppo».
La pensa diversamente il neo vicepresidente Claudio Fava: «Abbiamo perso fin troppo tempo, un organismo così importante e delicato come la commissione antimafia non può essere ostaggio delle beghe dei partiti. Dobbiamo metterci subito a lavoro».
A sera, il presidente del Senato Piero Grasso invita il Pdl a tornare sulla sua decisione, ma dal partito di Silvio Berlusconi non arrivano aperture.
Per ora, resta l’Aventino.

Annalisa Cuzzocrea
(da “La Repubblica”)

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SCELTA CIVICA VERSO LA SCISSIONE, MONTI: “NON FATEVI SVENDERE”

Ottobre 23rd, 2013 Riccardo Fucile

LITE SULLA SEPARAZIONE DEI GRUPPI PARLAMENTARI… MERLONI SI DIMETTE

Monti va via dal vertice di Scelta civica, non partecipa alla riunione notturna del direttivo del partito che ha fondato, però detta una linea di grande durezza.
La sua uscita di scena, scrive al vicepresidente, Alberto Bombassei, contribuirà  «ad isolare quei pochi che, ottenuto il loro seggio in Parlamento o al governo col nostro simbolo, oggi vogliono superare Scelta civica in nome di nuovi progetti che appaiono non coerenti con i nostri valori costitutivi. Chi vuole “superare” Scelta civica dopo essersene servito, merita una vostra reazione»
Il dibattito al direttivo in via Poli, a due passi da Montecitorio e da Palazzo Chigi, si è concentrato sulla separazione dei gruppi parlamentari: Scelta civica da una parte e Udc dall’altra assieme al ministro Mario Mauro, ex Pdl.
A volere la separazione Della Vedova, ex finiano, Andrea Romano e Carlo Calenda, che vengono dal movimento di Montezemolo, Linda Lanzillotta, ex Pd.
A cercare una ricucitura i cattolici Dellai (ex margherita), Olivero (Acli), Giro e Santerini (Sant’Egidio).
Spiega Mario Marazziti, anche lui della Comunità  di Sant’Egidio: «La frammentazione è un suicidio, la strada verso l’irrilevanza. Monti, Mauro e Casini hanno tutti come obiettivo ideologico il Partito popolare europeo. Per questo litigano?»
I cattolici propongono un congresso che definisca programmi e identità  del partito. Ma anche i montiani (i seguaci dell’ultimo, duro, Monti) come Romano vogliono un congresso: dopo però la fine del «fidanzamento» nei gruppi parlamentari con Casini e l’Udc.
Perchè la convinzione è che Mauro abbia «strappato» da Monti, giovedì, avendo all’orizzonte – più o meno lontano – l’accordo con Casini e soprattutto con Alfano e i moderati Pdl, ammesso che mai dovessero lasciare Berlusconi.
Un’operazione che vedrebbe un passaggio intermedio, in una formazione «Popolari per l’Italia», in attesa che le situazioni evolvano.
Un centro allargato, che da tempo è nella mente di Pier Ferdinando Casini.
Ma dentro Scelta civica i numeri quali sono?
Alla Camera la linea di Monti contro Casini è largamente prevalente fra i 47 deputati. Il Senato invece è il luogo dove è nato lo scontro: undici senatori più uno (Mario Mauro) hanno firmato la lettera di appoggio incondizionato al governo e di bocciatura delle critiche di Monti alla legge di Stabilità .
Lettera che ha provocato le dimissioni di Monti.
Al Senato Mauro è in maggioranza e ci sono anche i numeri (dodici, appunto) per formare un gruppo autonomo, fuori da Scelta civica.
Alla Camera i numeri mancano: ci sarebbero soltanto gli 8 Udc e una manciata di ex Scelta civica (servono venti deputati).
I deputati si riuniranno oggi, i senatori domani
Al direttivo ieri sera non c’era Monti, non c’era Mauro, impegnato a Bruxelles come ministro della Difesa e non c’era neanche Maria Paola Merloni, che ieri si è dimessa da vicepresidente di Scelta civica.
Merloni è una delle undici firmatarie della lettera «anti-Monti».
Il filo conduttore della lettera era l’appoggio al governo Letta. Monti nel suo messaggio a Bombassei nega che Scelta civica abbia dato scarso appoggio a Letta: «A volte qualche strattone può essere utile e necessario, senza dover essere accusati di oscure trame volte a mettere a repentaglio la vita del governo.
In questi mesi le turbolenze, le minacce e i diktat al governo sono venuti piuttosto dal Pd e soprattutto dal Pdl che ha cercato di usare il governo, a volte riuscendoci, per adempiere a carico dello Stato alle sue promesse elettorali».
Mauro dice invece di lavorare per «un centro popolare liberale, che collabori, rimanendo distinto e competitivo, con una sinistra riformatrice».
Chiede che non si «cacci» dai gruppi l’Udc e chiede il congresso.
La frattura sembra ormai troppo larga.

Andrea Garibaldi
(da “il Corriere della Sera“)

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