Gennaio 22nd, 2015 Riccardo Fucile
“NOI SIAMO AVVERSARI LEALI, NON COME QUELLI CHE AGISCONO ALLE SPALLE”
A meno di dieci giorni dall’elezione del nuovo capo dello Stato sale la tensione nel Pd. Ci si deve
aspettare una riedizione del 2013?
“A differenza di quelli che oggi chiedono disciplina e due anni fa hanno capeggiato i 101, noi siamo persone serie. Nessuno deve temere da noi i franchi tiratori”, risponde Stefano Fassina a Montecitorio.
E a chi gli chiede se Matteo Renzi ha capeggiato i 101, Fassina risponde: “Non è un segreto”. “.
“Il patto stretto che Renzi ha fatto da tempo con Berlusconi – continua Fassina ai microfoni di Radio Città Futura -, ignorando i contributi che arrivano dalla minoranza del Pd, si è trasformato nel partito unico del Nazareno, Renzi ha scambiato con Berlusconi la possibilità di avere i nominati, con il premio alla lista”.
Purtroppo, aggiunge il deputato del Pd, “Berlusconi agisce come imprenditore e non come leader politico, altrimenti non avrebbe accettato il premio alla lista che penalizza il centrodestra che così non vincerà più, dovendosi dividere tra Lega e Forza Italia. Gli unici che pagano questo patto sono i cittadini, che si vedono ancora una volta sottratta la possibilità di scegliere chi li rappresenta e lo paga la nostra Costituzione, con un Parlamento molto meno autonomo”.
Fassina poi annuncia che non tutti nel Pd voteranno la riforma della legge elettorale: “Credo che ci saranno dei comportamenti differenti sull’Italicum al Senato: una parte del Pd non voterà la legge elettorale”.
“Sono consapevole – spiega – della gravità politica dello scenario, ma temo che sbaglieremmo a non prendere atto della realtà dei fatti, ovvero del partito del Nazareno. Comunque rimaniamo impegnati a condividere con tutto il Pd il criterio fondamentale per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, cioè l’autonomia dall’esecutivo e la capacità di garantire l’autonomia del Parlamento”.
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Gennaio 22nd, 2015 Riccardo Fucile
LA DEPUTATA ELISA SIMONI SI METTE IN PROPRIO E CREA UNA NUOVA CORRENTE NE PD, SI CHIAMERA’ “CARTA 22 APRILE”
La famiglia Renzi sforna un altro leader. Si tratta di Elisa Simoni, deputata del Partito democratico, che si appresta a guidare una nuova corrente all’interno dello stesso Pd: “Carta 22 aprile”.
Parente del premier Matteo Renzi, i loro nonni sono cugini, la Simoni alle primarie del centrosinistra nel 2012 sostenne Pier Luigi Bersani e a quelle del Pd nel 2013 appoggiò invece Gianni Cuperlo.
Da qualche settimana, la Simoni sta organizzando una corrente interna al Pd, che riunirà deputati di varie aree: si metteranno insieme ex franceschiniani, ex lettiani, ex fioroniani, qualche ex cuperliano ed ex Sinistra ecologia libertà (Sel).
Nei corridoi di Montecitorio e in quelli della sede del Nazareno, si danno tra gli altri come sicuri aderenti della nuova compagine i parlamentari Enrico Borghi, Francesco Sanna, Mino Taricco, Francesco Saverio Garofani, Roberto Ruta, Gian Pietro Dal Moro, Fabio Lavagno e Sergio Boccadutri.
La corrente è già fatta, insomma, e a testimoniarlo c’è anche un neonato gruppo su whatsapp.
Il sigillo però lo stanno mettendo alcuni incontri, l’ultimo in un ristorante del centro di Roma a pochi passi dalla Camera.
L’obiettivo della Simoni e degli altri parlamentari promotori, confidano alcuni di loro, è quello di dare vita a un’area centrale nel partito, naturalmente distante dalle posizioni del caro cugino, più riformista rispetto alle posizioni del segretario, ma anche più moderata in confronto alla minoranza del partito.
E, magari, contare di più nella prossima elezione del nuovo presidente della Repubblica
Mario Marconi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 22nd, 2015 Riccardo Fucile
IL SINDACO DI SALERNO CONDANNATO, QUINDI SI CANDIDA ALLE PRIMARIE DEL PD
Politicamente poco importa che il reato sia stato derubricato da peculato ad abuso d’ufficio e che i tre
anni di reclusione chiesti dal pm Roberto Penna siano scesi a uno. Dalle 19:30 di ieri sera il sindaco-sceriffo di Salerno Vincenzo De Luca ha assunto il fastidioso status di condannato.
Un problema serio per chi ambisce a fare il governatore della Campania attraverso le primarie del Pd rinviate due volte, slittate al 1 febbraio e ora più che mai a rischio, tra le pressioni dei renziani doc che vorrebbero cancellarle e invocano un nome di superamento che scongiuri il ripetersi del caso Liguria, e il malcelato imbarazzo di chi teme che le vinca, per l’appunto, un condannato.
“Io non ho nessuna intenzione di mollare, da oggi comincia una grande battaglia di civiltà ” commenta De Luca a caldo
Ma nei giorni scorsi, in un forum al Corriere del Mezzogiorno, aveva dichiarato “di essere pronto a fare un passo indietro in caso di condanna”.
La sentenza della seconda sezione penale del Tribunale di Salerno arriva al termine di un processo che vedeva De Luca imputato per la nomina a project manager, e relativa retribuzione, del suo capo staff Alberto Di Lorenzo, nell’ambito della realizzazione di un termovalorizzatore a Cupa Siglia.
De Luca era commissario straordinario dell’opera, mai realizzata, su delega del governo Prodi.
Prima che le competenze gli venissero sottratte da una legge del governo Berlusconi.
“Mi auguro che questa vicenda sia assunta sul piano nazionale, in primo luogo dal Pd, come l’occasione per una grande battaglia a difesa delle persone perbene e degli amministratori che dedicano una vita al bene pubblico, ma sono costretti a vivere un calvario” dice De Luca rivendicando la correttezza del proprio operato.
“Mi auguro che l’Anci decida di esistere a tutela della dignità di amministratori che, pur non rubando, non disamministrando e mantenendo un rigore spartano, sono carne da macello nell’indifferenza generale. In queste condizioni, ben presto non ci sarà più nessuna persona perbene disponibile ad assumere responsabilità pubbliche, ma avremo soltanto o delinquenti o ignavi”.
La procura trasmetterà il dispositivo di condanna alla Prefettura di Salerno, che metterà in moto le procedure della legge Severino.
Ma col precedente di Luigi de Magistris, una eventuale sospensione dalla carica di sindaco potrebbe anche in questo caso essere ‘congelata’ dal Tar. Si vedrà .
Comunque poche ore prima della sentenza De Luca ha adottato una ‘exit strategy’, cambiando al volo il vice sindaco, nominando il suo capo staff Enzo Napoli.
Perchè un’altra bomba a orologeria ticchetta sotto la poltrona di De Luca.
Da oggi la Corte di appello civile potrebbe esprimersi sulla decadenza da sindaco, per aver ricoperto questo ruolo incompatibilmente all’incarico di vice ministro ai Trasporti durante il governo Letta.
Il Tribunale lo ha già dichiarato decaduto, ma solo una pronuncia di secondo grado diventerebbe esecutiva.
È l’ultimo chilometro dell’azione legale promossa dai parlamentari salernitani del M5S. Ieri sera il capogruppo grillino al Senato Andrea Cioffi ha invocato le dimissioni immediate di De Luca: “Vada a casa, liberi Salerno e chieda scusa ai cittadini, la sentenza conferma che per venti anni la città è stata gestita come una proprietà privata nell’esclusivo interesse di pochi e conferma l’inadeguatezza del Pd ad affrontare situazioni scomode”
Per De Luca non è la prima condanna.
Ne ebbe una per reati ambientali, per la cattiva gestione di un sito di stoccaggio provvisorio dei rifiuti durante l’emergenza del 2001.
Fu prescritta in appello nonostante la sua promessa a rinunciare alla prescrizione, la condizione chiesta da Antonio Di Pietro per l’appoggio di Idv alla candidatura a governatore del 2010.
L’ex pm di Mani Pulite si infuriò e ruppe con De Luca.
Che a onor del vero ha poi rinunciato alla prescrizione in un successivo processo, più delicato, per la variante urbanistica funzionale alla riconversione delle Mcm.
Ed è stato assolto nel merito.
Ora una nuova condanna. E un altro processo appena iniziato, per il Crescent.
Vincenzo Iurillo
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 22nd, 2015 Riccardo Fucile
ANNA CORRE PER IL QUIRINALE, IL MARITO VA ALLA SBARRA A CATANIA PER TRUFFA
Quella mattina del 15 novembre 2010 Anna Finocchiaro, oggi tra i candidati papabili per il Quirinale, rimase spiazzata: presente alla inaugurazione del presidio sanitario di Giarre, in provincia di Catania, insieme all’ex ministro della Salute Livia Turco, fu contestata da un gruppo cittadini infuriati per la chiusura dell’ospedale principale.
A venirle in soccorso contro i contestatori fu il marito Melchiorre Fidelbo, di professione ginecologo, anche lui presente all’inaugurazione, non come consorte accompagnatore ma in quanto vincitore di un appalto senza gara per l’informatizzazione di quel presidio, affidato alla Solsamb Srl, di cui il marito della Finocchiaro era amministratore delegato.
Per quell’appalto di oltre un milione di euro, poi revocato dalla Regione, adesso Fidelbo è imputato davanti al Tribunale di Catania per truffa aggravata insieme all’allora direttore amministrativo della azienda sanitaria etnea Giuseppe Calaciura e all’ex direttore generale Antonio Scavone, attuale senatore del gruppo Gal (Autonomie e libertà ).
La tesi della Procura è che la convenzione stipulata tra la azienda sanitaria etnea e la società di Fidelbo sia stata redatta “senza previo espletamento di una procedura ad evidenza pubblica e comunque in violazione del divieto di affidare incarichi di consulenza esterna”.
Come richiesto dalle leggi regionali. Il provvedimento avrebbe procurato, secondo l’accusa, un ingiusto vantaggio patrimoniale alla società di Fidelbo, con una prima anticipazione di 175 mila euro.
Il processo avanza molto lentamente da quasi due anni (finora sono stati sentiti i testimoni dell’accusa), tra un rinvio e l’altro, il primo per mancata notifica e l’ultimo per assenza dei testimoni a difesa, mentre corre veloce il rischio prescrizione e il prossimo 3 febbraio saranno sentiti gli imputati.
Perchè quell’appalto fu affidato proprio alla Solsamb Srl?
È l’arcano che dovrà cercare di chiarire il processo che si sta svolgendo davanti al tribunale etneo.
E soprattutto se altre società furono messe in condizione di poter presentare progetti dello stesso tipo.
Peraltro del dottor Fidelbo erano note le competenze in materia medica, ma lui tenne subito a rivendicare anche i suoi meriti nel campo del software: “Quel progetto era mio, non aveva senso una gara pubblica, se l’avessero fatta sarei stato io a rivolgermi alla magistratura per tutelarmi”, si è sempre difeso Fidelbo.
L’assessore regionale alla sanità del tempo Massimo Russo si disse all’oscuro di tutto e raggiunto dal Fatto Quotidiano commentò così: “In questa vicenda voglio vederci chiaro: non capisco come mai non ci sia stata gara e come mai l’assessorato abbia autorizzato la pratica in tempo record. Chiederò lumi e manderò gli ispettori. Ma escludo si possa trattare di una questione di familismo”.
Gli ispettori regionali conclusero che la procedura era illegittima.
L’appalto — secondo il parere degli ispettori stato affidato in violazione dei principi di libera concorrenza, parità di trattamento, trasparenza e pubblicità ”.
Ricevuta la relazione ispettiva, l’assessore revocò l’appalto.
Era quella una fase politica regionale molto incandescente, per via delle polemiche sulle indagini per mafia a carico del governatore Lombardo poi condannato dal Tribunale di Catania e molti rinfacciarono alla Finocchiaro e a parte del Pd l’appoggio a quel governo. “Vogliono far pagare a mia moglie l’appoggio al governo Lombardo”, disse allora Fidelbo a proposito della risonanza che ebbe sui media la vicenda di quell’appalto.
Giuseppe Giustolisi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 22nd, 2015 Riccardo Fucile
INTERVISTA ALLA MAMMA ROSANNA, EX ISCRITTA AL PD
Sempre così sincera, a volte un po’ severa. 
“Viva la mamma, siempre” verrebbe da dire mentre Rosanna Civati – ex insegnante, ex militante del Pd, madre di Pippo – elenca le ragioni per cui dopo vent’anni di militanza ha lasciato il partito.
Un po’ per le regole, un po’ per le buone maniere.
“Ho resistito fino a ‘enricostaisereno’. Non ci si comporta così, via. Anche se a me le cosiddette ‘larghe intese’ non piacevano, il modo in cui è Letta stato defenestrato l’ho trovato ignobile. E poi non condividevo l’idea di allungare l’inciucio fino al 2018. Non si poteva restare: si capiva che l’inciucio non avrebbe portato nulla di buono.
Tipo la legge elettorale?
Una cosa orribile in sè e ancora più orribile se vista insieme alla riforma costituzionale: stravolgerà il sistema delle garanzie, in un totale squilibrio a favore di chi vince. Non ci saranno più contrappesi sufficienti.
Che dice a suo figlio?
Non voglio condizionare Pippo: sa cosa deve fare. E poi per noi uscire è più facile, i ruoli sono diversi.
Per Pippo cosa sogna? Un futuro dentro o fuori dal Pd?
Fuori, non c’è dubbio. Anche se fuori non si capisce bene cosa ci sia. Voglio dire: uscire con chi? Con quali compagni? Per andare dove? Alla sinistra del Pd ci sono tanti individualismi. Ma a sinistra è sempre così, sempre difficile.
Cofferati?
Non poteva fare altro che uscire, soprattutto per il disinteresse mostrato dal partito rispetto alle troppe opacità . Possibile che nessuno si sia sentito in dovere di controllare? Le denunce c’erano state anche prima. Però non è che Cofferati oggi possa rappresentare un rinnovamento.
In questo clima in cui gli esponenti di spicco del partito rispondono alle obiezioni con “la maggioranza ha deciso, la minoranza si adegui”, suo figlio quanto resiste?
Mi sembra molto vicino a cedere. Ma è una sensazione, non lo dico per cose che mi ha confidato. Ora abita con la sua famiglia a Verona, ci vediamo anche poco. E quando ci vediamo, io e mio marito cerchiamo di non stressarlo troppo con la politica. Però il fatto che non sia tollerata alcuna critica, è una delle ragioni per cui sono uscita. Insieme a tanti altri, che avevano una lunga militanza. Il fatto non è essere minoranza, il fatto è essere ignorati o peggio derisi: in passato non succedeva. Non si viene ascoltati e per di più si deve subire il sospetto di voler mettere i bastoni tra le ruote, o di voler rovinare la carriera di Renzi, di cui francamente non ci importa nulla. È inaccettabile che siamo proprio noi a ridurre lo spazio dei diritti, in un momento di così grave emergenza sociale.
Il nostro partito…
(sopiro) Il distacco non è facile. Alle europee ho votato persone che stimavo del Pd, ma ho votato nonostante il Pd.
Le mamme hanno la vista lunga: Pippo l’aveva messo in guardia alla Leopolda?
Avevo una certezza. Che di Renzi non ci si potesse fidare. E glielo ho detto subito, ma Pippo l’aveva capito. Mio figlio aveva un’idea di rinnovamento “insieme”, Renzi voleva fare tutto da solo. Era ovvio.
Silvia Truzzi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 22nd, 2015 Riccardo Fucile
“TRATTATIVE DISCREZIONALI, NON C’E’ TRASPARENZA”
Cinquantacinque milioni di euro per lisciare le rughe che le inchieste giudiziarie hanno inciso sulla fronte di Expo 2015 Milano.
E per rifarsi il trucco agli occhi di un’opinione pubblica sempre più scettica, dal 2012 la Spa cerca il supporto dei più forti attori nel panorama mediatico italiano. In tutto, un budget di 55 milioni di euro, di cui tracciabili al momento ne risultano solo 12,4 milioni, il 22% circa.
Mentre mancano soltanto cento giorni al via, in calendario il primo maggio, di questo fiume di denaro soltanto cinque milioni sono destinati a testate straniere: meno del 10% del budget, dunque, per un’esposizione “universale” che dovrebbe avere nell’afflusso di turisti stranieri una delle principali ragioni d’essere.
Non si parla di inserzioni pubblicitarie, che compaiono su molti mezzi di informazione compreso ilfattoquotidiano.it, ma di iniziative editoriali ad hoc che parlino dell’esposizione universale.
Cominciamo da due ‘manifestazioni d’interesse’ di cui non si conosce il budget messo a disposizione da Expo, i tempi di realizzazione dei servizi nè tantomeno i contenuti. Si chiamano ‘Daily media prodotti editoriali’ e ‘Gruppi editoriali per eventi’, entrambe visibili sul sito di Expo.
Di cosa si tratta? La società Expo Spa invita le testate italiane, e non solo, a presentare proposte editoriali ed eventi che celebrino l’esposizione universale 2015 e la sua storia. In cambio offre uno (sconosciuto) contributo economico, per entrambe le manifestazioni di interesse.
Sulla pagina degli Rfp (Request for proposal, nome tecnico di queste manifestazioni di interesse), si leggono solo i nomi dei media che hanno passato l’esame di idoneità , per altro basato su criteri e punteggi non esplicitati.
Ci sono tutti i gruppi editoriali italiani più forti: da Rcs, al gruppo Espresso, passando per il Sole 24 Ore, Mondadori e Libero.
E quanto vale la torta? “Il budget stanziato non è stato predefinito nella manifestazione di interesse perchè non si tratta di gara di appalto tradizionale”, risponde Expo.
Ergo, si deciderà in seguito, in trattativa privata. Come (quasi) sempre.
CICCONI (COMITATO TRASPARENZA): “TRATTATIVE DISCREZIONALI”
“Non c’è la minima trasparenza. Ogni trattativa è condotta in modo discrezionale. Non viene specificato nulla”.
Ivan Cicconi, membro del Comitato regionale per la trasparenza degli appalti e sulla sicurezza dei cantieri di Regione Lombardia, avrebbe scelto ben altre procedure previste dal Codice per gli appalti: l’appalto concorso e il dialogo competitivo.
Entrambi sono strumenti attraverso i quali una stazione appaltante che non ha liquidità a sufficienza per coprire un servizio si rivolge al mercato affinchè, attraverso la competizione tra gli attori, si individui l’offerta economica più vantaggiosa.
A differenza dei bandi RFP, però, è chiarita l’offerta economica massima, il criterio per stabilire la graduatoria dei progetto e il numero totale dei progetti da realizzare.
Per altro, il Codice unico sugli appalti all’articolo 118 impone di inserire, alcune caratteristiche nei bandi: “La stazione appaltante è tenuta ad indicare nel progetto e nel bando di gara le singole prestazioni“.
Non solo: “E’ fatto obbligo all’affidatario di comunicare alla stazione appaltante, per tutti i sub-contratti stipulati per l’esecuzione dell’appalto, il nome del sub-contraente, l’importo del contratto, l’oggetto del lavoro, servizio o fornitura affidati”.
Quindi, a meno che tutto non venga realizzato internamente, i giornali avrebbero dovuto comunicare a chi, ad esempio, affidavano la stampa del volume speciale sulle esposizioni universali. Ma anche di questo non si trova traccia nel sito dell’esposizione.
La società di via Rovello non la pensa come l’esperto di appalti: “La Manifestazione di interesse è stata considerata da Expo 2015 S.p.A. il modo più adatto e trasparente per garantire a tutti i gruppi editoriali la stessa possibilità di esprimere in modo completo le proprie proposte”, replicano alle nostre richieste di chiarimenti.
Sono dieci, ci spiega la società , i prodotti editoriali realizzati fino ad oggi.
“Un altro gruppo — si legge nella nota di risposta — uscirà tra novembre e dicembre. E l’ultimo gruppo tra gennaio e aprile 2015 (ancora da definire)”.
I VINCITORI: “DOPO MESI NON SAPPIAMO ANCORA NULLA”.
Esiste, infine, un terzo Rfp che, come i due precedenti, nasconde ancora molte incognite. Si tratta della gara per diventare media partner ufficiale dell’esposizione.
Pare, però, che i vincitori (Gambero Rosso, LT Multimedia Audiopress) ancora non sappiano quali delle loro proposte hanno ricevuto il via libera da Expo.
“Ancora non sappiamo quali prodotti nello specifico ci sono stati approvati poichè non abbiamo ricevuto risposta da Expo”, ci risponde Corrado Azzolini, vicepresidente di LT Multimedia, la società che possiede i canali satellitari Marcopolo, Nuvolari, Alice e Leonardo: Il leit motiv è sempre lo stesso: ritardo.
“Dovevano risponderci diversi mesi fa ma ancora niente. Anche perchè la nostra proposta concerne esclusivamente la promozione dell’esposizione, quindi tutto il pre-Expo.
Ci aspettiamo novità entro la fine di novembre”. E a quanto ammontano i finanziamenti per l’Rfp ‘Media Partner’?
“In merito al budget, preferirei non parlarne fino alla presentazione del palinsesto”, chiude Azzolini.
CINQUE MILIONI ALLA RAI. MA LA REDAZIONE EXPO E’ A ROMA
Chi si è preso la fetta più grande della torta da 55 milioni di euro per la copertura mediatica dell’Expo è la Rai.
Viale Mazzini porta a casa 5 milioni di euro per costruire una piattaforma dedicata all’esposizione: RaiExpo, nota più per avere una squadra di 47 giornalisti a Roma, che per i contenuti.
Per imprimere su pellicola le prodezze di Expo, la Movie People ha ottenuto 1.186.000 euro per la realizzazione di un generico ‘Progetto cinematografico’ e di un film sui “paesaggi e sulla produzione alimentare italiana”, benchè la società non produca film bensì noleggi attrezzatura cinematografica.
Alla società Four in the Morning sono invece andati 90mila euro per lo sviluppo di ‘Exchanges, Expo cambia il mondo’, un documentario al miele sulle esposizioni universali proiettato addirittura alla mostra del cinema di Venezia e firmato dalla direttrice di RaiNews Monica Maggioni.
La stessa Maggioni siede nella commissione di RaiExpo.
Persino a Mediaset, principale competitor della Rai, sono rimaste le briciole: 80mila euro per il progetto ‘Mediaset news lab’ (di cui ad oggi conosciamo solo l’etichetta) più altri 520 mila al gruppo Publitalia ’80 per garantire spazi pubblicitari alla manifestazione.
C’è poi il capitolo giornali.
Forse i 15 mila mila lettori del Foglio si sono chiesti cosa avesse spinto Giuliano Ferrara a pubblicare nel 2012 un opuscolo sulle esposizioni universali dal dopoguerra a oggi. La risposta sta negli 85mila euro avuti da Expo Milano Spa per finanziare l’operazione.
A Il Sole 24 Ore sono andati 63 mila euro per il ‘Progetto Gazzettino’ e altri 25 mila per la pubblicità .
DALL’ANSA ALLA FONDAZIONE FELTRINELLI, PIOGGIA DI MILIONI
E non poteva mancare la più importante agenzia di stampa nazionale.
L’Ansa si è aggiudicata quattro appalti e due contributi, di cui uno sconosciuto e l’altro per un misterioso ‘Tour around Italy’. All’Ansa fanno compagnia l’agenzia LaPresse, che prende 50mila euro di abbonamento, e l’agenzia TM News, alla quale Expo versa 55mila euro per “copertura testi, foto e video” a e altri 210 mila per l’attivazione abbonamento. Anche in questo caso, si tratta di prestazioni in più rispetto alla normale copertura di notizie e immagini propria delle agenzie di stampa.
All’elenco si aggiungono poi gli eventi culturali. Alla Fondazione Feltrinelli vanno ben 1.840.000 euro per la creazione di ‘Laboratorio Expo’, “unico progetto di ricerca nell’ambito dell’esposizione — fanno sapere dalla casa editrice — e cofinanziato da Expo Spa”.
La Fondazione Mondadori con ‘We-Women for Expo’, un progetto in pianta stabile nel Padiglione Italia per valorizzare il mondo femminile, porta a casa 850mila euro.
Non mancano i due quotidiani più prestigiosi d’Italia, Repubblica e Corriere della Sera: in quanto principale sponsor dell’iniziativa ‘Repubblica delle idee’, sembra che il giornale diretto da Ezio Mauro abbia intascato mezzo milione di euro.
È andata un po’ meglio al gruppo Rizzoli: il ciclo d’incontri ‘Convivio, a tavola tra cibo e sapere’, ha portato nelle casse della Fondazione Corriere della Sera 410 mila euro in quanto “contributo per massima visibilità di Expo 2015”.
A Rcs Sport ne sono andati 154 mila per mettere il logo di Expo nell’ambito della Milano City Marathon. Anche Condè Nast è della partita. La società ha vinto due finanziamenti per la realizzazione degli eventi ‘Wired Next Fest’ (13mila euro) e ‘Fashion Night Out’ (39 mila euro).
E dulcis in fundo, il nome noto alle cronache: si tratta della AB Comunicazioni, vincitrice di 1.750.000 euro del budget stanziato per la visibilità di Expo.
L’azienda guidata da Andrea Bertoletti è infatti una di quelle di riferimento del ‘sistema Giacchetto’, dal nome di Faustino Giacchetto, il “re della pubblicità ” in Sicilia a cui i pm di Palermo contestano il reato di truffa per 10 milioni di euro ai danni della Regione. Nelle carte dell’inchiesta spicca una frase emblematica: “Per l’intensità dei rapporti che li legano a Giacchetto si segnalano AB Comunicazioni e il Gruppo Moccia e, a conferma di come tali società siano ormai ‘radicate’ in Sicilia, si evidenzia che le stesse hanno tutte stabilito una sede operativa a Palermo e nel caso della AB Comunicazioni addirittura coincidente con lo studio di Giacchetto”.
Lorenzo Bagnoli e Lorenzo Bodrero
(Irpi, Investigative Reporting Project Italy)
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Gennaio 22nd, 2015 Riccardo Fucile
COSA E’ I QUANTITATIVE EASING: I BENEFICI, L’ESPERIENZA DEL PASSATO E I FATTORI CHE POSSONO RENDERE INEFFICACE IL BAZOOKA DI DRAGHI
Come una profezia che si autoavvera, attesa praticamente da tutti, la Banca centrale europea (Bce) ha
ufficializzato il Quantitative easing (Qe), l’acquisto di titoli di stato dei paesi membri dell’Unione per contrastare la spirale deflattiva che soffia da sud e portare l’inflazione vicina al target del 2%.
Una manovra che supera le previsioni del mercato che scommetteva su acquisti per 50 miliardi al mese per 22 mesi (1.100 miliardi di euro).
Invece la Bce rilancia con 60 miliardi di acquisti combinati (titoli pubblici e privati) per 19 mesi (il tetto è fissato al 25% degli acquisti a ogni emissione e 33% dei paesi emittenti), da marzo 2015 a settembre 2016 (per un totale di 1.140 miliardi), pronta a proseguire se ce ne fosse bisogno e l’inflazione non avesse raggiunto il target.
Lo ha annunciato il presidente Mario Draghi, protagonista di una vera svolta nella turbolenta storia dell’Eurozona che darà certamente serenità ai mercati allentando lo spread e respingendo la speculazione.
Anche se l’ex governatore di Bankitalia sulla partita decisiva della mutualizzazione dei rischi sui titoli sovrani ha dovuto mediare con i falchi della Bce, vincendo a metà . Per il resto, gli acquisti verranno ponderati sulla base della partecipazione che le rispettive banche centrali dei paesi membri hanno nel capitale della Bce (su un montante di 600 miliardi nel 2015 per l’Italia significa un piano di acquisti che si aggira sui 104 miliardi).
Con una postilla importante: il Consiglio direttivo è stato unanime nel riconoscere acquisto di bond come strumento di politica monetaria.
Riassunta la manovra (storica) di oggi, che ha fatto subito scattare il rally in Borsa, proviamo a capire che risultati hanno prodotto i Qe già messi in campo da altre grandi banche centrali, quali sono i rischi di un allentamento di questa portata, che effetti potrà produrre sulle economie dell’Eurozona (e sull’Italia) una iniezione così potente di liquidità e quali saranno, verosimilmente, le difficoltà di applicare il piano ad un continente peculiare come l’Europa.
Qe, il precedente di Usa e Giappone
Il ritardo con cui la Bce si sta muovendo per rianimare un’Eurozona in stagnazione e lacerata tra il blocco tedesco (Germania, Olanda e Lussemburgo) e i paesi periferici sulle priorità da dare a crescita e rigore, ha avuto almeno un pregio: Francoforte ha potuto verificare l’esperimento delle altre banche centrali (specie Federal Reserve e Banca del Giappone) che nel mezzo della crisi hanno avviato (e in parte concluso perchè le politiche non ortodosse non possono durare all’infinito altrimenti avremmo i prezzi di azioni e obbligazioni pilotati dalla mano pubblica) programmi di espansione monetaria con un triplice obiettivo, come ben riassunto dal direttore di Lettera economica, Giorgio Arfaras: “comprare e ‘schiacciare’ i rendimenti delle obbligazioni private per aiutare le famiglie, le banche e quindi le imprese; comprare e ‘schiacciare’ i rendimenti delle obbligazioni pubbliche per ridurre i costi delle politiche fiscali espansive; spingere la liquidità dei privati dalle obbligazioni verso il mercato azionario.”
Per i sostenitori la svolta “americana” della Bce rappresenta la miglior soluzione anti crisi.
Per una sorta di domino virtuoso, grazie al bazooka di Draghi, le banche aumenteranno i prestiti, l’economia crescerà e il mercato dei titoli sovrani si stabilizzerà togliendo agli investitori il maggiore fattore di incertezza sul futuro dell’area euro.
Nel frattempo l’aumento dei prezzi ridurrà il valore reale dei debiti accompagnando il deprezzamento della moneta unica.
Secondo alcuni studi citati dal Financial Times i programmi americani (ma anche giapponesi e inglesi) hanno avuto un qualche effetto nello stimolare la ripresa economica e dell’occupazione dopo la grande crisi evitando la trappola infernale della deflazione.
Nonostante la politica di bilancio sia dal 2011 neutrale o restrittiva.
Per un analista attento come Carlo Bastasin della Brookings Institution, “il fatto che i tassi di interesse a lungo termine siano stati sempre inferiori al tasso di crescita ha consentito agli Usa di ridurre i debiti di imprese e famiglie senza frenare investimenti e consumi.”
Anche in Giappone i chiaroscuri della Abenomics non hanno impedito allo yen di apprezzarsi e all’economia di Tokyo, dopo decenni di stagnazione, di tornare più attrattiva.
Ma proprio qui fa leva la malizia degli osservatori anti Qe, attenti a mostrare l’altra faccia della medaglia.
L’economia si è ripresa e i mercati finanziari sono risaliti perchè tornati in salute oppure perchè, semplicemente, il sistema è stato drogato dalla liquidità delle banche centrali?
“Forse non ci si è resi conto di cosa si è generato con la droga dei Quantitative easing: una massa monetaria impressionante che ha portato ad una incredibile bolla degli asset (e di Wall Street) senza che i soldi finissero nel circuito dell’economia reale” spiega Danilo Rambaudi, autore del blog economico-finanziario IntermarketAndMore.
Dall’inizio della crisi hanno generato liquidità per un importo superiore ai 10 trilioni di dollari. Una cifra mai vista in precedenza. “Una iniezione di monetadone”, come ironizza qualche banchiere. In ogni caso “una cura palliativa.”_
Di pari passo anche il debito pubblico complessivo è cresciuto in modo esponenziale.
Senza cedere a letture apocalittiche, il problema della sostenibilità dell’iper debito e della montagna di liquidità che tra poco inonderà l’Eurozona è reale e attraversa le discussioni dei cenacoli alla Davos.
Solo l’altro giorno un insospettabile come l’ex governatore della Banca d’Inghilterra, Mervyn King, parlando alla London School of Economics, ha invitato tutti alla prudenza evitando derive miracolistiche.
“Abbiamo avuto il più grande stimolo monetario che il mondo ricordi – ha spiegato King – ma non abbiamo ancora risolto il problema della debolezza della domanda…”
Il Qe e le divisioni politiche dell’Europa
L’automatismo secondo cui la Bce, comprando titoli di stato e altri asset sul mercato, spingerà al ribasso i tassi di interesse, inietterà liquidità nel sistema dell’economia reale, incoraggerà il credito a famiglie e imprese, stimolerà la crescita e ci allontanerà dal buco nero della deflazione, potrebbe suonare troppo ottimistico.
Nella pratica avviare un programma di espansione monetaria, specie nell’eurozona, presenta almeno quattro difficoltà .
Prima difficoltà .
L’Europa si muove tardi rispetto agli americani e soprattutto in ordine sparso, divorata com’è dagli interessi nazionali.
Già dopo il fallimento della Lehman Brothers, nell’autunno del 2008, Christine Lagarde, allora ministro delle Finanze francese, propose un intervento coordinato ispirato al Tarp americano, ma in quell’occasione ricevette un secco “no” da Angela Merkel, attenta a tenere al riparo i contribuenti tedeschi da eventuali corresponsabilizzazioni di rischi e debiti comunitari.
Seconda difficoltà .
La crisi e la disoccupazione hanno messo radici in Europa. Con inflazione negativa praticamente in tutti i paesi periferici, aziende e consumatori stanno posticipando spese e investimenti, il populismo è a livelli di guardia e i partiti istituzionali screditati come non succedeva da decenni. E domenica si vota in Grecia.
Se i buoi sono già scappati anche il Qe rischia di avere un impatto limitato, tanto più in una congiuntura in cui la banca centrale americana ha smesso di comprare titoli di stato e si parla apertamente di divorzio tra Bce e Federal Reserve.
Dilemma nel dilemma: quale sarà l’effetto sui cambi?
Terza difficoltà .
Un sistema bancocentrico è meno efficace nell’influenzare il prezzo delle attività a lungo termine.
In Europa l’80% del credito arriva dagli sportelli bancari, che conservano in pancia attività per 30 mila miliardi di euro (tre volte l’intero Pil dell’Eurozona) e gran parte dei 5mila miliardi di maggior debito pubblico emesso dagli stati da quando è scoppiata la grande crisi.
Come scrive Stefano Cingolani, “le banche europee hanno poco capitale, meno delle concorrenti americane e si tengono l’una con l’altra (un terzo dei debiti è in mano ad altre banche), impedendo lo sviluppo di un sistema finanziario più moderno e concorrenziale.” Decisamente un bel problema.
In sostanza molti istituti continentali potrebbero continuare a non concedere credito e a ridepositare la liquidità presso la Bce. Qe o non Qe.
“Con un’inflazione sotto zero anche un tasso negativo può essere accettabile rispetto a impieghi rischiosi a famiglie e imprese in difficoltà , penalizzati dal nuovo sistema di vigilanza molto stringente”, continua Bastasin.
In fondo Mario Draghi lo ha detto chiaramente la scorsa estate, a Jackson Hole (e lo ha ripetuto oggi): la politica monetaria non può fare tutto.
Ha bisogno almeno del sostegno della politica fiscale, di riforme e di bilanci pubblici risanati per tagliare le tasse e aumentare la competitività dei paesi europei.
E qui si arriva a bomba alla quarta difficoltà e alle continue divisioni dell’Europa, incapace di partorire qualcosa di più ambizioso del mediocre Piano Juncker e di una flessibilità sui conti concessa col contagocce e di malavoglia da Berlino.
Per questo la modalità con cui viene erogato il Qe diventa la cartina al tornasole di un continente in mezzo al guado dove il segnale politico è più importante dei tecnicismi di Francoforte e, se possibile, va oltre gli effetti contingenti dell’espansione monetaria.
Per intendersi: dietro il varo del Qe, certamente più capiente di quel che si immaginava (e questo è un gran merito di Draghi), non c’è il battesimo di un’autentica unione monetaria dove si mutualizzano i rischi.
La mediazione con la Bundesbank ha permesso al presidente della Bce una condivisione solo al 20% degli acquisti di titoli di stato, per il resto i rischi restano in capo alle banche centrali nazionali.
Se l’Italia dovesse fallire, ci sarebbe solo in parte l’intervento pro quota di tutte le banche centrali (e di tutti i contribuenti europei), il massimo del rischio resterà in capo a Bankitalia e ai cittadini italiani.
Il che non è propriamente un passo avanti nella costruzione europea, anzi rischia di cristallizzare l’attuale frammentazione finanziaria.
C’è una corrente dominante, in Germania (che Merkel deve assecondare magari non approvandola in toto), convinta che Mario Draghi sotto sotto faccia il doppio gioco a vantaggio dell’Italia, convinta che dargliela vinta senza mediazioni sull’espansione monetaria allenterebbe la tensione alle riforme dei paesi periferici e convinta che la Bce non debba seguire la strada della Fed perchè negli Usa esiste uno Stato centrale che emette titoli sovrani che sono molto sicuri, in Europa no.
Draghi oggi esce vincitore dalla battaglia sul Qe. Ma la guerra è solo cominciata.
Al fondo di tutto è questa la vera posta in palio del Qe.
Cominciare a superare la crisi con più integrazione oppure restare un’unione monetaria a macchia di leopardo, esposta senza troppa credibilità ai venti della stagnazione e dei mercati finanziari?
Ed è uno scontro eminentemente politico prima che economico, tra chi pensa sia sbagliato separare la moneta dal progetto europeista e chi, invece, non vuol mollare l’osso e coltiva l’idea di un continente a propria immagine e somiglianza senza condividere onori e oneri, con una moneta a metà , una politica à la carte e ricette economiche frammentate.
Quanto all’Italia, da noi il bancocentrismo se possibile è ancora più forte che nel resto d’Europa. Dal sostegno al debito pubblico all’85% dei soldi che arrivano nelle imprese e nelle case degli italiani, tutto passa dalle banche.
L’intreccio è così forte che la debolezza del sistema del credito (180 miliardi di sofferenze bancarie in pancia figlie della lunga recessione) pesa sull’intero paese e viceversa, come si è visto con gli stress test autunnali.
Per cui se immaginiamo il Qe di Draghi come un modo per far arrivare credito facile all’economia reale, ci facciamo pie illusioni.
“Se la tua azienda non ha i requisiti, i soldi non te li presto anche se ne ho tanti a basso costo. Li tengo parcheggiati a Francoforte piuttosto che portarmi in casa un credito deteriorato che mi costa tantissimo”, taglia corto un importante banchiere italiano, mettendo il dito nella piaga di un panorama di piccole imprese mediamente sotto capitalizzate e sovra indebitate.
Se invece assumiamo realisticamente il Qe al pari di una vitamina nel sangue di un sistema depresso, che invoglia un po’ i consumi del ceto medio, sgrava le banche dall’overdose di titoli di stato e permette di comprare del tempo per fare le benedette riforme, allora potrebbe servire davvero e Draghi entrerà a pieno titolo nei libri di storia.
Oggi è la fiducia la moneta più urgente.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 22nd, 2015 Riccardo Fucile
COINVOLTI ANCHE GLI ALTRI DUE CONSIGLIERI REGIONALI DELLA LEGA… RIXI E’ CANDIDATO GOVERNATORE DEL CARROCCIO ALLE PROSSIME REGIONALI IN LIGURIA
L’inchiesta sulle spese pazze al Consiglio regionale della Liguria coinvolge anche la Lega Nord.
La Guardia di Finanza ha denunciato Edoardo Rixi, candidato alla presidenza della Regione, e vice del segretario nazionale Matteo Salvini, e, con lui, altri due consiglieri regionali, Francesco Bruzzone e Maurizio Torterolo.
Sono accusati di peculato e falso per le spese sostenute con i fondi del gruppo consiliare tra il 2010 e il 2012.
Contestati viaggi a Courmayer
Anomalie sarebbero state riscontrate nella rendicontazione di cene e pranzi, viaggi avvenuti nei fine settimana e spese di parcheggio.
Tra le spese contestate, numerosi viaggi fatti in località turistiche e non istituzionali: da Courmayer a Limone Piemonte, a Venezia, Pisa e Aosta.
I viaggi rimborsati sarebbero stati fatti quasi tutti nei fine settimana o durante le feste, soprattutto a Pasqua.
Un consigliere si sarebbe fatto rimborsare anche una notte passata in un motel a Broni, in provincia di Pavia.
Rimborsato un cenone di Capodanno
Tra gli scontrini sono finite anche spese di ristorazione: ostriche consumate a Nizza, menù bambini e anche un cenone di Capodanno.
Oltre a vari pranzi e cene nei giorni festivi come Primo Maggio, 25 Aprile, Ferragosto e Pasqua e Pasquetta.
Tra le altre spese contestate anche l’acquisto di strenne natalizie, libri, agendine, bottiglie di spumante e grappe.
Le somme vanno da poche centinaia di euro fino a oltre 10mila euro.
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 22nd, 2015 Riccardo Fucile
VIAGGIO TRA I GRANDI ELETTORI CHE SCEGLIERANNO IL PRESIDENTE
Tra i grandi elettori che fra una settimana voteranno a scrutinio segreto per il nuovo Capo dello Stato, si
sta spontaneamente formando e rafforzando un “Fronte del No” al patto del Nazareno e al candidato-presidente del duo Renzi-Berlusconi, quasi a prescindere dal nome che verrà proposto.
Una prima, analitica ricerca condotta da “La Stampa” all’interno dei diversi gruppi parlamentari dimostra un dato eclatante: sulla carta Pd, Ncd, centristi e Forza Italia possono contare su 750 grandi elettori, dunque ben 250 oltre il quorum (505 voti), richiesto dalla quarta votazione in poi per eleggere il Capo dello Stato.
Ma quel numero vale solo sulla carta: le fratture interne al Pd e a Forza Italia e l’effetto-panico suscitato dall’accelerazione impressa da Matteo Renzi hanno drasticamente asciugato quel margine
Il Fronte del No
Ieri sera i grandi elettori che senza se e senza ma pronti ad allinearsi alle volontà di Renzi e di Berlusconi erano calcolabili in una fascia oscillante tra i 520 e i 540.
Circa duecento in meno di quelli computabili sulla carta, lasciando dunque un margine di poche decine di voti all’asse del Nazareno rispetto al quorum di 505. Certo, come ripetono sotto voce tanti parlamentari «molto dipenderà dal candidato». Certo, manca ancora una settimana e più alla votazione decisiva e in sette giorni un “mago” come Renzi è capace di cambiare quasi tutte le carte in tavola.
Ma ciò non toglie che, plasticamente parlando, il “Fronte del No” abbia preso una consistenza inattesa: sommando i “grandi elettori” dei partiti di opposizione (Cinque Stelle, Lega, Fratelli d’Italia,Gal, Sel) e i dissenzienti del Pd, di Forza Italia e dei centristi si arriva ad una quota (440-460) capace di condizionare l’elezione del Capo dello Stato.
E d’altra parte tutta la giornata di ieri è stata costellata di episodi poco favorevoli al “patto”: in mattinata nella votazione al Senato sul maxi-emendamento per la legge elettorale, la “maggioranza” Pd-Ncd-Forza Italia-centristi è restata abbondantemente sotto il quorum potenziale: i voti favorevoli sono stati 175, anzichè i 235 possibili.
Ma il test più inatteso si è consumato nel pomeriggio: nella Sala Berlinguer di Montecitorio si sono dati appuntamento i parlamentari del Pd appartenenti alle tre correnti di minoranza: si sono ritrovati in 140, un numero che ha sorpreso tutti.
Anche se la divisioni profondissima e le gelosie tra le varie aree non hanno prodotto una linea comune
La frana nel Pd
Dei 415 parlamentari (108 senatori e 307 deputati) del Pd si può calcolare che 280-300 voteranno con certezza i candidati-Presidente proposti da Renzi e Berlusconi. L’area del dissenso ieri sera era salita sino a quota 120-140, ma calcolando solamente i parlamentari “bersaniani”, “dalemiani” e l’area di confine guidata da Roberto Speranza.
Ma davanti ad un candidato sgradito o troppo appiattito sul premier e allo spettro di scioglimento anticipato delle Camere, come si comporteranno nel segreto dell’urna quel centinaio di parlamentari ex popolari vicini a Beppe Fioroni e Dario Franceschini?
Incognita centrista
In Parlamento le varie formazioni centriste (Ncd, Udc, Scelta civica, ex montiani, socialisti, Tabacci, autonomisti, Gal) esprimono una quantità davvero rilevante di grandi elettori, 200 per l’esattezza, assai più dei Cinque Stelle (137) o di Forza Italia (130) e proprio in questa area centrale, un primo calcolo segnala che almeno una ottantina di onorevoli sono pronti a votare contro un candidato-presidente del “patto” che sia “vissuto” come favorevole al disegno di sciogliere anticipatamente le Camere.
Fabio Martini
(da “La Stampa”)
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