Novembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
“FITTO? UN POLITICO DI PROVINCIA CHE HA PRESO VOTI A BISCEGLIE”… “SENZA SILVIO CI SAREBBE STATA UNA DESTRA DI SERIE B, DAL MSI AD AN”…”SALVINI LEADER? BERLUSCONI LO AVEVA DETTO ANCHE DELLA BRAMBILLA”
Appuntamento con Giuliano Ferrara, direttore de Il Foglio , alle quattro del pomeriggio
Ma è in lieve ritardo.
«Sto salendo adesso su un taxi…». Cellulare, Roma, il frastuono del traffico di sottofondo. «Però se il tassista è disposto a sopportare le mie chiacchiere, l’intervista possiamo cominciarla subito… Dai, parti con la prima domanda…»
Silvio Berlusconi controlla ancora Forza Italia?
«Berlusconi non ha mai controllato Forza Italia. Non controlla coalizioni, nè governi, nè partito: lui è il partito, è la coalizione, è il governo. Una figura simile a Kim Il-sung, il dittatore coreano. Poi, certo, è anche un grande e famoso megalomane che, per anni e anni, è stato comunque l’unica giustificazione della destra italiana. Senza di lui cosa ci sarebbe stato, cosa c’è? Il Movimento sociale, An, Fratelli d’Italia… Roba da serie B. Bossi capì ed ebbe l’astuzia di essergli amico. Ma ora l’erede di Bossi è Salvini, un brillante attaccamanifesti. No, dai: la verità è che senza Berlusconi non erano niente e non saranno niente»
Non ti sarà sfuggito, direttore, che Raffaele Fitto sembra muoversi come uno pronto a lanciare un’Opa e…
«Non accetto domande su Raffaele Fitto!».
Permettimi d’insistere.
«Ma cosa dovrei dirti? È un politico di provincia che ha preso preferenze a Bisceglie, con enorme rispetto per Bisceglie. Posso parlarti di Fitto? Posso parlarti di Fitto, dopo che mi hai appena chiesto un parere su Berlusconi, uno che ha battuto tutti i suoi avversari, da Occhetto a D’Alema, da Prodi a Bersani?».
Berlusconi intanto dice che Salvini può essere il nuovo candidato premier del centrodestra.
«Sai, Berlusconi cambia spesso le statuine del suo presepe personale… Ricordi quando diceva che Fini sarebbe stato il suo successore? No, dico: ad un certo punto indicò persino la Brambilla e io me lo ricordo Tremonti, a cena, che quando lo seppe quasi mi svenne davanti al ristorante… No no… Vuoi la verità ?».
Dai.
«Berlusconi vuole governare con lucidità , e la parola lucidità qui la dico e qui la nego, una fase di transizione del Paese d’intesa con il Pd: poi, se al termine di questo percorso lui ce la facesse a vincere ancora, allora sarà Napoleone…».
E non ce la facesse?
«Gestirà la sconfitta con il suo vero erede».
E chi sarebbe?
«Renzi, è chiaro! Perchè è Renzi il capo della nuova generazione che si riconosce nel trasversalismo inventato da Berlusconi medesimo. Staffetta perfetta».
Per immaginarci un Berlusconi vittorioso dobbiamo cominciare ad immaginarci un Berlusconi di nuovo candidabile: devi ammettere che ci vuole un bel po’ di fantasia.
«Più che alla fantasia, dobbiamo affidarci alla Divina provvidenza. Ci sono di mezzo tribunali italiani e la corte europea, l’interpretazione di molte leggi e l’elezione del nuovo capo dello Stato…».
Non hai mai nominato Angelino Alfano.
«Alfano?».
Alfano sostiene d’essere disposto a ricostruire un’alleanza di centrodestra ma…
«Dimmi un po’: non ti ho risposto su Fitto e ora pensi che ti risponda su Alfano? Guarda, non è antipatia. Però davvero questi sono tutta robetta… Fratelli di Alfano, Fratelli di Fitto, Fratelli di Salvini… partitucci, veri o potenziali, che non arrivano al 6%…».
Patto del Nazareno.
«Se mi dici che scricchiola, mi metto a urlare…».
Non te lo dico: ma è un patto destinato a durare, sì o no?
«Il cosiddetto Patto del Nazareno è la legittimazione della legislatura, e non per ragioni puramente aritmetiche. Vogliamo rinfrescarci la memoria? Dopo le elezioni del 2013, Berlusconi disse: voglio un governo di larghe intese e voglio che Napolitano resti presidente. Ricorderai che Bersani non lo ascoltò e provò a fare il governo del cambiamento con Grillo, andando subito a sbattere. Così spuntò fuori Letta, che pensò di farsi un governo in accordo con Alfano. Ma durò un battito d’ali. A quel punto chi arriva?».
Renzi.
«Bravo, arriva Renzi. E che fa? Riceve subito Berlusconi al Nazareno, nella sede del Pd, e lì gli spiega che accetterà entrambe le sue richieste, su governo e Quirinale. Tutto qui. Semplice semplice. Per questo il Patto tiene. E vi sarei grato se voi del Corriere riusciste a spiegarlo anche a quei due premi Nobel di Fitto e di Brunetta…».
( Pausa ).
«Aspetta che devo dire al tassista… ecco, qui, se accosta qui è perfetto. Io sono arrivato… E tu che dici? Mi sembra che l’intervista c’è tutta, no?».
Fabrizio Roncone
(da “il Corriere della Sera“)
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Novembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
“SE IL PREMIER FOSSE STATO LEADER DI UN PARTITO NEGLI ANNI ’50, IO E MIO PAPA’ L’AVREMMO VISTO COME UN RIVALE POLITICO”
Nemmeno Gianni Morandi ha votato, domenica scorsa per le elezioni in Emilia-Romagna. 
La sua confessione sorprende perchè negli ultimi anni non ha mai parlato volentieri di politica e figuriamoci di voti: anche le pietre, intanto, sanno la sua storia orgogliosa di ragazzo figlio del ciabattino di Monghidoro, e di quei pomeriggi della domenica passati insieme a distribuire l’Unità a chi entrava nel cinema Aurora del paese.
Si intuisce ora un fiotto di amarezza che gli esce dal cuore, in una serata nata invece tutta calda e affettuosa: all’improvviso le canzoni tacciono e si parla fuori dai denti della sua Regione che ha perso l’onestà ; e di una parte nella quale si è a lungo riconosciuto ma che non è più la stessa: «Se ci fosse stato Matteo Renzi leader di un partito negli Anni Cinquanta, io e mio papà forse l’avremmo visto come un rivale politico».
Che cambio di atmosfera, alla Eatery, mentre Morandi canta i settant’anni che arriveranno il prossimo 11 dicembre, festeggiati anche con un album di successi dal titolo prudente, «Autoscatto 7.0».
Ma la musica, quando ha un senso, anche questo sa fare: confessa.
Gianni racconta che da ragazzo la sua preferita era «Un mondo d’amore», il grande prato verde dei ragazzi che si chiamano speranza.
Invece ora: «Per il disco, i titoli sono stati scelti dai 1 milione e centomila fans sulla mia pagina Facebook: la più votata, con un grande margine, è stata “Uno su mille”. È una canzone che è un termometro vero di disagio, con il suo testo che fa “Se sei a terra non strisciare mai, se ti diranno che è finita non ci credere…”».
Magari allora, nel 1985 quando la canzone fu scritta da Bardotti, proprio pensando ai tempi difficili che Morandi aveva appena passato con l’avvento del rock, ce la faceva uno su mille, caro Gianni Morandi: adesso quante sono le probabilità ?
La risposta arriva affilata e oscura per un attimo l’idea dell’emiliano giovialone: «Io dico che un momento così non se lo aspettava nessuno in Italia. Non c’è qualche spiraglio, qualche speranza vera a cui appendersi, qualche luce lontana alla quale ispirarsi, a parte le parole che dice ogni tanto Papa Francesco».
Il tempo di un sospiro, di rendersi conto che, con la sua storia e il suo mestiere, ha il dovere del tiramisù. E allora prosegue: «Ma io sono ottimista, credo nei giovani, credo che salveranno l’Italia e non solo».
In realtà , la delusione per la sua Emilia brucia ancora: «Un mese prima delle elezioni è successo lo scandalo in Regione. Sembrava che a casa nostra non succedessero queste cose, invece anche loro alla fine hanno messo le mani nella marmellata. Ecco, io sono uno di quel 63 per cento che non è andato a votare: ma forse anche perchè davo per scontato l’esito, pensavo che alla fine Bonaccini avrebbe vinto e forse non c’era bisogno di grande sostegno».
Rimarca che è stata la prima astensione della sua vita: «Certo che ci rimani male. Non so se è Renzi che non ha portato la gente a votare, però in Emilia c’è uno zoccolo duro che sta un po’ più a sinistra di lui».
Certo, caro Morandi, la politica di sinistra è molto cambiata…
Sorride, riprendendo le sue memorie doverose da compleanno rotondo: «Nella mia vita ho fatto un’excursus ben lungo. Da Togliatti, che mi fa sempre pensare a mio padre quand’ero bambino, a Berlinguer che è stata l’ultima grande figura del partito, uno veramente meraviglioso, serio, sobrio, da classe dirigente… E poi, c’era sempre Andreotti: ci ho convissuto per 45 anni. Lui era ministro e io cantavo a Canzonissima, lui era primo ministro e io continuavo a cantare…».
Marinella Venegoni
(da “La Stampa”)
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Novembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
DOPO LE ELEZIONI REGIONALI AVEVANO OSATO CRITICARE I VERTICI… PIZZAROTTI A GRILLO: “RIPRENDI LUCIDITA’ E FERMATI”
La motivazione dichiarata è la mancata restituzione di parte dello stipendio. Ma dietro potrebbero esserci le critiche mosse al Movimento dai due deputati messi sotto accusa.
Beppe Grillo lascia la decisione alla Rete e dal blog apre un voto on line, sino alle 19, sulla proposta di cacciare da M5s i deputati Paola Pinna e Massimo Artini, rei di non rispettare il codice interno.
“Chi non restituisce parte del proprio stipendio (come tutti gli altri) viola il codice di comportamento dei cittadini parlamentari M5s, impedisce in questo caso a giovani disoccupati di avere ulteriori opportunità di lavoro oltre a tradire un patto con chi lo ha eletto. Un comportamento non ammissibile in generale, ma intollerabile per un portavoce del M5s”, si legge nel ‘capo d’imputazione’.
“Quindi valuta: sei d’accordo – si chiede ai militanti – che Pinna e Artini NON possano rimanere nel Movimento 5 Stelle?”.
Immediata su Facebook la replica della deputata: “Io le regole le ho sempre rispettate, i soldi li ho restituiti come previsto. Sono loro che le stanno violando visto che”, sulla procedura di espulsione, “non stanno passando per l’assemblea come previsto da Statuto M5s”, ha detto Pinna, che ha aggiunto: “Quanto apparso poco fa sul blog www.beppegrillo.it è falso. Per non parlare di quella che è una vera e propria sospensione dello stato di diritto…Sul sito www.tirendiconto.it abbiamo deciso di non pubblicare in 18 perchè ci sono troppi dubbi sulla gestione e attendiamo delle risposte. Sul mio blog www.paolapinna.it sono caricate le contabili dei bonifici fino al mese di settembre, tre mesi in più rispetto al blog”.
La deputata ha pubblicato sempre su Facebook la copia delle ricevute dei bonifici, pari a circa 23 mila euro. E su Twitter: “Un cittadino in buona fede, anche se parlamentare, non ha nulla da temere. Soprattutto se ha le prove”.
Pinna e Artini all’attacco.
I due deputati finiti nel mirino non hanno risparmiato critiche al M5s dopo i risultati delle Regionali: Paola Pinna, già in passato accusata di essere una ‘dissidente’, aveva apertamente dichiarato che il Movimento “perde pezzi”.
Per la rappresentante M5s, “da interpreti della protesta e da unica alternativa credibile a un sistema corrotto e inefficace, dominato da un malaffare lontano dalle istanze dei cittadini, siamo diventati marginali sulla scena politica. Ci siamo auto-condannati all’esclusione rinunciando al nostro ruolo di innovatori, che è stato usurpato da chi oggi inneggia a un 2 a 0 che non c’è o da chi festeggia dicendo ‘ho fatto meglio dell’Umberto e anche del Silvio'”.
Non meno dure le parole di Massimo Artini: “La gente sul territorio non è arrabbiata, di più”, ce l’ha “con chi si inventa una cavolata come quella di Mussolini che non ha ucciso Matteotti da mettere sul sito il giorno in cui ci sarebbe da parlare della sconfitta elettorale. Immagino ce l’avessero nel cassetto da mesi”, aveva detto in un’intervista a Repubblica. “Il punto è che non riusciamo ad avere la credibilità che ci meritiamo. Anche stavolta, non siamo stati credibili. E visibili”. Dichiarazioni forti, che potrebbero aver accelerato la decisione del leader di mettere ai voti la permanenza o meno dei due nel Movimento.
Altre critiche.
Ma quelle di Pinna e Artini non sono le uniche voci critiche contro M5s. Altri due deputati, Sebastiano Barbanti e Tancredi Turco, sono apparsi in tv, sfidando apertamente il divieto fatto ai parlamentari pentastellati di apparire in trasmissioni televisive e soprattutto talk show: parlando davanti alle telecamere di Agorà , i due, che già avevano preso le difese di Walter Rizzetto, “scomunicato” via blog per la partecipazione a Omnibus su La7, hanno messo in discussione in sostanza il ruolo di Grillo, come “unico megafono” del Movimento: “È il momento di fare autocritica, di fare una riflessione seria al nostro interno. Troppe volte i cittadini hanno visto i toni accesi e poche volte le nostre proposte”.
A rischio espulsione altri 15 deputati.
Ci sono altri 15 deputati M5s, oltre a Massimo Artini e Paola Pinna, che non hanno rendicontato le spese sul blog di Beppe Grillo.
Sul blog mancano gli aggiornamenti delle spese e dei versamenti al fondo per le Pmi di Marco Baldassare, Sebastiano Barbanti, Eleonora Bechis, Silvia Benedetti, Paolo Bernini, Federica Daga, Marta Grande, Mara Mucci, Girolamo Pisano, Aris Prodani, Walter Rizzetto, Gessica Rostellato, Samuele Segoni, Patrizia Terzoni, Tancredi Turco.
Ora, dentro e fuori il Movimento, c’è chi si chiede se anche per loro sia pronto il cartellino rosso.
Le reazioni.
“Spero che qualcuno riprenda lucidità e si fermi in tempo. Non ho sacrificato parte della mia vita per vedere accadere tutto questo”. In un tweet, il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, così ha commentato alla luce delle due espulsioni avviate dal blog di Beppe Grillo contro due deputati M5s, Paola Pinna e Massimo Artini.
“Ciù is melk che uan #pinna #artini”. Così Rizzetto commenta su Twitter la proposta di Grillo di espellere dal Movimento Pinna e Artini. Alla frase, Rizzetto allega la foto di un biscotto gelato a due gusti.
Anche la deputata M5s Patrizia Terzoni esprime la sua contrarietà all’espulsione dei suoi colleghi: “Io voto no, aiutateci a diffondere la verità “, scrive sulla sua pagina Facebook lanciando l’hashtag #beppequestavoltanoncisto.
Poi è stata la volta di un’altra deputata del Movimento, Eleonora Bechis: “Il blog viola il regolamento!”, scrive la deputata M5S su Twitter contro il blog di Beppe Grillo. “Artini e Pinna sono M5S – scrive Bechis – chi ha scritto quello schifo?”
“Siamo alle solite. Il blog di Beppe Grillo, con un nuovo atto d’imperio e senza rispetto per il codice di comportamento per gli eletti 5 stelle, procede a due nuove espulsioni nel Movimento, senza passare per l’assemblea congiunta. E questa sarebbe la tanto sbandierata democrazia? A quanto pare gli errori compiuti in passato non hanno insegnato niente ai vertici”, dicono i senatori ex M5s, ora nel gruppo Misto, Alessandra Bencini, Monica Casaletto, Maurizio Romani, Fabrizio Bocchino, Laura Bignami, Francesco Campanella e Luis Alberto Orellana, commentano il via libera alla procedura di espulsione.
(da “La Repubblica”)
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Novembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
ELETTO DA 21 ANNI, HA PORTATO LA PRIMA MOGLIE A LAVORARE IN CONSIGLIO COMUNALE A MILANO… LA SECONDA È FINITA IN LOMBARDIA CON MARONI… UN APPARTAMENTO A SOLI 40.000 EURO… SALVINI E’ GIA’ COSTATO ALLO STATO ITALIANO 2 MILIONI DI EURO
Gli immigrati vanno cacciati perchè creano degrado, professa Salvini, ma a volte anche buoni affari. 
Il leader del Carroccio lo sa bene visto che ha acquistato un appartamento nel cosiddetto fortino milanese di viale Bligny 42 per appena 40 mila euro.
Lui ovviamente non ci vive. È, appunto, un investimento.
La zona è quella dei Navigli e con una cifra simile non ci si compra neanche una cantina, ma al civico 42 vivono 700 stranieri, è saltato fuori l’affare e Salvini ci si è avventato.
Perchè lui, in fondo, è renziano: conta ciò che si dice in tv, i fatti rimangano marginali.
Come le invettive contro i meridionali, dipinti come maniche di raccomandati nelle strutture pubbliche, o gli strali schifati nei confronti delle parentopoli della casta.
Poco conta che lui abbia fatto lavorare prima sua moglie Fabrizia Ieluzzi per dieci anni al Comune di Milano, quando lui a Palazzo Marino era consigliere, e poi abbia fatto assumere l’attuale compagna, Giulia Martinelli, in Regione dall’amico Roberto Maroni con un compenso che sfiora i 70 mila euro annui
Ma in Padania le parentopoli non esistono. Poi, certo, arriva la Corte dei conti e scopre che l’ex capogruppo leghista al Pirellone, Stefano Galli , con i soldi della Regione ha pagato anche il pranzo di nozze della figlia (soldi poi restituiti) e concesso una consulenza al genero.
O la procura che rinvia a giudizio l’intero gruppo consiliare per le cosiddette spese pazze e salta fuori che tra i rimborsi fantasiosi contestati dai magistrati ai leghisti lombardi ci sono anche numerose ricevute di pasti consumati nei pub della catena Brando di cui è comproprietaria Giulia Martinelli.
Anche lei, come il compagno, ha fiuto per gli affari.
Lui però nel settore politico.
È entrato nei Palazzi nel 1993 senza mai uscirne. Ventidue dei suoi 41 anni li ha trascorsi da eletto.
Più della metà dell’esistenza l’ha vissuta stipendiato dai contribuenti. Che a volte gliene hanno pagati pure due, di stipendi.
Salvini entra in consiglio comunale a Milano nel 1993 e ne esce solamente nel 2012. Nel frattempo, dal 2004 in poi, siede anche al Parlamento europeo.
E la busta paga che arriva da Bruxelles ammonta a circa 18 mila euro al mese.
In dieci anni, con un rapido calcolo al ribasso, Salvini ha ricevuto dalla Comunità più di 2 milioni di euro.
Certo, per conquistarsi quel seggio ha dovuto crescere a pane, Padania e acqua del Po. Dietro a Umberto Bossi dal 1990, fedele e silente, amico del Trota Renzo e di tutta la famiglia.
Quando nel 2004 Salvini sbarcò per la prima volta a Bruxelles scelse come suo portavoce Franco Bossi, il fratello “sfortunato e poco sveglio” di Umberto, diceva il Capo.
Della delegazione padana faceva parte anche Riccardo, il primogenito del Senatùr.
E già allora Salvini, da direttore di Radio Padania Libera, sparava a zero contro il clientelismo in terronia e le assunzioni nel pubblico di amici e parenti.
Ma la coerenza in via Bellerio è un principio saldo come i confini della Padania. Scivolati dal Po ai piedi dell’Etna. Cambiare idea è lecito.
Salvini è passato dalla secessione all’unità d’Italia, dal “Napoli merda” al “viva il Vesuvio”.
Ma soprattutto è riuscito, in poco più di dieci anni, a coprire l’intero asse sinistra-centro-destra.
Entrato nella Lega nel 1990, nel 1997 ha dato vita ai Comunisti Padani dicendo di voler sviluppare “il progetto di Bertinotti al Nord”, ha poi lasciato la spilletta di Che Guevara che era solito portare sul bavero della giacca per sposare le tesi della famiglia Le Pen (che invece da generazioni l’idea non l’hanno mai cambiata) e ora partecipa a dibattiti circondato da busti e poster del Duce in compagnia dei suoi nuovi alleati: Casa Pound.
Ormai c’è una sorta di sodalizio: le nostrane teste rasate, infatti, si prestano a fare anche servizio d’ordine ai comizi leghisti.
L’ultima occasione? A Roma la settimana scorsa per la visita dell’ideologo, nonchè tutore di Salvini in Ue per oltre dieci anni, Mario Borghezio.
Le radici sono importanti. E per quanto Salvini non sia mai riuscito, nonostante la devozione mostrata, a entrare nelle grazie del vecchio capo, Umberto Bossi, che per farsi tenere il posacenere ha sempre preferito altri come l’ex governatore in mutande verdi Roberto Cota, il Matteo padano ci tiene alla coerenza leghista.
Anche negli studi, per dire, ha tentato di seguire le orme del leader: iscritto alla facoltà di Storia ha pagato le tasse per 16 anni consecutivi per poi rinunciare.
Ma senza fingere di essersi laureato, cosa che invece Bossi ha fatto per due volte.
Ma se il Senatur è passato alla storia per aver dato vita a un movimento identitario e ideologico, Salvini sarà ricordato per colui che quel partito lo ha azzerato: le casse di via Bellerio sono infatti in profondo rosso, il giornale la Padania il primo dicembre stamperà l’ultimo numero e tutti i 71 dipendenti del Carroccio sono stati appena spediti in cassa integrazione.
Eppure, nonostante i drammatici conti del partito, Salvini ha deciso di rinunciare a costituirsi parte civile contro l’ex tesoriere Francesco Belsito.
Quello che in dieci interrogatori ha raccontato di aver dato soldi in nero a tutti i vertici del partito, di ieri e di oggi.
Per carità : al processo dovrà dimostrare tutto.
E Salvini ora ha altro di meglio da fare. Travestire di nuovo il vecchio Matteo.
Davide Vecchi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
PAURA DIMISSIONI: INCONTRO AL COLLE PER STABILIRE CHE FARE ADESSO
È arrivato al Colle in tarda mattinata all’apparenza spavaldo e sicuro come al solito, Matteo Renzi.
A Napolitano, ancora una volta, è andato a dire che lui ha intenzione di andare avanti fino al 2018.
Ma i 30 deputati Dem che non hanno votato il Jobs act martedì sera e il crollo di Forza Italia sono elementi di destabilizzazione. E di preoccupazione.
Per Napolitano che teme per la tenuta della legislatura. E per Renzi che si trova in un cul de sac. Il governo rischia la palude progressiva e le riforme il rimando alle calende greche.
E allora, il premier, accompagnato dal ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi è salito al Colle a chiedere una mano.
Le dimissioni imminenti del Capo dello Stato (non si va oltre fine anno o inizio dell’anno nuovo, continuano a ribadire i più vicini al Presidente) rischiano di far fermare chissà fino a quando il percorso.
E allora, sullo sfondo resta la richiesta che sta sempre lì sul tavolo, a Napolitano di restare almeno un altro po’. Magari fino a metà febbraio.
Fino a quando l’Italicum non sarà in sicurezza. Re Giorgio continua a dire di no.
La situazione è complessa. Senza Italicum, l’arma del voto anticipato è spuntata: è quello il sistema che gli permette di prendere tutto.
Ieri al Tg 1, dopo giorni cruciali di inusuale sotto-esposizione mediatica, che rivelano la difficoltà a trovare una strategia sicura, ha ribadito: “Il presidente non ha bisogno di essere rassicurato. Sa perfettamente che se il Parlamento fa le leggi lavorando il sabato e la domenica, e se raggiunge gli obiettivi fissati arriverà alla scadenza naturale del 2018”.
Il punto è esattamente questo: fare le leggi, e farle presto. Un obiettivo che non è proprio semplice.
Ieri Luigi Zanda ha chiesto al presidente del Senato Grasso che sull’Italicum si possa andare avanti anche durante la Stabilità . Per arrivare all’approvazione a Palazzo Madama entro fine anno (o gennaio, nuova scadenza che s’è dato il premier sempre al Tg1) i tempi tecnici, seppur strettissimi, ci sono.
Ma non c’è l’accordo politico. Perchè nessuno vuole regalare a Renzi l’arma perfetta per andare al voto e vincere tutto.
Allora, Napolitano ieri ha chiesto al premier di sgombrare il campo dai sospetti di voto, un’ipoteca sulla legislatura, che rischia di avvelenare il clima. Non a caso la nota del Quirinale parla di un percorso “che tiene conto di preoccupazioni delle diverse forze politiche, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra legislazione elettorale e riforme costituzionali”.
La soluzione potrebbe consistere nell’entrata in vigore del neo-Italicum solo dopo l’approvazione definitiva della riforma del Senato (che richiederà alcuni mesi).
Ieri Calderoli ha presentato un odg che va in questa direzione e la minoranza bersaniana pure.
Ma a Renzi questo quanto conviene? Vuol dire avere un’arma spuntata.
E dunque, si lavora a un’intesa sulla cosiddetta “clausola di salvaguardia” della legislatura.
Da Palazzo Chigi continuano a ribadire che si può votare con l’Italicum alla Camera e Consultellum al Senato.
Quello che può concedere il premier è un accordo politico, più che una legge. Qualcosa che sia vincolante, ma non del tutto. Le elezioni con il Consultellum sono l’ultima ratio.
Convengono più ai piccoli, magari agli scissionisti che a lui. Ma quando tutto diventa ingovernabile, il premier potrebbe pure dimettersi e rischiare il tutto per tutto.
Sullo sfondo, la partita delle partite, quella del Colle: se il patto del Nazareno regge sulla legge elettorale, Berlusconi può restare in gioco anche su questo.
Renzi può provare a scommetterci. Ma regge con Fi a pezzi? E basta, con i giochi di corrente nel Pd?
Le grandi manovre sono già in atto. Anna Finocchiaro è pronta a non mettersi di traverso sull’Italicum per poter ambire al Colle; ieri a lavorare per Romano Prodi sono arrivati a Montecitorio Arturo Parisi e Pierluigi Castagnetti; il nome di Gentiloni torna tra i renziani doc; non è tramontato neanche quello di Graziano Delrio.
Sullo sfondo Walter Veltroni, Dario Franceschini. Ognuno avrà il suo candidato. Vietnam garantito. Perchè, come sintetizza un senatore dem, “Renzi è ancora vincente, ma non onnipotente”.
Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
IL DOCUMENTO DI SQUINZI “PROPOSTE PER IL MERCATO DEL LAVORO” CONTIENE GIA’ TUTTO IL JOBS ACT RENZIANO
Il Centro Studi di Confindustria, per la crescita, ha adottato la politica di Giorgio Gaber sulla rivoluzione:
oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente.
In pratica quest’anno sul Pil non si muove foglia, l’anno prossimo può essere, ma dopo sarà una pacchia.
D’altronde, scrivono gli analisti degli imprenditori, “le riforme strutturali danno frutti nel medio termine, ma nell’immediato rispondono alla domanda di cambiamento del Paese e restituiscono così la fiducia necessaria a rilanciare consumi e investimenti”. Che lo dicano non è così sorprendente se si considera — come vi mostriamo in questa pagina — che l’unica riforma strutturale in dirittura d’arrivo, il Jobs Act, l’hanno scritta loro.
Non è un’esagerazione, ma la lettura comparata tra il testo Proposte per il mercato del lavoro e della contrattazione pubblicato da Confindustria a maggio e il ddl delega uscito dalla Camera: sono uguali.
Esiste anche una conferma negativa: il Jobs Act reale non ha infatti praticamente niente a che fare con le linee guida che Renzi annunciò in pompa magna a gennaio.
Testi a confronto: ecco quello scritto dagli industriali
Sono anni che gli imprenditori tentano di manomettere lo Statuto dei lavoratori, ma non era mai capitato che un governo facesse proprie le loro proposte senza cambiarle di una virgola.
Per esserne certi basta leggere le Proposte di cui sopra.
Il testo si apre con una lamentazione sul declino italiano: c’è stata una perdita di produttività enorme, dice Confindustria, colpa anche di quegli avidi dei lavoratori italiani che hanno ottenuto aumenti di stipendio “che non avrebbero dovuto aver luogo”.
Non solo: “Nel 2010 e 2011, all’accentuarsi della crisi, sia in Germania che in Spagna si è operato un aggiustamento verso il basso del livello delle retribuzioni reali, non così in Italia”.
E quindi? “Questi dati devono guidare le nostre linee di riforma”. Insomma, il fine è tagliare gli stipendi.
Ma quali sono queste linee? Lo spiega senza timidezze il box Interventi sulle tipologie contrattuali: “Occorre rendere più flessibile il contratto a tempo indeterminato”. Tradotto: via l’articolo 18 e libertà di licenziamento.
E come? “Limitare la tutela della reintegrazione ai soli casi di licenziamento discriminatorio o nullo e prevedere la tutela indennitaria” per tutti gli altri. Il Jobs Act — e solo per un emendamento imposto al governo dalla sinistra Pd — cambia la formula aggiungendo la reintegra anche per alcuni licenziamenti disciplinari. Poca roba. Seconda richiesta: “Rendere più flessibile la nozione di equivalenza delle mansioni”. È il famoso de-mansionamento, che ovviamente Renzi ha inserito nel Jobs Act: oggi è possibile dequalificare un lavoratore — col suo accordo o quello dei sindacati — solo in presenza di una crisi aziendale, nel mondo della Leopolda deciderà l’impresa e basta. Terza richiesta: “Aggiornare la disciplina dei controlli a distanza”. Fatto.
Il Jobs Act cancella di fatto l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, che impedisce, per dire, di puntare una telecamera su un dipendente per controllarlo oppure monitorarne le operazioni sul Pc. L’era dei polli da batteria aziendali sta per cominciare.
E ancora: bene il contratto unico a tutele crescenti — scrive Confindustria — però “non può sostituire tutte le altre tipologie contrattuali esistenti”.
Il governo, ovviamente, si adegua e passa dal disboscamento radicale delle attuali 46 forme contrattuali degli annunci di Renzi all’invito al governo a “valutare” la situazione e semmai…
Il premier, ad esempio, dice che cancellerà i Co.co.pro., tipologia contrattuale famosa che però stava già morendo di suo (all’uopo le imprese hanno già il sostituto: il comodissimo “tempo determinato” disegnato dal decreto Poletti).
Finita? Macchè.
Le imprese chiedono — nell’apposita sezione “Ammortizzatori” — l’estensione a tutte le aziende del “contratto di solidarietà espansivo” (meno ore di lavoro e meno stipendio in cambio di qualche assunzione) anche alle aziende che oggi non ne hanno diritto: i criteri sono gli stessi per la concessione della Cig straordinaria. Fatto.
Tutto il sistema comunque, dice Confindustria, va “riformato profondamente”. Il primo passo? Bisogna “porre fine subito all’esperienza degli ammortizzatori sociali in deroga”. Fatto pure questo.
Memorabilia: Così la pensava Matteo a gennaio
Si potrebbe continuare con le coincidenze tra il ddl delega del governo e le Proposte di Confindustria, ma lo schema è chiaro.
Più curioso che il Jobs Act reale sia invece solo un lontano parente di quello che Renzi presentò in gennaio, quand’era segretario del Pd da un mese e a Palazzo Chigi c’era Enrico Letta : in quel testo, peraltro, tutta questa roba confindustriale non c’era. A gennaio, il primo punto all’ordine del giorno era scrivere (“entro 8 mesi”) un Codice unico del lavoro con le norme esistenti in modo che fosse traducibile in inglese: è passato un anno…
Il punto due era invece la “riduzione delle varie forme contrattuali che hanno prodotto uno spezzatino insostenibile” per andare verso “un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti”.
E l’articolo 18? Neanche una parola: d’altronde per il Renzi pre-Chigi si trattava di “un falso problema”.
Al punto 3 Renzi proponeva un “assegno universale” di disoccupazione. Nella delega l’impegno c’è, ma si dice che i soldi verranno stanziati con altri interventi nel bilancio dello Stato: peccato che nel ddl Stabilità attualmente in Parlamento a questo fine non c’è un euro.
Rispettato invece l’impegno a istituire un’Agenzia unica per gestire le politiche attive del lavoro (anche qui però mancano i soldi), mentre “l’obbligo di rendicontazione online” per chi usa soldi pubblici per la formazione e la sospirata “legge sulla rappresentanza sindacale” il povero Renzi se le è proprio dimenticate, come pure i “sette piani industriali dettagliati per settore” con cui creare “nuovi posti di lavoro”.
È un vecchio adagio: si fa campagna elettorale in poesia e si governa in prosa.
E a Confindustria hanno degli ottimi prosatori.
Marco Palombi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
BERLUSCONI STOPPA SALVINI: “NON SARA’ IL NOSTRO LEADER”… FITTO: “SILVIO CI FAI MORIRE”
La mezza investitura che già sapeva di bluff 24 ore prima, è subito tramontata.
Salvini leader? «Ma no, le mie parole sono state strumentalizzate, ho detto che Matteo è un potenziale leader, ma non che sarà lui, in campo resto io».
Silvio Berlusconi impiega pochissimo a compiere un’inversione delle sue, di fronte agli affondi di Raffaele Fitto e dei suoi nel secondo tempo dell’ufficio di presidenza. In questa partita l’ex premier si gioca l’unità del partito, in seconda battuta la tenuta del patto del Nazareno con Renzi che non vuole tradire, costi quel che costi, insomma, in ballo c’è la sua stessa leadership.
«Non possiamo tradire quel patto – è la tesi che il capo ribadisce davanti a decine di dirigenti – perchè è un patto con gli italiani. Rischiamo di restare fuori dalla scelta del Quirinale: dalle notizie che ho, Napolitano ha intenzione di dimettersi il 20 gennaio. I tempi sono dunque serrati».
E torna a ringraziare Denis Verdini, poco distante da lui, «per il lavoro eccellente che ha fatto sulle riforme, è lui che mi ha riportato al centro della vicenda politica».
Nel parlamentino di Palazzo Grazioli, va quindi in scena per tre ore la seduta di psicanalisi collettiva sulla sconfitta ancora calda di domenica.
Fitto, che non aveva potuto partecipare il giorno prima, si presenta col biglietto da visita dell’intervista mattutina a Radio24 in cui ha già alzato il tiro: «Le primarie? Nel partito devono valere per tutti, anche per Berlusconi, ma io non esco, resto e mi batto».
Uscita che porta subito la temperatura al punto di cottura. Poco dopo le 17 prende la parola per un quarto d’ora davanti al capo e attacca a testa bassa.
«Se il partito deve chiudere ce lo devi dire, Forza Italia deve tornare in mano agli elettori attraverso le primarie e non può essere gregaria di nessun Matteo, nè di Renzi nè di Salvini».
Il cahier de doleance è lunghissimo. Parla di «errori nella costruzione delle alleanze e nella scelta delle candidature». E poi, «il goleador deve essere della tua squadra, non puoi investire un altro».
La linea politica è «schiacciata sul governo, altre volte troppo aggressiva, confondiamo gli elettori».
Infine l’organizzazione del partito «è un problema grandissimo, vanno azzerate tutte le nomine, serve uno choc, bisogna affidarci ai nostri elettori, altrimenti alle primarie ci trascineranno gli alleati».
L’azzeramento delle cariche lo chiederanno in sequenza altri fittiani, Saverio Romano, Daniele Capezzone.
Il presidente della commissione Finanze il più duro. «I risultati sono l’anticamera della sparizione, siamo vicini alla quota Martinazzoli, l’11 per cento che precede l’estinzione. Presidente, dovresti essere grato a Raffaele perchè lui sta mantenendo un gruppo di senatori che altrimenti sarebbero già andati via».
Ma è quando Capezzone denuncia l’ostracismo nei suoi confronti che a Berlusconi saltano i nervi. «C’è una black list, nomi ai quali impedite di andare in tv. Io non sono in condizione di dire la mia, Mediaset e il Giornale sono appiattiti su Renzi e il governo».
A quel punto il leader sbotta: «Ma che dici? Io non controllo nulla, non decido io chi deve andare in tv, sono i conduttori che ormai chiamano in base agli ascolti, su Mediaset e il Giornale poi non ho voce in capitolo».
A differenza dell’altra volta, Berlusconi resta al tavolo della presidenza, tra i capigruppo Brunetta e Romani, non punta il dito e non si scaglia contro Fitto.
Anzi, incassa per amor di patria. Dice che la sconfitta è legata alla sua assenza forzata e alle dinamiche locali. Invita tutti a non dichiarare fuori da lì.
Cosa che invece l’eurodeputato pugliese fa puntualmente davanti alle telecamere appena uscito. «Mi sembra che noi ci vedremo domani a pranzo» è l’invito che l’ex Cavaliere gli porge sottovoce al momento del commiato.
Oggi dunque nuovo chiarimento. Ma Fitto conferma comunque la kermesse del pomeriggio sulla manovra di Renzi al Tempio di Adriano, con la quarantina di parlamentari a lui vicini e centinaia di supporter. La sfida ormai è lanciata.
Nel comitato di presidenza in tanti prendono la parola per sbollire gli animi e ripetere che il leader è solo Berlusconi, nessun leghista.
La Gelmini, Matteoli, Rotondi, Gasparri. C’è anche la Biancofiore che mette in guardia il capo dal perdono ad Alfano: «Caro Silvio, il ministro dell’Interno ti vuole in galera».
Ce n’è abbastanza, può scendere il sipario. «Abbiamo iniziato una riflessione, l’ufficio di presidenza continua la prossima settimana» dice Giovanni Toti lasciando il palazzo. All’ordine del giorno sempre il rilancio del partito. Fuori, lontano, il “goleador” Salvini si schermisce: «Tengo i piedi per terra, troppo presto».
La candidatura d’altronde è già in pista.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)
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Novembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
SULLE COSE SERIE L’ITALIA NON DELOCALIZZA
La notizia è di quelle che massaggiano il cuore: il novanta per cento della produzione mondiale di euro
fasulli è fabbricato in Italia, per la precisione in una stamperia di Napoli e in una zecca nei pressi di Roma.
Perchè sulle cose serie il Made in Italy non delocalizza. Anzi, si appoggia a una manodopera altamente specializzata, nel solco di una tradizione manifatturiera che discende da Totò e Peppino.
Novanta per cento. Un monopolio conquistato sul campo che restituisce al nostro Paese quel ruolo di guida continentale che ci era stato ingiustamente scippato dai tedeschi.
Ci davano per spacciati, loro. E invece siamo stati noi a spacciare in Germania una banconota da trecento euro, mai esistita prima.
Abbiamo saputo costruire una Bce alternativa, molto più creativa e ramificata dell’originale, grazie all’apertura di filiali in tutta Europa.
Una sorta di Erasmus parallelo in cui i migliori esperti del settore vanno a tenere lezioni di contraffazione.
I soliti gufi che amano parlare male dell’Italia rimarranno stupiti dall’efficienza della filiera produttiva, composta da undici associazioni a delinquere, ciascuna delle quali dedita armonicamente a un singolo aspetto della lavorazione: lo stoccaggio, il trasporto, la vendita al dettaglio.
Anche noi, quando serve, sappiamo fare squadra.
La nobile funzione sociale dell’impresa — aumentare le dosi di denaro in circolazione per stimolare la crescita — ha lasciato insensibili i carabinieri, che ieri hanno arrestato cinquantasei liberi professionisti.
Il patriota Salvini potrebbe liberarli al più presto per riconvertire la produzione dai falsi euro alle false lire.
Massimo Gramellini
(da “La Stampa“)
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Novembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
LADDOVE L’URLO LEGHISTA CADE NE VUOTO E RENZI APPARE A DISAGIO
Negli ultimi anni tutti i governi hanno fotto poco e male per il Sud.
Non solo hanno spostato altrove le risorse destinate al Mezzogiorno, ma non hanno avuto nessuna vera idea per governare in maniera intelligente i tanti Sud che abbiamo nel nostro Paese.
L’idea ossessiva è che bisogna rimettere in moto la crescita, e poi, una volta che riparte la locomotiva Italia, il Sud non può che accodarsi.
Si tratta di un’idea che da troppo tempo viene smentita dalla realtà dei fatti.
Non si può considerare il Sud come un semplice vagone da agganciare a una motrice. C’è bisogno di politiche costruite sui singoli territori. La democrazia locale e quella centrale devono lavorare assieme: intimità e distanza.
Un lavoro che possa incrociare gli interessi di chi vive in un luogo con gli interessi generali della Nazione.
La società meridionale purtroppo è ferma al lamento.
Chi vota Pd dovrebbe chiedere al Governo come si fa a stanziare il 98 per cento dei soldi per i treni al Nord.
Chi vota Pd dovrebbe chiedere al governo perchè non fa davvero un piano straordinario per il Sud, un piano che riduca il ruolo delle mafie ed esalti le tante energie positive che ci sono nei diversi territori.
Chi vota Pd dovrebbe chiedere al governo perchè non usare il flusso dell’immigrazione per dare nuova linfa al Sud interno: terre e case vuote che diventano sempre più vuote.
Mentre la politica da discount di Salvini fa il pieno di voti, la gran parte dei politici e intellettuali meridionali cercano di posizionarsi in modo da ricavare qualcosa per sè e per la propria famiglia.
Il familismo amorale è ovunque e continua a dominare la vita sociale delle regioni più povere.
Nei paesi non si eleggono le persone migliori, ma quelle che sembrano più disponibili all’intrallazzo. Ed è impressionante anche il silenzio e la rassegnazione dei ragazzi meridionali.
La lotta sarebbe la sola strada per ottenere il rispetto dei propri diritti, ma non si lotta da nessuna parte. Ci si applica di più per mantenere una certa fedeltà al disimpegno dai propri doveri.
Ovviamente non è così in tutte le zone. La Puglia non è la Calabria, Martina Franca non è Napoli, Matera non è Marsala.
E forse bisognerebbe partire proprio dal modello di Sud che s’intravede a Matera: scrupolo e utopia, la forza del passato e la passione del futuro.
Il Sud ha straordinari pensatori politici. Franco Cassano, Piero Bevilacqua, Isaia Sales, solo per citarne alcuni.
Forse sarebbe il caso che loro ed altri si mettessero insieme per spiegare al governo cos’è il Sud oggi, io direi perfino dov’è.
Ho l’impressione che Renzi abbia un’idea vaghissima del Mezzogiorno. A lui piace parlare con Marchionne e Draghi più che con Fabrizio Barca.
Quando scende sotto Roma sembra a disagio. La sua politica alla fine vuole globalizzare l’Italia, Sud compreso, senza capire che la forza del Sud è proprio nel fatto che la globalizzazione non ha attecchito.
Bisogna spiegare a Renzi e ai suoi sostenitori che la specificità dell’Italia è la sua disunità , la sua diversità .
Matera oggi può essere considerata nello stesso tempo un paese lucano e una città europea, a Matera c’è un sapore che non c’è a Pescara.
E allora, oltre che finanziare in maniera equa i diversi territori italiani, occorre finanziarli per far luccicare la loro specificità , non per omologarli.
Il Nord, se vuole, si affidi pure a Salvini. A noi piacerebbe un Sud eretico (erede di Giambattista Vico, di Giordano Bruno), un Sud insofferente ai tamburi ciarlieri dell’attualità , un Sud che sa costruire il suo futuro senza accettare i luoghi comuni da cui è sommerso.
Franco Arminio
(da “il Fatto Quotidiano“)
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