Destra di Popolo.net

“DOPO TRE ANNI DI SUPPLENZE I PRECARI VANNO ASSUNTI”: CORTE EUROPEA CONDANNA L’ITALIA, FINISCE LO SFRUTTAMENTO

Novembre 26th, 2014 Riccardo Fucile

SENTENZA STORICA: “NO A RINNOVO SISTEMATICO DI CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO”… IL GOVERNO ORA DEVE ASSUMERE 250.000 PRECARI, 100.000 IN PIU’ DEL PREVISTO E SI APRE UN CONTENZIOSO DA 2 MILIARDI

È un giorno importante per i precari della scuola italiana: la Corte europea dà  ragione al ricorso contro il rinnovo sistematico dei contratti a tempo determinato, e stabilisce che dopo tre supplenze annuali un docente (o un ausiliare tecnico amministrativo) dev’essere assunto.
Ma la sentenza, per quanto storica, non coglie del tutto impreparato il governo: la stabilizzazione di 150mila docenti era già  prevista nel piano “La buona scuola”. Anche se il parere della Corte potrebbe aprire ulteriori fronti di rivendicazione
Tutto nasce dalla direttiva europea n. 70 del 1999, secondo cui dopo 36 mesi di servizio i precari hanno diritto ad essere assunti a tempo indeterminato, a meno che non sussistano “ragioni oggettive”.
Una norma che l’Italia ha recepito con il decreto legislativo 368/2001, tanto che nel 2010 il sindacato Anief aveva sollevato la questione e cominciato la lunga battaglia arrivata oggi a sentenza.
Per stoppare i ricorsi, nel 2011 il governo aveva emanato una legge secondo cui la normativa non poteva applicarsi al mondo nella scuola, per la presenza appunto di queste “ragioni oggettive”, poi specificate dalla Consulta: il fatto che, prestando servizio, gli insegnanti accumulavano comunque punteggio utile ai fini della futura assunzione; la circostanza che il Ministero non fosse in grado di valutare a priori la consistenza degli organici; quindi motivazioni economiche.
Un castello di sabbia che l’Europa ha smontato oggi in maniera definitiva: come recita la sentenza “la normativa europea osta a una normativa nazionale che autorizzi, in attesa del l’espletamento delle procedure concorsuali, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili”.
Pertanto il sistema italiano è illegittimo
La questione riguarda in particolare i cosiddetti posti vacanti e disponibili: cattedre vere e proprie, senza un docente titolare alle spalle da sostituire, che sarebbero potute essere assegnate in pianta stabile.
E che invece lo Stato ha sempre preferito trasformare in incarichi a tempo determinato rinnovati annualmente, per ragioni essenzialmente economiche.
Difficile quantificare con precisione il numero dei docenti potenzialmente interessati dalla sentenza: il sindacato Anief parla addirittura di 250mila precari da stabilizzare. Di certo c’è che dei 150mila docenti delle Graduatorie ad Esaurimento (i cosiddetti “precari storici”), circa 125mila hanno maturato nel corso degli anni 36 mesi di servizio.
Sarà  per questo che il governo ha deciso di varare un piano straordinario di assunzioni, per cui ha già  stanziato le risorse necessarie (un miliardo di euro nel 2015) in legge di stabilità .
Del resto non è neanche un mistero, nel documento “La Buona scuola” il procedimento della Corte europea viene esplicitamente annoverato fra le ragioni alla base della riforma.
I ricorrenti erano già  circa 6-7mila, ma dopo la sentenza in migliaia avrebbero potuto andare in tribunale e vedersi facilmente data ragione.
Con questa infornata di assunzioni, invece, il governo si mette al riparo da pericolose azioni legali. Almeno in parte.
La questione sembra appianata per i precari delle GaE, che verranno assunti.
Ma qualcuno di loro potrebbe ugualmente chiedere un risarcimento danni (in particolare relativamente alla ricostruzione degli scatti di carriera).
E soprattutto il fronte potrebbe allargarsi al personale Ata (di cui non c’è traccia nella riforma) e ai docenti abilitati con i Pas: per accedere ai percorsi abilitanti speciali, infatti, era necessario avere tre anni di servizio.
Sono circa 65mila in totale, alcuni di loro potrebbero avere i requisiti per chiedere anch’essi la stabilizzazione.
Per tutti questi casi, dunque, la palla tornerà  ai giudici nazionali: il parere della Corte è vincolante, ma comunque dovvrebbe essere lasciata discrezionalità  di scelta fra la stabilizzazione e l’indennizzo economico; e potrebbe esserci anche un certo margine di manovra sulla verifica delle condizioni a monte della situazione.
Non dovrebbe esserci niente da fare, invece, per gli altri precari della scuola, i neoabilitati.
In teoria la sentenza stabilisce un principio generale: d’ora in avanti chiunque occuperà  per tre anni una cattedra dovrà  essere assunto.
Ma con l’infornata prevista della riforma e i nuovi organici funzionali le supplenze annuali verranno tutte assorbite, e scompariranno.
Le migliaia di docenti abilitati esclusi dal piano dovranno comunque attendere i prossimi concorsi.

Lorenzo Vendemiale
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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LA SCOMUNICA DI GRILLO NON FA PAURA, OGGI ALTRI DUE ELETTI IN TV: “BISOGNA FAR CONOSCERE IL PROGRAMMA”

Novembre 26th, 2014 Riccardo Fucile

SU AGORA’ A RAI3 I DEPUTATI BARBANTI E TURCO VIOLANO L’EMBARGO…E GRILLO NON HA DI MEGLIO DA FARE CHE ATTACCARE PIZZAROTTI

Neanche 24 ore dopo la scomunica di Beppe Grillo al parlamentare Walter Rizzetto per la partecipazione al talk show “Omnibus” su La7, due colleghi sfidano il diktat e intervengono al programma “Agorà ” di Rai3.
I deputati Sebastiano Barbanti e Tancredi Turco, entrambi in collegamento da piazza Montecitorio, hanno difeso la necessità  di andare in tv perchè la gente, hanno sostenuto, si informa soprattutto attraverso il piccolo schermo.
“Dobbiamo riconoscere che è il momento di fare autocritica — ha detto Turco — di iniziare una riflessione seria al nostro interno. Forse i cittadini non sono ben informati su tutti i provvedimenti che abbiamo portato avanti, su tutte le nostre battaglie, e se non sono informati forse è anche colpa nostra, delle scelte che abbiamo fatto. Grillo deve rimanere il nostro megafono, ma è opportuno che venga affiancato anche da altri megafoni che siamo noi parlamentari”.
Per Barbanti, “Grillo deve rimanere a capo del Movimento. Se noi siamo qua in televisione è per far conoscere meglio i nostri programmi non certo per vanità  o per soddisfare il nostro ‘punto G’”, ha messo in chiaro richiamando una vecchia espressione con cui Grillo mise alla porta la consigliera comunale bolognese, Federica Salsi, proprio per la sua partecipazione a un talk show.
Dopo il risultato delle Europee a maggio scorso, che nel Movimento avevano percepito come poco soddisfacente, il leader e lo staff avevano deciso di dosare le partecipazioni televisive.
Così solo alcuni volti selezionati in questi mesi hanno potuto comparire sul piccolo schermo.
Una scelta che però è stata più volte contestata da attivisti ed eletti e che dopo le Regionali è tornata ad essere criticata.
Al centro della discussione la crescita delle Lega Nord, che in molti nel Movimento attribuiscono anche al presenzialismo del leader Matteo Salvini proprio in televisione. Solo ieri Grillo ha attaccato Rizzetto, dicendo che se vuole andare nei talk show è libero di farlo, ma in quel caso parla solo a titolo personale.
Ma non c’è solo la televisione a dividere il Movimento.
Oggi il leader ha pubblicato sul blog una lettera dell’ambientalista Walter Ganapini sull’inceneritore di Parma.
E quello che sembrava un appello per un intervento in aiuto del sindaco Federico Pizzarotti, si è trasformato in realtà  nell’ennesimo attacco. “Non è vero”, si legge, “che tutto si è fatto per impedire completamento ed avvio del forno. Non aver combattuto e vinto la battaglia contro la ‘dirigenza politicante’ Iren, priva di strategia industriale moderna e capace solo di accumulare miliardi di debiti, ha creato un danno enorme al Paese, non solo al Movimento, quando Parma poteva diventare il simbolo di una svolta decisiva,in senso europeo, delle politiche ambientali/infrastrutturali nazionali: c’erano tutte le condizioni”.
Dal Comune fanno sapere che la lettera di Ganapini a Pizzarotti risale ad un anno fa.

(da “il Fatto Quotidiano“)

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CROLLO TRIONFALE

Novembre 26th, 2014 Riccardo Fucile

LA (NON) ANALISI DEL VOTO NEL BLOG DI GRILLO

A tre giorni dal flop alle regionali, sul blog di Grillo ancora non ce n’è traccia. Bisogna far scorrere la pagina molto al di sotto del settimo necrologio di Casaleggio sull’imminente morte dei giornali per trovare un’analisi dei risultati in Emilia Romagna, ben nascosta in un articolo sull’astensionismo.
Eccola: «Il MoVimento 5 Stelle nel 2010 raccolse 126.619 voti. Ieri ha aumentato i consensi con 159.456 voti».
Fine dell’analisi.
Il fatto che Grillo abbia perso tre quarti degli elettori delle politiche (658.443) e due terzi di quelli delle europee (443.936) è stato evidentemente ritenuto un dettaglio insignificante.
A meno che il profeta Casaleggio – l’uomo che ha già  predetto la fine di tutto – abbia visto in questa emorragia di voti un segnale incoraggiante, un indizio della vittoria prossima futura.
Che arriverà , magari, il giorno in cui non ci saranno più i giornali.

Sebastiano Messina
(da “La Repubblica”)

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LO “SCAMBIO” DI BERLUSCONI: “AMATO AL COLLE E IO VOTO L’ITALICUM”

Novembre 26th, 2014 Riccardo Fucile

RENZI DICE NO, MA NON INTENDE ROMPERE

Quanto vale il Colle? Per Berlusconi tanto, tantissimo.
Vale per esempio il voto favorevole all’Italicum, con il premio alla lista e tutto il vagone di modifiche – comprese le soglie di sbarramento al 3% salva cespugli – che nel tempo Renzi gli ha attaccato in coda.
È il Grande Scambio che in queste ore il leader di Forza Italia ha recapitato a palazzo Chigi.
Un accordo politico per abbracciare le due scadenze più importanti della legislatura: la scelta del successore di Napolitano e l’approvazione della nuova legge elettorale.
In questo ordine. «Prima concordiamo insieme un nome per il Quirinale – è l’offerta dell’ex Cavaliere – e poi daremo il via libera alla legge elettorale. Anche con il premio alla lista più forte e non alla coalizione ».
E chi sia secondo lui il nome più adatto per il Colle Berlusconi lo va dicendo da tempo nei colloqui riservati: l’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato.
Questo è il “deal” sul tavolo. Ma la risposta che arriva da Matteo Renzi è secca e senza alternative. «No grazie». Lo scambio è inaccettabile.
I tempi della riforma elettorale restano quelli fissati durante l’ultimo incontro a palazzo Chigi. Nessuna deroga, nessun rinvio.
«Berlusconi – ha spiegato il premier ai suoi – ha firmato quel comunicato che prevede il voto finale al Senato entro dicembre. Se ci ha ripensato possiamo approvarlo tranquillamente da soli, di certo non possiamo aspettare l’elezione del presidente della Repubblica, che peraltro non so nemmeno quando avverrà ». Insomma, se l’offerta di Berlusconi nasconde un tentativo di melina per tenere ancora in commissione la legge elettorale, Renzi minaccia di fare saltare il Nazareno.
E con esso anche il gentlemen’s agreement che finora ha governato i rapporti con Arcore.
«Berlusconi – insiste il capo del governo – può scegliere se stare dentro i patti e fare il padre costituente. Ed essere coinvolto nelle scelte future. Oppure può restarsene fuori».
Il premier non esclude quindi di «coinvolgere» Forza Italia nella scelta del prossimo capo dello Stato. Ma non accetta ricatti impliciti sulla legge elettorale, nè scambi al ribasso.
Le due cose – Quirinale e Italicum – devono viaggiare su binari separati.
Nessuna «contestualità ». È chiaro che la fretta di Renzi di approvare prima di Natale l’Italicum rafforza l’idea che il segretario del Pd abbia sempre in testa le elezioni anticipate.
Un sospetto che coltivano in molti, anche se il capogruppo Pd Luigi Zanda smentisce che sia questa la prima opzione. «So per certo – confida – che vuole andare avanti. Abbiamo messo in cantiere talmente tanta roba…Finchè il parlamento tiene il passo perchè dovrebbe far saltare la legislatura? Certo, se tutto si ferma… ».
A quel punto, anche con una legge che vale solo per Montecitorio, il premier romperebbe gli indugi e punterebbe alle elezioni con due sistemi differenti: Italicum alla Camera e Consultellum al Senato.
Gli esperti elettorali gli hanno infatti spiegato che la legge rimasta in vigore dopo i tagli al Porcellum imposti dalla Consulta è sì proporzionale, ma con una soglia di sbarramento dell’otto per cento.
E l’effetto concreto di una tagliola così alta sarebbe quello di far crescere i seggi per i partiti più grandi.
«La soglia alta imprime una torsione maggioritaria al Consultellum — fa notare una fonte vicina a palazzo Chigi — e lo rende di fatto un quasi-maggioritario».
Con un Pd intorno al 40 per cento di voti reali non sarebbe impossibile immaginare di raggiungere il 45-47 per cento.
«Salvini vuole andare a votare? Una parte di Forza Italia vuole andare a votare? L’unico che non ci vuole andare e proseguire con le riforme sono io — nicchia Renzi però…».
E tuttavia per correre alle elezioni anticipate, Consultellum o meno, serve anzitutto un capo dello Stato disponibile a mandare a casa il parlamento.
Una disponibilità  che Napolitano ha sempre rifiutato. Posto che il capo dello Stato lascerebbe al suo successore una scelta del genere, anche i tempi remano contro un ritorno alle urne a giugno.
Chi, come Pier Ferdinando Casini, frequenta sia palazzo Chigi che il Quirinale spiega infatti, calendario alla mano, quanto possa essere complicato far saltare il banco.
«Se Napolitano restasse, poniamo, fino a metà  febbraio dovremmo calcolare un periodo di “reggenza” di Grasso di un paio di settimane per convocare il parlamento in seduta comune con i delegati regionali. Le votazioni inizierebbero il primo marzo. Poi tra elezione effettiva, giuramento e insediamento, arriviamo a fine marzo. E a quel punto il nuovo capo dello Stato che fa? Per portarci a votare a giugno dovrebbe, come primo atto, sciogliere il parlamento che lo ha appena eletto. Improbabile».
Il calendario Casini è realistico. Ma si scontra con la possibilità  che la situazione sfugga comunque di mano.
Insomma, lo spettro delle elezioni anticipate a giugno è tutt’altro che scomparso.
Per questo Forza Italia, come subordinata allo scambio Quirinale- Italicum, sta chiedendo che almeno venga inserita nella riforma elettorale una «norma transitoria » che vincoli l’entrata in vigore della legge all’approvazione della riforma costituzionale del Senato.
«La norma transitoria sarebbe la garanzia della buona fede di Renzi – spiega il capogruppo forzista Paolo Romani – . Del resto nel comunicato Renzi-Berlusconi c’è anche scritto che legislatura “dovrà  proseguire fino alla scadenza naturale del 2018”. Il patto del Nazareno per noi resta validissimo e in piedi, ma tutto si tiene».
Intanto oggi in commissione affari costituzionali comincia la discussione generale sull’Italicum. Con il Jobs Act in arrivo dalla Camera e le vacanze di Natale ci vorrebbe un miracolo per approvarlo rispettando la tabella di marcia di palazzo Chigi.

Francesco Bei
(da “La Repubblica”)

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LE DUE SENATRICI GRILLINE FACEVANO LAVORARE IN NERO UN LORO COLLABORATORE

Novembre 26th, 2014 Riccardo Fucile

L’ISPETTORATO DEL LAVORO DOPO DIECI MESI DI ACCERTAMENTI DA’ RAGIONE ALL’EX MILITANTE CINQUESTELLE CHE ORA CHIEDE LE LORO DIMISSIONI

Carlo Baratta ha lavorato per le senatrici del Movimento 5 stelle Laura Bottici e Sara Paglini. In arrivo multe salate alle due parlamentari che hanno sempre dichiarato di non averlo mai assunto come assistente.
Dopo un’indagine durata dieci mesi, il ministero del Lavoro non solo ha definitvamente accertato che l’ex militante grillino abbia lavorato per le due senatrici, ma ha provveduto anche a «regolarizzare le sue prestazioni lavorative» che prima non lo erano.
L’ispettorato provinciale ha riconosciuto a Baratta due separate collaborazioni — una con Bottici e l’altra con Paglini — da 200 euro l’una come «mini co.co.co» per un totale di 20 ore menisili dal primo al 30 giugno del 2013.
Ora nei confronti delle due senatrici il ministero fa già  sapere di aver adottato «i provvedimenti amministrativi previsti dalla legge», mentre i vari istituti di previdenza stanno provvedendo alla quantificazione dei contributi che spettano a quello che sarebbe dovuto essere uno dei loro più stretti collaboratori
Ex assicuratore disoccupato da 4 anni, Carlo Baratta (che nel frattempo si è laureato in agraria) è stato per anni uno dei più attivi militanti del Movimento 5 stelle cittadino, tanto da essere candidato per un seggio in consiglio comunale prima e in parlamento poi.
La sua rottura e successivo allontanamento dal Movimento si sono consumati subito dopo le scorse elezioni politiche, quando le due neoelette senatrici hanno scelto di affidarsi ad altri collaboratori.
Da quel momento Baratta ha subito iniziato a denunciare di «essere stato trattato in maniera scorretta, tanto da Bottici, quanto da Paglini».
Entrambe gli avrebbero fatto sottoscrivere un contratto di lavoro, senza poi rispettarlo. A queste accuse tanto le due parlamentari, quanto buona parte degli altri militanti si sono sempre opposti con forza.
«Carlo Baratta ha dichiarato di aver lavorato per me ‘da giugno a luglio 2013’, niente di più falso» diceva al nostro giornale Sara Paglini lo scorso 3 aprile, mentre la sua collega Laura Bottici aggiungeva: «Tra Carlo Baratta e la sottoscritta non c’è mai stato un rapporto di lavoro».
Ora l’ispettorato del lavoro ha stabilito l’esatto contrario.
«Il ministero — spiega Baratta — ha potuto accertare solo un mese di contratto, ora andrò in tribunale, assistito dagli avvocati Marta Marchetti e Alessandro Rocchi, perchè mi vengano riconosciuti anche gli altri cinque per cui avevo firmato. Adesso, comunque, è stato dimostrato che è stata violata la legge e credo che chi ha sbagliato all’interno del Movimento si debba assumere le proprie responsabilità . Mi riferisco a chi, come il consigliere comunale Matteo Martinelli, nei mesi scorsi ha definito tutta la questione ‘una montatura’, o chi, come lo stesso Beppe Grillo, i consiglieri comunali, tutti i senatori e buona parte dei deputati, tra cui il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio e il deputato toscano Alfonso Bonafede, con i quali ho avuto un contatto diretto, abbia preferito tacere sperando che passasse la bufera. Ora — prosegue —, oltre alle scuse dovute per come sono stato trattato, sia a Roma che in città , chiedo alle due senatrici di fare un passo indietro e di dimettersi perchè chi ha commesso un illecito per di più nell’esercizio delle proprie funzioni, non ha più la statura etica e morale per rappresentare i cittadini. Per questo chiedo ai senatori di ogni schieramento politico di adoperarsi per riportare onestà  e giustizia nelle aule del Senato, proponendo almeno una mozione di sfiducia nei confronti di Laura Bottici come questore del senato, essendo essa inadempiente nei confronti del suo stesso ufficio».

Claudio Laudanna
(da “La Nazione“)

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LAVORO, SOLO 316 SÌ: IL GOVERNO A UN VOTO DALLA SFIDUCIA

Novembre 26th, 2014 Riccardo Fucile

38 DEPUTATI DEL PD FUORI DALL’AULA… RENZI ADESSO È IN GRANDE DIFFICOLTà€ ANCHE ALLA CAMERA… TRA I SUOI CRESCE LA VOGLIA DI URNE CON CONSULTELLUM

Lorenzo Guerini, vice segretario del Pd, tessitore di natura, e di indole solitamente calmissima, quando il tabellone di Montecitorio fotografa il voto sulla riforma del lavoro, è palesemente nervoso e irritato.
La maggioranza al jobs act è di 316 voti. Solo uno sopra la soglia della sfiducia. Nonostante il tentativo portato avanti per tutto il giorno dai vertici dem per arrivare a una mediazione, in 38 del Pd non hanno partecipato al voto.
Con loro anche Forza Italia, l’altra gamba non formale, ma sostanziale che sta tenendo in piedi la legislatura.
I renziani parlano di “scorrettezza” e di “mancanza di coraggio”: se fanno così, dovrebbero andarsene, il ragionamento di molti. “Ma non sono capaci”.
“Si meriterebbero che si votasse domani con il Consultellum, con loro fuori dalle liste”, il commento che gira.
Una tentazione che — almeno tra gli uomini del premier — è in ascesa: tant’è vero che si fanno continui sondaggi e simulazioni.
Renzi per natura sarebbe tentato di andare all’affondo ma la linea, decisa in mattinata, è “calma e gesso”.
Non cambia però la valutazione sui circa 30 che si sono sfilati: irresponsabili che, per calcoli politici, “per frenarmi” hanno ignorato la mediazione fatta nel Pd, una mediazione che “ha convinto anche ex sindacalisti come Damiano, Bellanova, Epifani”.
Il quadro è fosco, tra il prossimo passaggio della riforma del lavoro in aula al Senato, dove i numeri sono molto più ristretti, la legge di stabilità , e l’Italicum e le riforme costituzionali al palo, con il disfacimento di Forza Italia.
Anche perchè su queste la fiducia non si può mettere.
Alle cinque del pomeriggio nell’aula di Montecitorio si vedono arrivare ministri e sottosegretari. Di corsa. Per votare. Una scena che alla Camera, nell’era del governo Renzi, non s’era ancora mai vista.
“Nella Camera dove la maggioranza è più forte abbiamo creato una faglia”, commenta Giorgio Airaudo di Sel.
La faglia è grossa, ed è stata fondamentale la posizione della minoranza Pd, seppur divisa e litigiosa al suo interno.
L’opposizione si allarga. “Sono sette con otto posizioni diverse”, ironizza la giovane turca, Giuditta Pini. E in effetti, ogni riunione sottolinea differenze e liti.
Ma nonostante questo alla fine 38 dem (su un gruppo di 307 componenti) non dice sì al Jobs act. Due dicono no, altri due si astengono: sono quattro civatiani, quelli da tempo ad un passo dall’uscita dal partito.
I no sono di Giuseppe Civati e Luca Pastorino, gli astenuti Paolo Gandolfi e Giuseppe Guerini.
In aula c’è pure il ministro del Lavoro Padoan, che quando si avvicina a Civati gli dice: “Ti ringrazio per aver espresso la tua contrarietà  ostinatamente. Gli altri l’hanno fatto più disordinatamente”.
Gli altri, infatti, non partecipano al voto. Tra questi in 29 mettono la firma in calce ad un documento in cui spiegano le ragioni del loro non voto.
Tra loro ci sono Gianni Cuperlo, Rosi Bindi, Francesco Boccia, Davide Zoggia, Alfredo D’Attorre e un altro drappello di bersaniani.
La cui corrente, invece, che ha cercato l’accordo con il governo, Cesare Damiano in testa, ma anche Guglielmo Epifani, bacchetta con durezza l’iniziativa.
Lo stesso Bersani la mette così: “Voterò le parti che mi convincono con piacere e convinzione e le parti su cui non sono d’accordo per disciplina”.
Le minoranze non votanti fanno un documento unitario, e adesso provano ad andare avanti sull’opposizione dall’interno. Una grana per il governo. Che in Senato metterà  la fiducia. Una scelta inevitabile, che, ammettono molti dei ribelli, salverà  anche loro da scelte troppo difficili: la fiducia si deve votare.
Almeno sembra, perchè l’impressione è che il quadro politico sia del tutto fuori controllo.     Saranno presi provvedimenti nei confronti delle minoranze? Matteo Orfini, presidente del partito, assicura di no.
Poi, prova a minimizzare: “Il 9% del gruppo ha votato no. Non mi pare una tragedia”.
In realtà , l’impressione che non si tenga più quasi niente è collettiva.
Ma il punto è che arrivare alle elezioni è complicato: Napolitano non scioglie le Camere e con le sue dimissioni, si chiude la finestra elettorale di primavera.
Ma così è la palude continua. Il premier a mediazioni (e a espulsioni) non ci pensa proprio: “Non do pretesti, ognuno scelga in che partito vuole stare, io vado avanti in ogni caso”.
I numeri dicono che non è così facile.

Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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DAL COMUNISMO PADANO AL FASCIOLEGHISMO RUSSO: IN ATTESA DELL’ORO DI MOSCA

Novembre 26th, 2014 Riccardo Fucile

LA SOVRAESPOSIZIONE TV DI MATTEO SALVINI: GLI MANCANO SOLO LE PREVISIONI METEO… FINITE LE AMPOLLE, ARCHIVIATA LA SECESSIONE, ORA FILO DIRETTO CON MOSCA: FINCHE’ DURA LA MODA

Prossima tappa il Sud. Sì, proprio quello brutto, sporco e cattivo di una volta.
È qui, oltre il Garigliano, che Matteo Salvini vuole piantare le prossime bandiere della vittoria. Iniziando da Napoli e Bari, i Borboni e Murat assieme ad Alberto da Giussano per conquistare voti.
Quelli delle prossime elezioni regionali di primavera in Campania e Puglia.
La strategia è già  pronta, una Lega che non sarà  più Nord, nazionalizzata, e una sola certezza: nel simbolo deve esserci il nome “Salvini”.
Il team di sondaggisti ingaggiati dal Capo ha già  pronti diagrammi, slide e percentuali, lo rivela il sito di analisi politica affariitaliani.it  : il brand di Matteo sulla scheda elettorale al Sud vale intorno al 4-5%, che proiettato su scala nazionale fa il 2-3.
E allora basta con le canzoncine sguaiate sui napoletani (“senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani… oh colerosi, terremotati, voi col sapone non vi siete mai lavati”), intonate nelle notti di Pontida innaffiate da troppa birra e poco senso politico.
Le parole devono unire, gli slogan devono essere semplici e sfondare da Brescia a Trapani.
“Prima gli italiani”, è la parola d’ordine che Salvini ripete ossessivamente a talk unificati, preferibilmente con una t-shirt o una felpa con la scritta ben visibile “Stop invasione”.
Già  i talk e la televisiun, un Matteo davanti alla telecamera vale 2-3 punti di share, lui lo ha capito e non rifiuta una ospitata che sia una.
Finora ha evitato solo le previsioni meteorologiche e i programmi di cucina (anche se da giovane aveva partecipato al Pranzo è servito), ma tempo al tempo, quando per la causa si tratterà  di preparare in diretta una cassoeula, si farà .
La parola d’ordine “prima gli italiani” fa il giro delle banlieue di casa nostra, è rivolta a chi è in attesa di una casa popolare, a chi se la vede occupata da abusivi, a chi è da anni in graduatoria, diventando “il verbo” del disagio sociale diffuso giorno dopo giorno da militanti leghisti.
Si amplifica fino a diventare “virale”, quando Salvini porta la questione delle periferie in televisione.
Allora i talk si fiondano nei grandi quartieri popolari di Roma e di Milano. Finalmente la gente che lì vive (malissimo) ha a disposizione un microfono quasi h24.
Le immagini di pensionate costrette a barricarsi in casa perchè “ci sono troppi neri in giro”, o perchè a ridosso del quartiere la giunta comunale (preferibilmente di sinistra e perciò buonista) ha piazzato un campo rom, girano e creano uno strano fenomeno di emulazione.
Ognuno fa la sua barricata e pretende un microfono.
Animale politico ibrido e opportunista, che nella sua carriera si è finanche definito “comunista padano”, Matteo Salvini sa quali carte giocare per diventare il Le Pen italiano e prendersi un centrodestra in coma.
Sovranità  monetaria, no euro, tutela della famiglia tradizionale e aliquota unica per le tasse al 15-20% (“funziona in molti Paesi, così si combatte l’evasione, le imprese investono e assumono”): questi i punti cardine della strategia.
L’elettore medio della nuova Lega, ha spiegato Nando Pagnoncelli , è concentrato soprattutto al Nord, ha tra i 45 e i 64 anni, è un cattolico praticante (verrebbe da ridere…n.d.r.), e appartiene a quei settori particolarmente colpiti e spaventati dalla crisi.
Operai delle fabbriche chiuse, piccoli commercianti, pensionati, esodati e vittime della legge Fornero. Insomma , tutti quei settori della società  senza più punti di riferimento politici, “rifiutati” dal Pd, dimenticati dalla sinistra, non “compresi” nelle confuse strategie grilline.
Con chi parla il pensionato che abita in una casa popolare di una mega periferia metropolitana, chi incontra, quali parole ascolta?
Una prateria sconfinata per il nuovo soggetto fascio-leghista che Salvini sta costruendo. Le prime prove a ottobre con la manifestazione di Milano contro l’immigrazione insieme a Casa Pound.
Ha voglia il vecchio Umberto Bossi a dire che “la Lega nasce antifascista”, Salvini vuole fare come a Parigi.
“Perchè in Europa un solo modello è vincente, quello che abbraccia Front National in Francia, Ukip in Gran Bretagna, Lega, Fratelli d’Italia-An in Italia”.
Parola di Lorenzo Fontana, europarlamentare leghista e consigliere più ascoltato dal leader. “L’equivalente di quello che fu il professor Miglio per il Bossi della prima ora”, dicono negli ambienti della Lega.
Fontana, salde radici veronesi e una laurea in Scienze politiche, per il sito Dagospia è il Kissinger di Salvini.
È lui ad aver avvicinato Matteo a Putin, per il leader della Lega lepenista “vera diga contro il terrorismo islamico”.
Il presidente russo è alla ricerca di collegamenti con la destra europea e in queste ore tiene banco la vicenda dei 9 miliardi versati al movimento di Marine Le Pen.
L’oro di Mosca arriverà  anche alla Lega? “Soldi non ne abbiamo visti e non ci interessa chiederli. Il nostro appoggio alla Russia è totalmente disinteressato”, è la replica di Salvini.
Il viale che porta alla conquista del centrodestra non è lastricato di rubli.
Per il momento.

Enrico Fierro
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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LETTERA DEL MILITE IGNOTO

Novembre 26th, 2014 Riccardo Fucile

L’ITALIANO MEDIO CHE LE HA PROVATE (QUASI) TUTTE

Salve, sono l’Italiano Medio.
Non mi sento particolarmente nè di destra nè di sinistra: le ho viste all’opera tutt’e due e non mi sono parse un granchè. Il centro, poi, non ho mai capito che roba sia, sebbene abbia letto per anni il Corriere della Sera, o forse proprio per questo.
Non ho mai chiesto la luna, anzi sono uno che si accontenta di poco: vorrei essere governato da gente normale più o meno come me, mediamente perbene e abbastanza competente, che parla solo quando ha qualcosa da dire, e per il resto lavora.
Siccome poi pago le tasse (anzi, me le trattengono: sono un lavoratore dipendente in attesa della pensione, se mai la vedrò), gradirei saperle utilizzate per servizi pubblici decenti e non sperperate in sprechi o rubate in furti vari. Tutto qui.
Nella Prima Repubblica votavo i partiti di governo per paura dei comunisti, anche se non riuscivo a scrollarmi di dosso la fastidiosa impressione che Berlinguer fosse meglio di Andreotti e di Craxi (a volte quel pensiero molesto si estendeva perfino ad Almirante, almeno quando appariva in tv, ma riuscivo a scacciarlo subito).
Poi è arrivata Tangentopoli e istintivamente ho simpatizzato per i magistrati di Mani Pulite, che trattavano i ladri di Stato esattamente come i ladri di polli.
Mi pareva di aver letto da qualche parte, credo nella Costituzione, che è giusto così. Ma da un certo momento in poi sentii dire in tv e lessi sul Corriere che a furia di ripetere “non rubare” rischiavo di ammalarmi di giustizialismo, così smisi.
Quel Berlusconi che si affacciava sulla scena, tutto denti e miliardi, non è che mi convincesse molto, ma tutti dicevano che era un grande imprenditore che si era fatto tutto da sè e vai a sapere che si era fatto dare una mano da gente poco raccomandabile: la prima volta lo votai, vedi mai che di quel successo nella vita privata ne portasse un po’ anche in quella pubblica.
Me ne pentii subito, anche perchè durò meno di un anno e badò solo agli affari suoi: a me però bastarono due facce, quelle di Previti e Dell’Utri, furono più utili di mille politologi.
Nel ’96 votai Ulivo: mi stava simpatico Prodi perchè non è un comunista, ma un tipo normale, che non le spara grosse e parla, anzi borbotta poco, un po’ come me.
Ci portò in Europa con l’aiuto di Ciampi, e mi parve una cosa buona: il biglietto d’ingresso, l’Eurotassa, fu la prima imposta che pagai volentieri, anche perchè ce ne restituirono un pezzo.
Ma durò poco anche lui: D’Alema diceva che un Paese normale non può essere governato da un professore che non ha dietro un grande partito tutto suo e non dialoga con Berlusconi per rifare la Costituzione. Sarà .
A me la Costituzione, per quel poco che ne so, non pare malaccio, però tutti dicevano che andava rifatta e intanto Prodi cadde.
Dei governi “normali” al posto del suo, D’Alema e Amato, non ricordo granchè.
Se non che fecero tornare Berlusconi, stavolta per cinque anni: un disastro epocale, solo affaracci suoi (s’arrabbiò perfino la mafia, sentendosi trascurata). Quando il Cavaliere cancellò il falso in bilancio e cacciò pure Enzo Biagi dalla tv, trattandolo come Renato Curcio, partecipai anche a un paio di girotondi.
Poi però il Corriere disse che eravamo dei pericolosi manettari nemici del dialogo, e allora smisi.
Nel 2008 volevo astenermi, ma poi mi trascinai a rivotare Prodi, che restava il meno peggio. Lo rifecero fuori un paio d’anni dopo: il tempo di mandar fuori di galera 30 mila delinquenti (non ho mai capito perchè, quando le carceri scoppiano, non ne apriamo di nuove, ma spalanchiamo le porte di quelle vecchie).
Quattro anni di film horror: “Il ritorno del morto vivente”. Poi arrivò Monti con i suoi tecnici e respirai: vabbè, almeno hanno studiato e sanno far di conto.
Anch’io facevo i conti: mi mancava qualche mese alla pensione. Ma subito una ministra che piangeva con la faccia cattiva mi spiegò che ero un nababbo parassita come tutti i pensionati, insomma dovevo lavorare altri 7-8 anni.
E mio figlio, che aveva appena trovato lavoro, era un privilegiato e doveva vergognarsi per via dell’articolo 18, che infatti fu dimezzato. Boh.
Mi vennero dei cattivi pensieri anche sui tecnici e mi buttai sui 5Stelle.
Mica per Grillo: per quei ragazzi puliti che entravano in Parlamento senza un euro di soldi pubblici. Grande vittoria.
Speravo che cambiassero un po’ le cose, ma furono subito messi ai margini. Per farmi capire che il mio voto contava zero, tornarono le larghe intese e, per maggior chiarezza, fu pure rieletto Napolitano.
Letta durò nove mesi, poi arrivò Renzi: diceva cose giuste, più o meno le stesse di Grillo. Intanto i 5Stelle litigavano e si espellevano: sospetto che qualcosa di buono stiano facendo, in Parlamento, ma è solo un’impressione. In tv non li vedo mai e il computer non fa per me.
Così, alle Europee, ho votato Renzi. Grande vittoria. Ma me ne son subito pentito: il giovanotto ha cominciato a fare il contrario di quel che diceva.
Ha riesumato il morto vivente, ha ricominciato a menarla con la Costituzione da cambiare e con i parlamentari da nominare. Ha perfino ripetuto che mio figlio è un privilegiato, sempre per l’articolo 18.
Domenica mi sono astenuto, come i due terzi dei miei corregionali: stavolta capiranno il messaggio forte e chiaro.
Macchè: il tipetto dice che siamo secondari. Ma che devo fare per farmi ascoltare? Se voto, non conto niente. Se non voto, idem.
Dovrò mica mettermi a menare, alla mia età ?

Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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BAMBOLE, BAMBOCCI E L’EDUCAZIONE AI SENTIMENTI

Novembre 26th, 2014 Riccardo Fucile

NON SERVE ABOLIRE DAI LIBRI DELLE ELEMENTARI LE IMMAGINI DI BAMBIME CHE CUCINANO E CULLANO BAMBOLE, OCCORRE RISCOPRIRE CHE AMORE NON E’ POSSESSO

Il Pd ha presentato un disegno di legge per abolire dai libri delle elementari le immagini di bambine che cucinano e cullano bambole, nella beata convinzione che siano quegli stereotipi ad alimentare il maschilismo della società  e le violenze contro le donne.
A me sembra che ancora una volta si giri cerebralmente intorno al punto.
E il punto non riguarda la scarsa consapevolezza del ruolo della donna, ma la totale ignoranza del significato dell’amore.
La mancanza, cioè, di un’educazione sentimentale. I sentimenti sono stati espulsi dal discorso pubblico.
L’orrore può essere raccontato in ogni sua forma, così come la retorica melensa. Ma il sentimento no. Il sentimento viene confinato alla sfera privata per false ragioni di pudore.
Solo che, a furia di confinarlo, nessuno sa più cos’è.
Il maschio che picchia una donna è anzitutto un maleducato sentimentale. Uno per cui l’amore si esprime attraverso il possesso di un’altra persona.
Mentre l’amore, come ci ha invano ricordato Platone due millenni e mezzo fa, consiste nel desiderare il bene della persona amata anche quando non coincide con il nostro.
Consiste nel dare, non nel ricevere.
Perciò l’amore è più forte del senso di sconfitta che ti infligge un rifiuto o un abbandono.
Perchè ti permette di accettare la perdita senza sentirti ferito nell’orgoglio nè menomato nella tua personalità .
Amare significa sapere accogliere e lasciare andare. E’ l’esatto opposto del possesso. E’ la forma più alta di libertà .
Spieghiamo questo ai bimbi delle elementari, e lasciamo in pace le bambole.

Massimo Gramellini
(da “La Stampa”)

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