DRAGHI SPARA FORTE MA HA 4 OSTACOLI SULLA TRAIETTORIA
COSA E’ I QUANTITATIVE EASING: I BENEFICI, L’ESPERIENZA DEL PASSATO E I FATTORI CHE POSSONO RENDERE INEFFICACE IL BAZOOKA DI DRAGHI
Come una profezia che si autoavvera, attesa praticamente da tutti, la Banca centrale europea (Bce) ha ufficializzato il Quantitative easing (Qe), l’acquisto di titoli di stato dei paesi membri dell’Unione per contrastare la spirale deflattiva che soffia da sud e portare l’inflazione vicina al target del 2%.
Una manovra che supera le previsioni del mercato che scommetteva su acquisti per 50 miliardi al mese per 22 mesi (1.100 miliardi di euro).
Invece la Bce rilancia con 60 miliardi di acquisti combinati (titoli pubblici e privati) per 19 mesi (il tetto è fissato al 25% degli acquisti a ogni emissione e 33% dei paesi emittenti), da marzo 2015 a settembre 2016 (per un totale di 1.140 miliardi), pronta a proseguire se ce ne fosse bisogno e l’inflazione non avesse raggiunto il target.
Lo ha annunciato il presidente Mario Draghi, protagonista di una vera svolta nella turbolenta storia dell’Eurozona che darà certamente serenità ai mercati allentando lo spread e respingendo la speculazione.
Anche se l’ex governatore di Bankitalia sulla partita decisiva della mutualizzazione dei rischi sui titoli sovrani ha dovuto mediare con i falchi della Bce, vincendo a metà . Per il resto, gli acquisti verranno ponderati sulla base della partecipazione che le rispettive banche centrali dei paesi membri hanno nel capitale della Bce (su un montante di 600 miliardi nel 2015 per l’Italia significa un piano di acquisti che si aggira sui 104 miliardi).
Con una postilla importante: il Consiglio direttivo è stato unanime nel riconoscere acquisto di bond come strumento di politica monetaria.
Riassunta la manovra (storica) di oggi, che ha fatto subito scattare il rally in Borsa, proviamo a capire che risultati hanno prodotto i Qe già messi in campo da altre grandi banche centrali, quali sono i rischi di un allentamento di questa portata, che effetti potrà produrre sulle economie dell’Eurozona (e sull’Italia) una iniezione così potente di liquidità e quali saranno, verosimilmente, le difficoltà di applicare il piano ad un continente peculiare come l’Europa.
Qe, il precedente di Usa e Giappone
Il ritardo con cui la Bce si sta muovendo per rianimare un’Eurozona in stagnazione e lacerata tra il blocco tedesco (Germania, Olanda e Lussemburgo) e i paesi periferici sulle priorità da dare a crescita e rigore, ha avuto almeno un pregio: Francoforte ha potuto verificare l’esperimento delle altre banche centrali (specie Federal Reserve e Banca del Giappone) che nel mezzo della crisi hanno avviato (e in parte concluso perchè le politiche non ortodosse non possono durare all’infinito altrimenti avremmo i prezzi di azioni e obbligazioni pilotati dalla mano pubblica) programmi di espansione monetaria con un triplice obiettivo, come ben riassunto dal direttore di Lettera economica, Giorgio Arfaras: “comprare e ‘schiacciare’ i rendimenti delle obbligazioni private per aiutare le famiglie, le banche e quindi le imprese; comprare e ‘schiacciare’ i rendimenti delle obbligazioni pubbliche per ridurre i costi delle politiche fiscali espansive; spingere la liquidità dei privati dalle obbligazioni verso il mercato azionario.”
Per i sostenitori la svolta “americana” della Bce rappresenta la miglior soluzione anti crisi.
Per una sorta di domino virtuoso, grazie al bazooka di Draghi, le banche aumenteranno i prestiti, l’economia crescerà e il mercato dei titoli sovrani si stabilizzerà togliendo agli investitori il maggiore fattore di incertezza sul futuro dell’area euro.
Nel frattempo l’aumento dei prezzi ridurrà il valore reale dei debiti accompagnando il deprezzamento della moneta unica.
Secondo alcuni studi citati dal Financial Times i programmi americani (ma anche giapponesi e inglesi) hanno avuto un qualche effetto nello stimolare la ripresa economica e dell’occupazione dopo la grande crisi evitando la trappola infernale della deflazione.
Nonostante la politica di bilancio sia dal 2011 neutrale o restrittiva.
Per un analista attento come Carlo Bastasin della Brookings Institution, “il fatto che i tassi di interesse a lungo termine siano stati sempre inferiori al tasso di crescita ha consentito agli Usa di ridurre i debiti di imprese e famiglie senza frenare investimenti e consumi.”
Anche in Giappone i chiaroscuri della Abenomics non hanno impedito allo yen di apprezzarsi e all’economia di Tokyo, dopo decenni di stagnazione, di tornare più attrattiva.
Ma proprio qui fa leva la malizia degli osservatori anti Qe, attenti a mostrare l’altra faccia della medaglia.
L’economia si è ripresa e i mercati finanziari sono risaliti perchè tornati in salute oppure perchè, semplicemente, il sistema è stato drogato dalla liquidità delle banche centrali?
“Forse non ci si è resi conto di cosa si è generato con la droga dei Quantitative easing: una massa monetaria impressionante che ha portato ad una incredibile bolla degli asset (e di Wall Street) senza che i soldi finissero nel circuito dell’economia reale” spiega Danilo Rambaudi, autore del blog economico-finanziario IntermarketAndMore.
Dall’inizio della crisi hanno generato liquidità per un importo superiore ai 10 trilioni di dollari. Una cifra mai vista in precedenza. “Una iniezione di monetadone”, come ironizza qualche banchiere. In ogni caso “una cura palliativa.”_
Di pari passo anche il debito pubblico complessivo è cresciuto in modo esponenziale.
Senza cedere a letture apocalittiche, il problema della sostenibilità dell’iper debito e della montagna di liquidità che tra poco inonderà l’Eurozona è reale e attraversa le discussioni dei cenacoli alla Davos.
Solo l’altro giorno un insospettabile come l’ex governatore della Banca d’Inghilterra, Mervyn King, parlando alla London School of Economics, ha invitato tutti alla prudenza evitando derive miracolistiche.
“Abbiamo avuto il più grande stimolo monetario che il mondo ricordi – ha spiegato King – ma non abbiamo ancora risolto il problema della debolezza della domanda…”
Il Qe e le divisioni politiche dell’Europa
L’automatismo secondo cui la Bce, comprando titoli di stato e altri asset sul mercato, spingerà al ribasso i tassi di interesse, inietterà liquidità nel sistema dell’economia reale, incoraggerà il credito a famiglie e imprese, stimolerà la crescita e ci allontanerà dal buco nero della deflazione, potrebbe suonare troppo ottimistico.
Nella pratica avviare un programma di espansione monetaria, specie nell’eurozona, presenta almeno quattro difficoltà .
Prima difficoltà .
L’Europa si muove tardi rispetto agli americani e soprattutto in ordine sparso, divorata com’è dagli interessi nazionali.
Già dopo il fallimento della Lehman Brothers, nell’autunno del 2008, Christine Lagarde, allora ministro delle Finanze francese, propose un intervento coordinato ispirato al Tarp americano, ma in quell’occasione ricevette un secco “no” da Angela Merkel, attenta a tenere al riparo i contribuenti tedeschi da eventuali corresponsabilizzazioni di rischi e debiti comunitari.
Seconda difficoltà .
La crisi e la disoccupazione hanno messo radici in Europa. Con inflazione negativa praticamente in tutti i paesi periferici, aziende e consumatori stanno posticipando spese e investimenti, il populismo è a livelli di guardia e i partiti istituzionali screditati come non succedeva da decenni. E domenica si vota in Grecia.
Se i buoi sono già scappati anche il Qe rischia di avere un impatto limitato, tanto più in una congiuntura in cui la banca centrale americana ha smesso di comprare titoli di stato e si parla apertamente di divorzio tra Bce e Federal Reserve.
Dilemma nel dilemma: quale sarà l’effetto sui cambi?
Terza difficoltà .
Un sistema bancocentrico è meno efficace nell’influenzare il prezzo delle attività a lungo termine.
In Europa l’80% del credito arriva dagli sportelli bancari, che conservano in pancia attività per 30 mila miliardi di euro (tre volte l’intero Pil dell’Eurozona) e gran parte dei 5mila miliardi di maggior debito pubblico emesso dagli stati da quando è scoppiata la grande crisi.
Come scrive Stefano Cingolani, “le banche europee hanno poco capitale, meno delle concorrenti americane e si tengono l’una con l’altra (un terzo dei debiti è in mano ad altre banche), impedendo lo sviluppo di un sistema finanziario più moderno e concorrenziale.” Decisamente un bel problema.
In sostanza molti istituti continentali potrebbero continuare a non concedere credito e a ridepositare la liquidità presso la Bce. Qe o non Qe.
“Con un’inflazione sotto zero anche un tasso negativo può essere accettabile rispetto a impieghi rischiosi a famiglie e imprese in difficoltà , penalizzati dal nuovo sistema di vigilanza molto stringente”, continua Bastasin.
In fondo Mario Draghi lo ha detto chiaramente la scorsa estate, a Jackson Hole (e lo ha ripetuto oggi): la politica monetaria non può fare tutto.
Ha bisogno almeno del sostegno della politica fiscale, di riforme e di bilanci pubblici risanati per tagliare le tasse e aumentare la competitività dei paesi europei.
E qui si arriva a bomba alla quarta difficoltà e alle continue divisioni dell’Europa, incapace di partorire qualcosa di più ambizioso del mediocre Piano Juncker e di una flessibilità sui conti concessa col contagocce e di malavoglia da Berlino.
Per questo la modalità con cui viene erogato il Qe diventa la cartina al tornasole di un continente in mezzo al guado dove il segnale politico è più importante dei tecnicismi di Francoforte e, se possibile, va oltre gli effetti contingenti dell’espansione monetaria.
Per intendersi: dietro il varo del Qe, certamente più capiente di quel che si immaginava (e questo è un gran merito di Draghi), non c’è il battesimo di un’autentica unione monetaria dove si mutualizzano i rischi.
La mediazione con la Bundesbank ha permesso al presidente della Bce una condivisione solo al 20% degli acquisti di titoli di stato, per il resto i rischi restano in capo alle banche centrali nazionali.
Se l’Italia dovesse fallire, ci sarebbe solo in parte l’intervento pro quota di tutte le banche centrali (e di tutti i contribuenti europei), il massimo del rischio resterà in capo a Bankitalia e ai cittadini italiani.
Il che non è propriamente un passo avanti nella costruzione europea, anzi rischia di cristallizzare l’attuale frammentazione finanziaria.
C’è una corrente dominante, in Germania (che Merkel deve assecondare magari non approvandola in toto), convinta che Mario Draghi sotto sotto faccia il doppio gioco a vantaggio dell’Italia, convinta che dargliela vinta senza mediazioni sull’espansione monetaria allenterebbe la tensione alle riforme dei paesi periferici e convinta che la Bce non debba seguire la strada della Fed perchè negli Usa esiste uno Stato centrale che emette titoli sovrani che sono molto sicuri, in Europa no.
Draghi oggi esce vincitore dalla battaglia sul Qe. Ma la guerra è solo cominciata.
Al fondo di tutto è questa la vera posta in palio del Qe.
Cominciare a superare la crisi con più integrazione oppure restare un’unione monetaria a macchia di leopardo, esposta senza troppa credibilità ai venti della stagnazione e dei mercati finanziari?
Ed è uno scontro eminentemente politico prima che economico, tra chi pensa sia sbagliato separare la moneta dal progetto europeista e chi, invece, non vuol mollare l’osso e coltiva l’idea di un continente a propria immagine e somiglianza senza condividere onori e oneri, con una moneta a metà , una politica à la carte e ricette economiche frammentate.
Quanto all’Italia, da noi il bancocentrismo se possibile è ancora più forte che nel resto d’Europa. Dal sostegno al debito pubblico all’85% dei soldi che arrivano nelle imprese e nelle case degli italiani, tutto passa dalle banche.
L’intreccio è così forte che la debolezza del sistema del credito (180 miliardi di sofferenze bancarie in pancia figlie della lunga recessione) pesa sull’intero paese e viceversa, come si è visto con gli stress test autunnali.
Per cui se immaginiamo il Qe di Draghi come un modo per far arrivare credito facile all’economia reale, ci facciamo pie illusioni.
“Se la tua azienda non ha i requisiti, i soldi non te li presto anche se ne ho tanti a basso costo. Li tengo parcheggiati a Francoforte piuttosto che portarmi in casa un credito deteriorato che mi costa tantissimo”, taglia corto un importante banchiere italiano, mettendo il dito nella piaga di un panorama di piccole imprese mediamente sotto capitalizzate e sovra indebitate.
Se invece assumiamo realisticamente il Qe al pari di una vitamina nel sangue di un sistema depresso, che invoglia un po’ i consumi del ceto medio, sgrava le banche dall’overdose di titoli di stato e permette di comprare del tempo per fare le benedette riforme, allora potrebbe servire davvero e Draghi entrerà a pieno titolo nei libri di storia.
Oggi è la fiducia la moneta più urgente.
(da “Huffingtonpost”)
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