LAVORO, SOLO 316 SÌ: IL GOVERNO A UN VOTO DALLA SFIDUCIA
38 DEPUTATI DEL PD FUORI DALL’AULA… RENZI ADESSO È IN GRANDE DIFFICOLTà€ ANCHE ALLA CAMERA… TRA I SUOI CRESCE LA VOGLIA DI URNE CON CONSULTELLUM
Lorenzo Guerini, vice segretario del Pd, tessitore di natura, e di indole solitamente calmissima, quando il tabellone di Montecitorio fotografa il voto sulla riforma del lavoro, è palesemente nervoso e irritato.
La maggioranza al jobs act è di 316 voti. Solo uno sopra la soglia della sfiducia. Nonostante il tentativo portato avanti per tutto il giorno dai vertici dem per arrivare a una mediazione, in 38 del Pd non hanno partecipato al voto.
Con loro anche Forza Italia, l’altra gamba non formale, ma sostanziale che sta tenendo in piedi la legislatura.
I renziani parlano di “scorrettezza” e di “mancanza di coraggio”: se fanno così, dovrebbero andarsene, il ragionamento di molti. “Ma non sono capaci”.
“Si meriterebbero che si votasse domani con il Consultellum, con loro fuori dalle liste”, il commento che gira.
Una tentazione che — almeno tra gli uomini del premier — è in ascesa: tant’è vero che si fanno continui sondaggi e simulazioni.
Renzi per natura sarebbe tentato di andare all’affondo ma la linea, decisa in mattinata, è “calma e gesso”.
Non cambia però la valutazione sui circa 30 che si sono sfilati: irresponsabili che, per calcoli politici, “per frenarmi” hanno ignorato la mediazione fatta nel Pd, una mediazione che “ha convinto anche ex sindacalisti come Damiano, Bellanova, Epifani”.
Il quadro è fosco, tra il prossimo passaggio della riforma del lavoro in aula al Senato, dove i numeri sono molto più ristretti, la legge di stabilità , e l’Italicum e le riforme costituzionali al palo, con il disfacimento di Forza Italia.
Anche perchè su queste la fiducia non si può mettere.
Alle cinque del pomeriggio nell’aula di Montecitorio si vedono arrivare ministri e sottosegretari. Di corsa. Per votare. Una scena che alla Camera, nell’era del governo Renzi, non s’era ancora mai vista.
“Nella Camera dove la maggioranza è più forte abbiamo creato una faglia”, commenta Giorgio Airaudo di Sel.
La faglia è grossa, ed è stata fondamentale la posizione della minoranza Pd, seppur divisa e litigiosa al suo interno.
L’opposizione si allarga. “Sono sette con otto posizioni diverse”, ironizza la giovane turca, Giuditta Pini. E in effetti, ogni riunione sottolinea differenze e liti.
Ma nonostante questo alla fine 38 dem (su un gruppo di 307 componenti) non dice sì al Jobs act. Due dicono no, altri due si astengono: sono quattro civatiani, quelli da tempo ad un passo dall’uscita dal partito.
I no sono di Giuseppe Civati e Luca Pastorino, gli astenuti Paolo Gandolfi e Giuseppe Guerini.
In aula c’è pure il ministro del Lavoro Padoan, che quando si avvicina a Civati gli dice: “Ti ringrazio per aver espresso la tua contrarietà ostinatamente. Gli altri l’hanno fatto più disordinatamente”.
Gli altri, infatti, non partecipano al voto. Tra questi in 29 mettono la firma in calce ad un documento in cui spiegano le ragioni del loro non voto.
Tra loro ci sono Gianni Cuperlo, Rosi Bindi, Francesco Boccia, Davide Zoggia, Alfredo D’Attorre e un altro drappello di bersaniani.
La cui corrente, invece, che ha cercato l’accordo con il governo, Cesare Damiano in testa, ma anche Guglielmo Epifani, bacchetta con durezza l’iniziativa.
Lo stesso Bersani la mette così: “Voterò le parti che mi convincono con piacere e convinzione e le parti su cui non sono d’accordo per disciplina”.
Le minoranze non votanti fanno un documento unitario, e adesso provano ad andare avanti sull’opposizione dall’interno. Una grana per il governo. Che in Senato metterà la fiducia. Una scelta inevitabile, che, ammettono molti dei ribelli, salverà anche loro da scelte troppo difficili: la fiducia si deve votare.
Almeno sembra, perchè l’impressione è che il quadro politico sia del tutto fuori controllo. Saranno presi provvedimenti nei confronti delle minoranze? Matteo Orfini, presidente del partito, assicura di no.
Poi, prova a minimizzare: “Il 9% del gruppo ha votato no. Non mi pare una tragedia”.
In realtà , l’impressione che non si tenga più quasi niente è collettiva.
Ma il punto è che arrivare alle elezioni è complicato: Napolitano non scioglie le Camere e con le sue dimissioni, si chiude la finestra elettorale di primavera.
Ma così è la palude continua. Il premier a mediazioni (e a espulsioni) non ci pensa proprio: “Non do pretesti, ognuno scelga in che partito vuole stare, io vado avanti in ogni caso”.
I numeri dicono che non è così facile.
Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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