Marzo 22nd, 2015 Riccardo Fucile
L’UMP DI SARKO’ OLTRE IL 30%, LIMITANO I DANNI I SOCIALISTI AL 25%, POCO SOTTO LA DELUSIONE LE PEN
Tutti aspettavano il FN ma vince Sarkozy. 
Va in scena in Francia il grande ritorno di Nicolas: l’ex presidente vince – secondo alcuni exit poll stravince – le amministrative in cui era attesa l’affermazione del Front National di Marine Le Pen come primo partito a livello nazionale.
L’estrema destra non va oltre il 25% raggiunto alle scorse europee e il partito socialista di Hollande perde posizioni ma non crolla.
La leader del Front National aveva puntato a finire in testa ed era data al 30% nei sondaggi pre-elettorali, conquista posti nei consigli di dipartimento, ma sembra aver perso la spinta propulsiva.
Merito del grande ritorno di Sarkoxy che riporta l’Ump dal 20% delle scorse europee a oltre il 30%.
Dal lato dei vincitori indiscussi di questo primo turno, l’UMP, che in base ai sondaggi si situa fra il 33 e il 38%, l’elettorato ha premiato la scelta di Sarkozy di allearsi con il centro UDI.
Sarkozy ha confermato che l’UMP non parteciperà al “Fronte repubblicano” (le alleanze con il PS in funzione anti-Le Pen) ma che con il Front National “non ci saranno accordi nè locali nè nazionali”.
Il Partito socialista viene staccato di diversi punti dall’UMP ed è allo sprint per il secondo posto – attorno al 25-27% – con il Front National.
Non c’è stato il crollo sotto il 20% – come ipotizzavano i sondaggi .
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Marzo 22nd, 2015 Riccardo Fucile
CAPORALATO ALLE PRIMARIE: EBOLI E’ GIA’ UN CASO
La Procura Distrettuale Antimafia di Salerno, dopo due anni di indagini da parte del Ros, ha smantellato venerdì una organizzazione di rumeni e italiani che nella piana di Eboli è accusata di aver ridotto in schiavitù decine di braccianti agricoli provenienti dall’Est Europa.
Questi braccianti resi servi nelle campagne campane, alle primarie del Pd hanno votato Matteo Renzi (l’8 dicembre 2013, nella sfida con Gianni Cuperlo e Pippo Civati) e Assunta Tartaglione (a quelle più recenti del febbraio 2014 che mettevano in palio la segreteria regionale del partito)
Dopo le tante denunce arrivate in diverse competizioni ai gazebo democratici (da Napoli a Genova), è questo il primo caso documentato da un tribunale di caporalato elettorale (con tanto di furgoni che accompagnano i neoelettori del Pd ai seggi elettorali).
Senza scomodare Primo Levi, la litoranea di Eboli è del resto da sempre una terra di mezzo.
Attaccata a una campagna, quella della piana del Sele tenuta a ortaggi e frutta, non ha mai avuto una vocazione turistica nonostante i molti camping che ne tagliano la via al mare e il vicino parco archeologico di Paestum.
E proprio un campeggio, il “Miceli” è il buco nero da cui, anni fa, riuscirono a fuggire Katilin, Nicoleta, Mariana e Florica.
Le quattro donne tornarono in Romania e raccontarono l’orrore di quel camping in cui erano costrette a dimorare: senza acqua calda nè luce elettrica, stipate nella stessa stanza che a volte non aveva nemmeno i vetri alle finestre.
Dormivano su materassi sudici, con un unico bagno e un’unica cucina per tutti.
La storia è quella comune ai tanti immigrati arrivati in Italia e finiti nella trappola dello sfruttamento.
Loro erano approdate qui con il miraggio di un lavoro dignitoso. Come è prassi avevano tolto loro i documenti, e chiesto soldi per il viaggio, per il fitto nel camping lager, per il rilascio dei documenti e anche per il trasporto quotidiano ai campi dove venivano vendute per due lire che spesso nemmeno vedevano. Poi, certo, c’era anche la politica
È qui che entra in scena Giuseppe Mazzini, 67 anni, all’epoca capo area del settore demografico del Comune di Eboli, oggi ai domiciliari, che aveva ambizione di divenire consigliere comunale.
Mazzini per la banda ha un ruolo centrale: dal suo ufficio all’Anagrafe municipale può agevolare (e falsificare) le pratiche per il rilascio di documenti.
Quelle che, per i rumeni comunitari, equivalgono a una carta di identità . Lui lo fa ricevendo in cambio cassette di frutta e, soprattutto, voti.
Nell’ordinanza firmata dal Gip Stefano Berni Canani, si racconta di come il funzionario si fosse recato da Liviu Bldijar, considerato a capo dell’associazione, il 6 dicembre, due giorni prima delle primarie che elessero Renzi alla guida dei Democratici portandogli il fac-simile di “San Matteo” e augurandosi di riuscire a portare sessanta voti alla causa. Chiariva pure che ai 2 euro necessari per esprimere la preferenza avrebbe provveduto lui. La macchina non pareva funzionare granchè al mattino: Mazzini chiama Boldijar per sgridarlo dei soli 13 voti rumeni che era riuscito a portare al seggio di Santa Cecilia. Boldijar doveva aver preso la cosa maledettamente sul serio se nel pomeriggio dell’8 dicembre Mazzini dovette chiamarlo per chiedergli di “interrompere il flusso dei votanti”, “non prima — si legge nell’ordinanza — di averlo esortato ad appuntarsi i nominativi di coloro che aveva convogliato verso il voto, poichè essi avrebbero costituito un utile serbatoio di elettori per le successive elezioni”.
A quelle primarie, del resto, nella città di Eboli Renzi prese 1.717 voti, contro i 914 di Gianni Cuperlo e i 77 di Pippo Civati.
Anche il 17 febbraio del 2014 i caporali, invece di portare i romeni nei campi, li portano ai gazebo del Pd, in primis in quello di Santa Cecilia di Eboli (definito il seggio “dove votano questi qua”).
Nel pomeriggio Mazzini chiama il sindaco di Eboli Martino Melchionda facendogli notare “di aver decisamente contribuito alla votazione della candidata di riferimento del sindaco, Assunta Tartaglione, convogliando verso di lei” 400 voti complessivamente.
I voti di Mazzini non basteranno se la “renziana” Tartaglione (eletta al livello regionale con il 58,5% dei consensi) a Eboli prese 1.200 voti, contro i 1.400 dello sfidante Guglielmo Vaccaro, appoggiato in zona dall’ancora potente ex ministro alle Aree Urbane del governo Craxi, il socialista Carmelo Conte.
Eduardo Di Blasi
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 22nd, 2015 Riccardo Fucile
DOPO 14 ANNI DALLA LEGGE OBIETTIVO SOLO L’8% DELLE OPERE E’ STATO REALIZZATO…DI QUESTO PASSO SERVIRANNO 180 ANNI PER COMPLETARLE…. C’E’ UNA CATEGORIA CHE NON SUBISCE RALLENTAMENTI: CAMERA, SENATO, PALAZZO CHIGI E QURINALE
Non si sa esattamente dove sia la strozzatura, se a livello dei vertici del Ministero delle Infrastrutture che
per decenni avrebbero condizionato le Grandi Opere aumentandone i costi e allungandone i tempi, come racconta l’inchiesta della Procura di Firenze.
Oppure se sia da ascrivere all’italica bulimia per gli annunci che regolarmente restano nel libro dei sogni.
Quel che appare chiaro, però, è che quando servono all’Italia vanno a passo di lumaca, se sono destinate alla politica invece vanno a razzo e i fondi non mancano mai. E dunque no, la Legge obiettivo — il libro mastro delle Grandi opere — non si è dimostrata obiettiva.
Parliamo ancora di opere pubbliche. Lo spunto arriva dall’ultimo rapporto sullo stato di attuazione delle 315 progetti previsti dalla legge n. 443 del 2001.
Lo studio è stato presentato pochi giorni fa alle Camere e ha coinvolto l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici e l’Anticorruzione.
Sotto la lente sono finiti quasi 2mila interventi, dalla linea ferroviaria di Trieste alla Sassari-Olbia alla sistemazione dei fondali del porto di Ravenna.
Il Sole24Ore ha sintetizzato così lo stato dell’arte: “Dopo 15 anni solo l’8% delle opere è concluso”, spiegando che dei 285 miliardi impegnati per le Grandi Opere ne sono stati spesi appena 23.
E parliamo di strade, valichi, passanti, porti. Insomma le infrastrutture che dovrebbero servire tutti gli italiani e invece restano al palo, con buona pace dei discorsi sullo sviluppo, la competitività e la crescita.
Di questo passo, a spanne, potrebbero servire 180-190 anni per completarle tutte e per questo il ministro Maurizio Lupi ha proposto di ridurle a 60 “grandi opere”.
C’è però una categoria di interventi che non rischia nulla. A scorrere il rapporto si arriva infatti a un pacchetto di “opere strategiche” che stanno sempre nel perimetro della Legge Obiettivo ma per le quali si assiste a un vero miracolo nazionale: tutti i lavori programmati sono partiti, oltre la metà sono già arrivati a destinazione.
E di che si tratta? Dei palazzi della politica, dei ministeri e del governo.
In tutto 24 interventi del valore di 350 milioni di euro.
A scorrere l’elenco si direbbe che è un pezzo di Casta che si rifà bagno e salotto: si va dal restyling delle “aulette parlamentari” alla riqualificazione della sala benessere e alla ristrutturazione dei bagni per le scorte del Viminale.
Dalla biblioteca di Palazzo Chigi, alla sala ristoro per autisti del governo.
Cosa avremmo potuto finanziare?
La cifra di per sè dice poco e tuttavia avrebbe consentito di sbloccare o terminare opere di pubblica utilità inserite nella Legge Obiettivo e attese da decenni.
Gli esempi si sprecano. I 350 milioni di cui sopra sono i fondi che mancano per realizzare la metro che collega l’Aeroporto Fontanarossa al centro di Catania. Il progetto definitivo esiste dal marzo 2006 con 6,9 km e 8 stazioni. Ma dei 430 milioni necessari per realizzarla sono a disposizione solo 90 milioni di euro.
Si potevano usare in Veneto per il potenziamento del sistema ferroviario tra Treviso, Padova, Castelfranco Veneto, una delle tratte pendolari dove si viaggia come sardine: il progetto da 314 milioni doveva essere completato anni fa ma l’unica linea in fase di realizzazione è la Venezia-Mira e solo per la parte delle stazioni.
A Genova era poi previsto il prolungamento verso Ovest, da Brin a Canepari, dell’unica linea metropolitana. Costo, 269 milioni. L’opera non si fa, mancano i fondi. E così via.
A questo punto è bene sapere dove sono andati quei soldi. A beneficiarne è stato il pubblico minore e molto selezionato dei parlamentari, degli inquilini di Palazzo Chigi, delle istituzioni e dei ministeri della Repubblica.
Il programma è siglato come “scheda n. 180“.
Il titolo per esteso è: “Opere strategiche finalizzate ad assicurare l’efficienza di complessi immobiliari sedi di istituzioni e di opere la cui rilevanza culturale trascende i confini nazionali” disciplinate dall’art. 4 comma 151 Legge 350/2003 (Finanziaria 2004).
Di queste opere non è stato completato l’8% come per le autostrade, i passanti, le reti ferroviarie che servono ai comuni mortali, bensì il 50%.
Proprio così, una su due è già conclusa, una sola risulta cancellata, il resto è tutto avviato. Le coperture — evidentemente — non mancano mai. E i lavori procedono a razzo. La Legge Obiettivo, in questi casi, è un treno che non fa fermate e non ha ritardi.
Il lifting del potere che costa 350 milioni
Nel 2003 si è aperto il cantiere per il consolidamento, la ridistribuzione interna e il restauro del complesso di S.Maria di Aquiro in Piazza Capranica, una superficie di 4.200 metri quadri su più vani destinati ad uso “uffici del Senato”.
I lavori si sono conclusi nel 2013, con un solo anno di ritardo sulla tabella di marcia. Il costo definitivo è stato di 26,3 milioni di euro rispetto ai 17 preventivati.
Si sono poi conclusi da otto anni quelli per l’ex Ministero delle Comunicazioni, oggi a disposizione della Presidenza del Consiglio. Dovevano costare 15 milioni di euro, a fronte di due varianti ne costerà 23.
Sono ancora in corso, ma a buon punto, i lavori per la manutenzione ordinaria, la bonifica e l’adeguamento degli impianti del seminterrato e dei piani di Palazzo Chigi: 25 milioni di euro. Solo uno stop nel 2009 perchè i “locali erano occupati”. Ma si va avanti.
Passiamo al Parlamento.
Nel 2008 partono i lavori per il restyling delle “aulette parlamentari” in via Campo Marzio.
Un “regalo” che la Camera si concede per i 150 anni dell’unità d’Italia, a carico dei contribuenti di 16,4 milioni di euro. I lavori procedono spediti.
Tre anni dopo gli onorevoli possono già accomodarsi e ammirare il soffitto a vetrata.
La nuova aula, inaugurata il 16 giugno 2011, sarà un gioiello di tecnologia con 286 postazioni attrezzate con i più avanzati impianti per il voto, una sala regia per le riprese, postazioni per interpreti e traduttori.
Al Quirinale è stato rifatto l’impianto elettrico, i sistemi di telegestione e varie opere di consolidamento per 13 milioni di euro. Un paio d’anni di ritardo, costi lievitati, ma è tutto finito.
Per chi volesse continuare (a farsi del male), ecco gli altri lavori destinati ai templi della politica e portati a termine nei tempi stabiliti dalle delibere Cipe, sempre a valere sui finanziamenti della legge 443/2001
Niente gara e appalti secretati. La corsia è preferenziale
A questo punto tocca anche capire il segreto di questa Italia che corre come un treno mentre il potenziamento della linea Fs Rho-Gallarate procede a 1,3 km l’anno.
Dal 2002 la linea attende un terzo binario lungo 25 km che vedrà la luce (forse) nel 2020. La differenza è nel motore.
Per le opere che la interessano, la politica mette la benzina: approva i fondi pubblici necessari e si premura anche di scrivere le norme che assicurano la corsia preferenziale. Per dirne una: gli appalti per l’esecuzione di lavori nei palazzi sede di “istituzioni della Repubblica” sono affidati direttamente, a chiamata e con procedura negoziale ristretta. Non c’è gara pubblica, non c’è oggetto di contenzioso e dunque sospensiva o ritardo.
Se la variante impone costi maggiorati la tesoreria non fa storie.
A garanzia di tutto questo, gli onorevoli hanno anche introdotto (e votato) una speciale corsia preferenziale nel Codice dei contratti pubblici a tutela di ragioni di “sicurezza e riservatezza nazionale” (nel 1995, nel 2003 e nel 2006).
Non a caso molti degli appalti e contratti attivati sono secretati. Certo, ci si aspetta che siano regolati e vigilati gli accessi e i progetti che investono il cuore stesso delle istituzioni nazionali.
Ma non che garantiscano l’alta velocità ad alcuni, lasciando a piedi gli altri.
Thomas Mackinson
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 22nd, 2015 Riccardo Fucile
“HO SEMPRE DETTO CHE AVREI FATTO UN SOLO MANDATO”
ll sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, ha annunciato che non si ricandiderà per la carica di primo cittadino alle elezioni comunali del 2016.
“Non sarò candidato sindaco nel 2016”, ha detto in una conferenza stampa convocata ad horas a Palazzo Marino. “Non è una scelta fatta per stanchezza – dice – ma per coerenza”.
“Fin dalla campagna elettorale – spiega Pisapia – ho sempre detto che avrei fatto un solo mandato, anche perchè volevo che” a Milano crescesse “una classe dirigente di sinistra capace di governare la città “.
Il sindaco aggiunge: “La politica deve essere un mettersi al servizio, mettersi a disposizione”.
Il sindaco spiega di non avere “mai parlato con nessuno a livello nazionale” della scelta di non ricandidarsi per le amministrative del 2016. “Non ho mai ricevuto pressioni dai partiti”, aggiunge ribadendo che la sua è stata una scelta “in assoluta autonomia”. “L’importante è che prosegua questa nuova pratica politica”.
Nell’annunciare che non si ricandiderà a sindaco nel 2016, Pisapia sottolinea come, durante questo mandato, sia stato “importante dare responsabilità ai più giovani”.
“Non mi piace – afferma il primo cittadino – la parola rottamare ma sono orgoglioso di avere aperto una strada anche a livello nazionale”.
Il sindaco continua: “Non sono mai stato attaccato a un posto o a un ruolo e ho sempre creduto che nessuno è indispensabile”.
Ricordando che alle prossime elezioni comunali manca un anno e due mesi, Pisapia assicura il suo massimo impegno fino all’ultimo giorno.
“Garantisco il mio massimo impegno, ancor più di oggi, per la città ed Expo”, dice. “Voglio continuare a essere il sindaco di tutti i milanesi fino all’ultimo giorno.
Il mio fine è e resta il bene di Milano -aggiunge – e son sicuro che fra un anno potrò essere ancora più orgoglioso del lavoro fatto”.
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Marzo 22nd, 2015 Riccardo Fucile
IL CORAGGIO DI PRADNYA: “LE DONNE NON DEVONO RESTARE IN SILENZIO”
Solo 20 anni, ma un coraggio da leone. 
Pradnya Mandhare, una studentessa indiana, è stata aggredita mentre tornava a casa dalle lezioni. Un uomo le si è avvicinato alla fermata del treno, ha tentato di molestarla.
Lei, dapprima ha provato a spostarsi, ma presa per un braccio dal molestatore, non ha esitato ad afferrargli i capelli, trascinandolo dalla polizia.
L’episodio è avvenuto sotto gli occhi indifferenti di oltre 50 persone. Pradnya non riusciva a credere che nessuno di loro tentasse di intervenire.
Allora ci ha pensato da sè a difendersi dal malintenzionato e ora è diventata un’eroina, in un Paese che combatte quotidianamente contro la violenza sulle donne.
“Quando quest’uomo ha provato a toccarmi, ho tentato di scansarmi. Lui mi ha afferrato per un braccio. Mi sono come immobilizzata per qualche secondo, poi però ho iniziato a colpirlo”, ha raccontato ai giornali locali.
“Se ne stavano lì in piedi a guardarmi, ma nessuno mi ha dato una mano, così l’ho colpito con la mia borsa. Puzzava ed era sporco, non volevo toccarlo. Per questo l’ho preso per i capelli, non volevo la facesse franca, volevo che fosse punito”
L’ha trascinato dalla polizia e nonostante l’uomo le chiedesse di lasciarlo andare, che sarebbe andato spontaneamente dagli agenti, Pradnya non ha mollato la presa: “Non mi sono fidata. Io non mi vedo come un’eroina”, ha detto, “ma penso anche che noi donne dovremmo prendere posizione e far sì che gli uomini sappiano che non possono semplicemente fare quello che vogliono e trattarci come oggetti da utilizzare quando ne hanno voglia”.
L’uomo – Chevan Chowdee, 25 anni – è stato arrestato, e aspetta il processo.
E ora Pradnya lancia un appello: “Nessuno dovrebbe avere paura di denunciare i propri aggressori”, dice. “Le donne non devono restare in silenzio. Molte pensano che andare alla polizia in questi casi sia un disonore. Io penso invece che sia necessario alzare la voce per dare a questa gente una lezione”.
(da “Huffingtonpost“)
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Marzo 22nd, 2015 Riccardo Fucile
CAMBI RENDEREBBERO OBBLIGATO UN NUOVO PASSAGGIO ALLE CAMERE… COSàŒ IL PREMIER PREFERISCE DIFENDERE LO STATUS QUO
L’asticella è fissata sul numero 2, al massimo può arrivare a 3.
Niente più cambi per il governo. Altrimenti, è il messaggio chiaro del Quirinale, “sarebbe un Renzi-bis”.
E, come ogni nuovo esecutivo, avrebbe bisogno della fiducia del Parlamento.
Così, il presidente del Consiglio si appresta a salire al Colle, domani, con lo stretto indispensabile per riempire il buco lasciato dalle dimissioni di Maurizio Lupi.
Per i sottosegretari indagati e per rispondere alle critiche di chi lo accusa di “due pesi e due misure” ci sarà un tempo che, stando ai pronostici, potrebbe non arrivare mai.
A quarantotto ore dal primo vero guaio per il governo Renzi, il premier ha dovuto ammettere prima di tutto a se stesso che gli conviene volare piuttosto basso.
E che non può rischiare passaggi alle Camere da cui non è detto che uscirebbe indenne.
Così, le veline che lo descrivevano in profonda riflessione sull’ipotesi di cacciare da palazzo Chigi chiunque avesse questioni aperte con la giustizia, al momento sono già diventate carta straccia.
Da una parte tutti i sottosegretari attenzionati (la Barracciu, Del Basso De Caro, Castiglione, De Filippo, Faraone) hanno, in vario modo, proclamato la loro estraneità ai fatti o, in altri casi, rivendicato che Renzi se li era presi già così.
Dall’altra, dal partito democratico è arrivata la difesa d’ufficio: “Lupi si è dimesso per opportunità politica — ha detto il capogruppo alla Camera Roberto Speranza — Noi restiamo garantisti fino al terzo grado di giudizio”.
La vera per il premier — che domani prenderà l’interim del ministero delle Infrastrutture per poi cederlo, forse addirittura dopo le Regionali e l’inaugurazione di Expo, a un fedelissimo come Graziano Delrio — sono i tumulti dell’Ncd.
Il partitino di Angelino Alfano, in un clima da fratelli coltelli come quello che si è visto ieri all’assemblea delle minoranze Pd, resta l’ago della bilancia.
Ma se finora la vulgata consentiva a Renzi di non preoccuparsi, perchè tanto gli Ncd non si sarebbero mai schiodati dalla poltrona, dopo il caso Lupi perfino lì, nei limiti del possibile, le acque si sono agitate.
Ieri, Nunzia De Girolamo, capogruppo alla Camera e “leader” dei guerrafondai, ha chiesto un congresso straordinario.
Slogan: “Basta essere subalterni nei confronti di un premier che ha una arroganza insopportabile”.
Per la verità , il segretario Alfano è su tutt’altra linea: “Lasciare ora il governo sarebbe da pazzi”. Lui ha trovato il vero colpevole di tutta questa storia: i giornali.
“Se un problema riguarda il Pd — ha detto — la chiudono in 24 ore. Si ricordano di essere liberi solo quando attaccano noi”.
Il Pd, comunque, si ricorderà di loro. Il posto al governo per Gaetano Quagliariello è già pronto. Andrà agli Affari Regionali, anche se è ancora tutta da giocare la partita sulla delega ai fondi europei, ovvero la cassa di un ministero altrimenti solo di facciata.
Ora la gestisce Delrio, Quagliariello la considera indispensabile per accettare l’incarico.
Si vedrà domani, da Mattarella.
L’importante è non cambiare troppo.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 22nd, 2015 Riccardo Fucile
INFRASTRUTTURE: PERCHE’ NON SONO ADATTI CANTONE E GRATTERI
L’altra sera a Servizio Pubblico quel farfallone di Testa di Chicco faceva lo spiritoso: “Ora Renzi
metterà Cantone al posto di Lupi, così anche Travaglio sarà contento”. Non so se sia vera l’intenzione che alcuni giornali attribuiscono al premier di nominare ministro delle Infrastrutture un magistrato a scelta fra Raffaele Cantone, attuale capo dell’Autorità Anticorruzione, e Nicola Gratteri, procuratore aggiunto antimafia a Reggio Calabria.
Se lo fosse, personalmente, penso che non sarebbe una buona idea.
Cantone e Gratteri sono due ottimi magistrati e due persone specchiate. Conoscendo la macchina giudiziaria, sarebbero perfetti come ministri della Giustizia per disincepparla e farla finalmente funzionare.
Renzi aveva avuto il merito di proporre Gratteri come Guardasigilli, ma poi — dinanzi all’indecente diniego di Napolitano — aveva subito battuto in ritirata, facendosi imporre Orlando, brava persona per carità , ma assolutamente inadeguato al ruolo.
Le Infrastrutture cioè i Lavori Pubblici e i Trasporti— sono tutt’altra materia : necessitano di scelte politiche radicali, possibilmente in controtendenza con quelle che ammorbano l’Italia da trent’anni indipendentemente dal colore dei governi, dominate dal partito delle grandi opere, cioè delle mazzette e delle mafie.
È inutile girarci intorno: a parte poche eccezioni di lavori utili, la corruzione non è mai stata la conseguenza di quei progetti miliardari, ma la causa, anzi il movente.
Si sono inventate opere faraoniche quanto inutili (o si è perseverato con quelle che erano utili quando furono concepite, negli anni 80, prima che il mondo cambiasse) pur di far girare fiumi di soldi pubblici e ingrassare clientele, cosche, partiti, burocrati e amici degli amici.
Se Renzi vuole finalmente dare un senso e un seguito allo slogan della rottamazione — finora usato solo come esca per elettori gonzi e come minaccia per gli avversari interni — deve azzerare tutto e ripartire da ciò che serve all’Italia di oggi e di domani: molte piccole e medie opere leggere di manutenzione, riassetto, bonifica e abbellimento, e poche grandi opere pesanti compatibili con l’ambiente e con le nuove esigenze di lavoro e di spostamento degli italiani e dei turisti.
Per farlo, occorrono politici che si assumano la responsabilità delle proprie scelte dinanzi al Parlamento e agli elettori.
La partenza di Lupi regala a Renzi una splendida occasione per fare un po’ di pulizia, cacciando gli inquisiti (i sottosegretari Barracciu, De Filippo, Castiglione e Faraone) e i compromessi col sistema Incalza (il viceministro Nencini e il sottosegretario Del Basso de Caro).
Ma anche gli incompetenti e gli inefficienti.
L’idea che un indagato non possa avere ruoli di pubblica responsabilità e che anche un non indagato debba sloggiare se è inadeguato o imbarazzante per i suoi comportamenti, è condivisa da tutti gli italiani con un minimo di sale in zucca, dunque non dalla maggioranza della classe politica e giornalistica.
Ciò detto, Cantone sta bene dove sta, e chi lo candida continuamente a tutto (manca soltanto che lo propongano per Miss Italia e il prossimo Festival di Sanremo) gli rende un pessimo servigio.
Gratteri può essere un ottimo ministro della Giustizia, anche perchè la commissione di cui fa parte con Davigo, Di Matteo e altri esperti ha appena partorito un pacchetto di serissime proposte per la lotta alla malavita e al malaffare.
Ma con le Infrastrutture c’entra come i cavoli a merenda, ed è il primo a saperlo.
Il peggiore degli errori però sarebbe l’occupazione del ministero liberato da Lupi da parte del Giglio magico renziano.
I sospetti di opacità affaristiche nei dintorni di Palazzo Chigi, nati ai tempi d’oro del Nazareno con i regali a Mediaset e cresciuti a gennaio con i decreti sul condono fiscale e sulle banche popolari (con le speculazioni sui titoli di Banca Etruria) bastano e avanzano, senza bisogno di aggiungerne altri.
L’amichetto del premier Luca Lotti, poi, non ha la statura nè la competenza per ereditare la poltrona, e nemmeno Graziano Delrio (che oltretutto ha nove figli).
Forse, prima di scegliere il successore di Lupi, Renzi dovrebbe fare due cose.
1) Spiegare pubblicamente la vera ragione per cui ha auspicato le dimissioni di Lupi. L’ha fatto perchè ritiene clamorosamente sbagliata la sua politica in tema di grandi opere, per la lievitazione dei costi fino al 40%, per l’occupazione del ministero da parte degli Incalza e degli altri faccendieri?
O “soltanto” per l’orologio e l’aiutino al figlio?
La prima ipotesi impone un radicale cambio di rotta, iniziando dallo smantellamento della legge Obiettivo di Lunardi & B., che è l’apoteosi dei conflitti d’interessi.
La seconda significa che, se Lupi fosse scapolo o senza figli, sarebbe ancora al suo posto.
2) Fissare un nuovo programma sulle infrastrutture (anche perchè l’attuale l’ha scritto Incalza) consultando il Parlamento e i migliori esperti del settore, estranei ai soliti giri e alle solite greppie, portatori di un pensiero moderno e ambientalista che non soffra di sindrome Nimby (“non nel mio giardino”), ma non abbia paura di cancellare le opere inutili, costose, dannose e superate dai tempi.
Soltanto dopo avrà un senso parlare di nomi e scegliere la persona giusta per dirigere il ministero.
Possibilmente celibe (o nubile), oppure vedova.
E soprattutto sterile.
Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 22nd, 2015 Riccardo Fucile
NEGLI ULTIMI DUE ANNI NE SONO ARRIVATI 3.500: TASSAZIONE MINIMA, COSTI DIMEZZATI… E UN PENSIONATO RADDOPPIA IL TENORE DI VITA
Perchè andare a vivere in Tunisia? C’è chi lo ha fatto per mettere via qualcosa per i figli. Chi non ce la
faceva a vivere con 600 euro al mese. Chi è stato attratto dal clima. Hanno motivazioni diverse. Ma sono tutti pensionati. E hanno visto gonfiarsi le pensioni in un Paese con costi dimezzati rispetto all’Italia.
Pur provando un grande dolore per le vittime del tragico attentato terroristico al museo del Bardo di Tunisi, costato la vita anche a 4 italiani, i tanti pensionati con cui abbiamo conversato sostengono di sentirsi al sicuro.
Andarsene via? «Nemmeno per idea! Un attentato così può accadere in qualunque città del mondo. È successo a Londra, Madrid, New York e in molte altre città », ripetono all’unisono.
«In Tunisia ne sono arrivati 3.500. Un fenomeno in forte crescita negli ultimi due anni. Dal 2014 siamo la maggiore comunità di pensionati, più dei francesi. Gli arrivi qui ad Hammamet sono all’ordine del giorno», racconta Rosario Fazio, 44 anni fondatore di Tunisiadavivere: «La tassazione è favorevolissima: lo Stato tunisino concede la detrazione dell’80%, il reddito imponibile scende così al 20% della pensione. E su questa parte si applica, nel caso peggiore, un’aliquota del 35 per cento. Semplificando, si paga in media solo il 4-5% di tasse su tutta la pensione.
Una di 2mila euro al mese in Tunisia può essere paragonata a 4.600 euro .
Ecco perchè il 70% dei pensionati viene qui anche e soprattutto per aiutare i figli, a volte di 35-40 anni, strozzati dalla crisi e con lavori precari».
È il risultato della legge tunisina 2006-85 del 25 dicembre 2006, che funziona per l’Italia in virtù di una convenzione fiscale.
Per usufruirne occorre richiedere il permesso di soggiorno, aprire un conto bancario su cui sarà accreditata la pensione dall’Italia senza ritenute alla fonte, e abitare in Tunisia sei mesi più un giorno ogni anno, e nemmeno continuativamente.
Carmelo lo sapeva. Lui, 63 anni, loquace palermitano, per quasi 30 anni ha lavorato all’Enel come dirigente. Racconta con rabbia i cinque anni da esodato. Senza lavoro e senza pensione. Poi il salto.
«Ho pagato i contributi volontari per sanare la mia situazione e ora qui posso contare su una pensione di circa 3mila euro. Pensate che pago 300 euro per un appartamento di 100 metri quadri ad Hammamet e ho un consistente risparmio mensile rispetto all’Italia. Mi sono messo a fare anche lo skipper».
Ad Hammamet, dove sono oltre 600, si ritrovano nella Casa azzurra, un club gestito da Fazio dove non manca la piscina, la sauna e ogni svago. Coppie di pensionati, vedovi, divorziati, celibi. Tutti insieme. Semplici operai, piloti in pensione, impiegati, colonelli.
Lorenzo Irmici, 67 anni, ufficiale in pensione per l’aeronautica, l’ha fatto soprattutto per i figli. «Diventava problematico vivere in Italia. Un clima freddo, imposte che non finiscono più e 22mila euro l’anno di tasse sulla mia pensione, che qua crollano a 3mila euro. Posso mettere qualcosa da parte per i miei figli, di questi tempi è molto. Non ho paura. La Tunisia ha dei robusti anticorpi per difendersi dall’estremismo islamico».
Ma non sono in pochi a percepire molto di meno.
Come Sergio Fiorini, 71 anni torinese. Timido e riservato, lui, che ama definirsi un solitario con la passione della musica e della lettura, dopo una vita da contabile è arrivato ad Hammamet in settembre: «Sono andato in pensione a 65 anni. Con una pensione netta di 900 euro, e un affitto da pagare da 450 euro vicino a Torino, mi sentivo in gabbia. Facevo la vita del criceto. Non vivevo, sopravvivevo. Ora qua percepisco 200 euro in più, mi sono liberato dei debiti e posso risparmiare qualcosa per andare a trovare mia figlia che lavora in Valle d’Aosta. Pago 170 euro per la mia casetta, e il bus mi costa 20 centesimi. Certo l’Italia è la mia patria. Non si può dimenticare. Ma non voglio andare via da qui. Non sono spaventato per l’attentato. Ho iniziato a leggere la storia della Tunisia. E i coraggiosi tunisini, con tutte le loro lotte per avere la democrazia, questo non se lo meritano».
Maurizio Panciera, veneziano di 60 anni, una vita da ferroviere, preferisce sfogarsi su ciò che per lui non andava in Italia: «Una giustizia iniqua, tasse ingiuste, un welfare scadente per chi ha lavorato tutta una vita, Percepivo una pensione lorda di 2.070 euro, netta di 1.580. Qua arrivo a 1.900. E sapete quanto spendo al mese senza farmi mancare nulla? Ottocento euro, e c’è il mare, il sole. Così posso anche aiutare mio figlio che lavora a Londra».
Non è però tutto oro quel che luccica. Il sistema sanitario pubblico è carente.
Occorre rivolgersi a quello privato, sicuramente migliore. L’integrazione con i tunisini, poi, si riduce spesso a scambi di saluti quando si va a fare la spesa. Ma in tempi di crisi i pensionati non ci badano più di tanto. C’è addirittura chi ironizza sul momento del trapasso.
Qua anche il funerale costa molto meno.
Roberto Bongiorni
(da “il Sole24ore”)
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Marzo 22nd, 2015 Riccardo Fucile
NUOVI MIRACOLI ITALIANI: È RIUSCITO A RESISTERE A GENNY ‘A CAROGNA E ALLA DEPORTAZIONE DELLA SHALABAYEVA, AGLI SBARCHI FINITI IN TRAGEDIA E ALLE GAFFE CON I PM
Gli cadono intorno a uno a uno come i dieci piccoli indiani.
Nunzia De Girolamo, Tonino Gentile, Maurizio Lupi, persino Gaetano Quagliariello, rimosso nel passaggio Letta-Renzi.
Lui, invece, sta.
Angelino Alfano frange le onde come quelle statue di vergini sulle prue delle navi. Al massimo, il nostro, si bagna: quando riesce il sole, miracolosamente, è ancora ministro.
Poi guarda gli amici caduti sotto la tempesta e non sa darsi pace. Fino a ieri, però, quando ha scoperto il problema: i giornali e le tv.
Dico “una cosa scomoda”, ha annunciato alla platea Ncd riunita a Rivisondoli (L’Aquila): “I grandi giornali e le grandi tv non parlano delle cose che accadono ad alcuni e tendono a oscurare noi se facciamo bene. Il vero problema è l’informazione: se un problema riguarda il Pd la chiudono in 24 ore, si ricordano di essere liberi solo quando attaccano noi”.
Ovviamente la cosa sarebbe risolta “limitando la pubblicazione delle intercettazioni”, ha spiegato recuperando un mantra dei tempi di Silvio: “La vera separazione delle carriere non è tra pm e giudici, ma tra i pm e i giornalisti.
“La Camera faccia presto”.
Purtroppo per il ministro, se si interpretano letteralmente le sue parole, il problema sembra essere che la stampa non è libera quando parla del Pd, non certo che faccia male a criticare Ncd. Tant’è.
Il difetto di coerenza logica nei discorsi non è il suo difetto peggiore e di motivi per per cacciarlo da quando sta al Viminale — tacciamo, per amor di brevità , del periodo da Guardasigilli — ce ne sono a bizzeffe, persino al netto delle gaffe, pure notevoli: fu Alfano, per dire, ad anticipare su Twitter che l’assassino di Yara Gambirasio era stato arrestato (i pm non la presero bene, volevano tenere ancora la cosa segreta); sempre lui, dopo l’omicidio di tre bambine a Lecco, andò in tv a promettere caccia senza tregua agli assassini, proprio mentre la madre confessava. Come detto, c’è ben altro: ecco il catalogo di un ministro ridicolo (e dannoso).
Il rapimento Shalabayeva e le menzogne alle Camere
Nella notte tra il 28 ed il 29 maggio 2013 la polizia fa irruzione in una villetta di Casal Palocco, a Roma: gli agenti fermano Alma Shalabayeva e la piccola Alua, moglie e figlia del dissidente kazako Muktar Abliazov, e le riconsegnano nel giro di poche ore nelle mani del dittatore Nursultan Nazarbayev, buon amico di Berlusconi e omaggiato di una visita pure da Matteo Renzi.
Una sentenza della Cassazione, in autunno, ha certificato che l’operazione fu del tutto illegittima e condannato l’Italia a risarcire i danni alle due donne.
L’unico ad aver pagato è l’ex capo di gabinetto di Alfano, Giuseppe Procaccini, che si dimise, mentre il ministro andò in Parlamento a sostenere di non aver saputo nulla della cosa: Procaccini, però, ha dichiarato non solo che Alfano era informato del blitz, ma che ne aveva discusso con l’ambasciatore kazako e aveva definito Abliazov “una grave minaccia”.
Il ministro della trattativa Stato-ultrà : il caso Genny
È la sera del 3 maggio 2014 quando sugli schermi dei televisori italiani compare l’immagine di un signore, indosso una maglietta di solidarietà con l’omicida dell’ispettore Fausto Raciti, che — a cavalcioni della balaustra della Curva Nord — tiene in ostaggio lo stadio Olimpico di Roma. Quel signore è Gennaro De Tommaso, detto Genny ‘a carogna, e in quel momento sta aizzando la folla alle sue spalle mentre spiega a quelli della Figc che se il calciatore Marek Hamsik non va a parlare con lui, la finale di coppa Italia tra Fiorentina e Napoli non sarebbe mai iniziata.
Così avvenne, come certifica una sentenza del Tribunale del Riesame: per non aizzare ancora gli animi dopo che il tifoso napoletano Ciro Esposito era stato colpito a morte per strada, gli ufficiali di pubblica sicurezza “si inducevano a organizzare l’incontro”.
Peccato che Alfano non lo sappia: “La trattativa tra Stato e capi ultrà non sta nè in cielo nè in terra”, twittava il giorno dopo.
Le manganellate agli operai: altre bugie al Parlamento
A fine ottobre centinaia di operai della ThyssenKrupp manifestavano a Roma, nei pressi della stazione, per chiedere un accordo che fermasse 537 licenziamenti minacciati dall’azienda a Terni.
Senza alcuna ragione – come dimostrano le riprese tv – un funzionario di polizia diede l’ordine di caricare quei lavoratori coi manganelli. Alfano, in Parlamento, giustificò la cosa così: il corteo voleva bloccare la stazione Termini; agli operai era già stato detto di fermarsi; alcuni hanno tentato di infilarsi in vie secondarie per sfuggire alla polizia.
Come hanno raccontato i testimoni, e confermano le immagini, sono bugie.
Addio Mare Nostrum, Triton però produce solo più morti
L’immigrazione è croce e delizia per Alfano. Dopo la strage del novembre 2013 — poco meno di 400 vittime a poche miglia da Lampedusa — Letta e Alfano scandirono in coro: “Mai più”. Ne nacque “Mare Nostrum”, operazione con cui la marineria italiana recuperava i barconi dei migranti e li scortava in salvo: i numeri sono stati lusinghieri (140mila persone salvate), ma la cosa costa soldi e non porta voti.
Ci deve pensare l’Europa, cominciarono allora a dire Renzi e Alfano. Alla fine la montagna delle parole — già in èra renziana — partorì il topolino: Triton, operativa dal 1 novembre, pattugliamento in mare organizzato dall’agenzia Ue Frontex, ma solo entro 30 miglia dalle coste europee.
Praticamente inutile, eppure così Alfano ne parlava a dicembre: “Abbiamo ottenuto un importante risultato: per la prima volta l’Europa scende in mare, presidia la frontiera, ci mette navi, uomini e elicotteri”.
A febbraio, però, quattro barconi sono naufragati nel canale di Sicilia: 300 tra morti e dispersi in un colpo solo.
Dice Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri: “Su Triton ci aspettiamo un sostegno maggiore dall’Ue”.
Vicenda De Eccher, la rete degli “uomini di Alfano”
Negli atti dell’indagine fiorentina “Sistema”, ci sono le tracce della rete creata da Alfano nel sottopotere romano. C’è — l’ abbiamo raccontato ieri — la storia della ditta di costruzioni Rizzani De Eccher. Il titolare — colpito da una interdittiva antimafia — si rivolge a Francesco Cavallo, manager ciellino vicino a Maurizio Lupi.
Quest’ultimo si attiva e chiama il ministro, poi riferisce a De Eccher: “Ho parlato con Lupi e aveva già parlato sia con l’avvocato sia con Angelino”.
L’avvocato è Andrea Gemma, nominato in quota Alfano nel cda di Eni. Lo dice lo stesso Cavallo, al telefono, aggiungendo che pure Salvatore Mancuso, nominato nel cda Enel, è uomo del ministro.
Non solo: anche Dario Lo Bosco, presidente di Rfi del gruppo Ferrovie, viene descritto come appartenente alla “cordata di Alfano”.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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